Novelle (Bandello, 1853, I)/Parte I/Novella XXVIII
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Io crederei d’esser degno d’un grandissimo castigo, s’io una de le mie novelle che di giorno in giorno scrivo al vostro nome non dedicassi, non perchè voi siate consorte del nobilissimo e vertuoso signor Lucio Scipione Attellano, che è quell’uno a cui la vita debbo, ma perchè sempre v’ho conosciuta donna di grandissimo giudicio ed ornata d’innoverabili e lodevoli doti. Questa adunque al vostro nome ho dedicata, che non è molto il gentilissimo messer Filippo Bosso narrò in un’onorata compagnia. So che non m’accade dirvi che cortesemente l’accettiate, sapendo per chiara esperienza tutte le cose mie esservi accette. State sana.
L’anno a punto che Massimigliano Sforza per suo mal governo miseramente perse lo stato di Milano, dopo la famosa rotta fatta degli svizzeri tra San Donato e Melegnano, fu generalmente quasi di tutto lo stato cacciata la fazione ghibellina per conseglio ed opera del signor Gian Giacomo Triulzo, che ad altro non attendeva che a deprimerla. Il perchè in quei dì ai fuorusciti di Lombardia fu la città di Mantova sicurissimo porto e refugio certo, ove il signor Francesco Gonzaga marchese, uomo liberalissimo, assai ne raccolse. E ben che egli avesse dato per ostaggio ne le mani del re cristianissimo Francesco, primo di questo nome, il signor Federico suo primogenito, nondimeno volle che Mantova fosse a chiunque ci capitava libera stanza. Gran numero adunque di fuorusciti quivi dimorava, aspettando col braccio di Massimigliano Cesare esser a la patria ritornati. Ma l’impresa non successe, perciò che Massimigliano con bellissimo essercito fin su le porte di Milano venuto, quando si sperava che egli il duca di Borbone Carlo di Francia, che dentro a nome del re cristianissimo ci era, ne cacciasse, fatta levar l’oste, con frettolosi passi ne la Magna se ne fuggì. I fuorusciti alora, perduta la speranza di ricuperar la patria, attesero alcuni di loro col mezzo de la clemenza del re Francesco, il quale a molti di ciò fu cortese, a tornarsene a casa; altri andarono a Trento sotto l’ombra di Francesco Sforza duca di Bari, altri a Roma, altri nel regno di Napoli ed altrove. Ritornarono alcuni a Mantova, tra i quali messer Cornelio, chè così mi piace non senza cagione un nobilissimo e vertuoso gentiluomo nomare, ed io in Mantova ci fermammo. Era il giovine di venti quattro anni, grande, ben formato e molto bello e prode de la persona e di molte vertù dotato e dei beni de la fortuna ricchissimo, al quale la madre, che in Milano era ed aveva con arte serbato il patrimonio, mandava tutto quello che gli era bisogno, ed egli teneva casa in Mantova bene in arnese di vestimenti, cavalli e di famiglia. Egli prima che partisse da Milano si era, come ai giovini interviene, innamorato d’una giovanetta nuovamente maritata e molto nobile e bella, la quale, per non dar materia di qualche scandalo, altrimenti non mi par di dever drittamente nomare, onde Camilla la diremo. Il giovine, come colui che era gran partegiano dei sforzeschi, prima s’era molto adoperato a la venuta di Massimigliano Cesare a ciò che la patria ricuperasse, poi di continovo teneva strettissima pratica col duca Francesco Sforza, e spesso andava a Trento e non mancava tramar quanto poteva a ciò che il duca sforzesco in Milano se ne ritornasse. Ma in tutti questi traffici, in questi maneggi ed in tanti travagli non si poteva egli cavar di pensiero la sua donna, a la quale giorno e notte pensava; e molto più a lui doleva non poter vederla ed esser seco che non faceva l’esser bandito da Milano. Era questa Camilla, la quale così Cornelio ardentemente amava, fanciulletta, imperciò che a vent’un anno ancora non arrivava, ed era tra le belle di Milano riputata la più bella. E ben che tra lei e Cornelio non fosse ancor effetto nessuno d’amor seguito, nondimeno ella, che la lunga servitù e il vero amore e la singular modestia di lui aveva chiaramente a molti segni compreso, lui di core amava, e dolente oltra modo ch’egli partito si fosse, più volte questa partita pianse. Non era tra lor occorso che comodamente insieme d’amor parlassero, ma per via di colui che la carretta di lei conduceva s’avevano più e più volte scritto, ed il carrettiero, per esser alcun tempo stato al servigio de la madre di Cornelio, molto volentieri quello serviva, di maniera che se agio si fosse trovato questi amanti averebbero compiti i desiderii loro. Essendo dunque Cornelio in Mantova, come si è detto, e quivi non da fuoruscito ma da ben agiato onoratamente stando, avvenne che una gentildonna mantovana di lui senza fine s’accese; ed avendoli fatto il suo amor discoprire, egli fieramente sospirando, a la messaggera che gli parlava per parte de la gentildonna, in questa forma rispose: – Buona femina, voi direte a la vostra donna che vi manda che io sempre le sarò tenuto ed ubligato di questa sua cortese ed amorevol dimostrazione che mi fa, conoscendomi oltra ogni mio merito da lei amato, e che senza fine mi duole non le poter render il contracambio, perciò che io non sono in mia libertà, nè posso in questo a mia voglia disporre, essendomi già per fede ad altra di modo legato che discioglier non mi potrei. E certo s’io fossi mio come son d’altrui, suo senza fallo sarei, parendomi che la sua beltà, i leggiadri costumi e le gentili maniere siano degne, non che da’ pari miei, ma da molto maggiori siano onorate e servite. Nondimeno tutto quello che io in servigio suo con la roba e con la vita potrò fare, pur che de la mia fede a quella per cui moro e vivo non manchi, il farò sempre volentieri. – Partì la messaggera, avuta questa risposta, e a la donna il tutto puntalmente riferì, a la quale quanto fosse duro ed amaro esser rifiutata, pensatelo voi, amabilissime donne, e vestitevi i panni suoi. Ella era giovine di venti sei in venti sette anni e dai primi gentiluomini di Mantova vagheggiata e, come io di certo poi seppi, non aveva mai nessuno amato ed amava ferventemente il nostro Cornelio. Io dirò pure ciò che a Cornelio alora ne dissi, chè essendo io tornato in quei dì da Trento egli questa istoria mi narrò. – Cornelio mio, – diss’io, – perdonatemi se vi parlo troppo liberamente, ma l’amicizia fraternale che è tra noi mi dà ardire di dirvi questo e maggior cosa ancora, ogni volta che l’occasione mi s’offerisca. Voi mi dite che in Milano sète altamente e senza fine innamorato, ed io ve lo credo, sapendo quanto le nostre gentildonne sono tenere e dolci di core e ad amar inclinatissime. Ma di grazia, pensate voi che quella che voi amate abbia più privilegio che l’altre non hanno e che in questo tempo che noi siamo fuor de la patria, se alcuno le sarà venuto a le mani che le sia piacciuto, che ella non si sarà saputa pigliar quel piacere che la fortuna innanzi le averà presentato? Siate pur sicuro che non c’è al mondo donna che, potendo amorosamente pigliarsi trastullo con persona che le aggradi, manchi di prenderlo, pur che la cosa segretamente si faccia. Io, come sapete, ho in Milano molte parenti, per esser la nostra famiglia Bossa numerosa ed antica, e credo pur che le mie sorelle e l’altre parenti siano di carne e d’ossa come l’altre con le quali io ho praticato, chè per esser a par di voi vecchio ne ho esperimentate pur assai. Le donne, fratel mio, sono donne e fanno generalmente le cose da donne. Voi vi state tutto il dì a beccare i getti come fanno gli sparvieri e non vi pigliate un piacer che sia, e pensate che quella che amate faccia così, e grossamente, per mio parere, sète ingannato. Ma si ponga ch’ella v’ami, che vi servi la fede e faccia come voi fate, chè non credo sia così sciocca che se ne stia con le mani a cintola: che danno, che vituperio, che scorno le fate voi se essendo qui con qualche donna vi pigliate piacere? Che nocumento ne viene a lei? Fate pur qui ciò che volete e fate come facciamo tutti, che per non parer guerci mangiamo da tutti dui i lati e pigliamo del bene quando ne possiamo avere, perciò che tutte le lasciate son perdute. Questa gentildonna qui v’ama e vi ricerca, ove voi devereste ricercar lei e pregarla. E che diavol volete voi più? Ricordatevi che la fortuna porta i capelli in fronte e di dietro è calva. Se ella vede che voi disprezzate l’occasioni sue e s’adiri vosco, voi potrete dire come dicevano i fiorentini quando Giovanni Galeazzo primo duca di Milano dei Vesconti aveva il campo intorno a le mura di Firenze, ed il giorno di san Giovanni Battista fece correr il palio su le porte d’essa Firenze; dico che i fiorentini dicevano: – Cacata l’abbiamo, se la morte non ci aiuta. – Sì che per non venire a simil passi, datevi buon tempo quando potete, e fin che staremo qui accomodatevi con questa gentildonna, e poi quando saremo a Milano vi trastullarete con quell’altra. – Mill’altre ragioni gli dissi, ma io cantava a’ sordi. Egli era pur deliberato non romper la fede a quella sua donna e mi pregò che in questo più non gli ragionassi. La buona gentildonna mantovana, avuta la risposta di Cornelio, restò molto confusa, smarrita e di mala voglia. Tuttavia, facendo di necessità vertù, s’acquetò ed il suo ferventissimo amore cangiò in una fratellevol amicizia e domestichezza, ed ancora oggidì ama Cornelio come fratello. E la prima volta che seco parlò dopo la risposta avuta lodogli assai il suo fedel proposito, nè cessa ogni dì, a la presenza di chiunque parla d’amore, dire che Cornelio è il più leale e fedel amante che si truovi. Cornelio adunque ogn’altro amore messo da banda, solamente a la sua donna che in Milano era pensava, nè altro conforto aveva che ricever talora lettere da lei e riscriverle, chè gli pareva pur esser un refrigerio a le sue amorose passioni. Con questa debole aita e lieve conforto egli a la meglio che poteva il tempo trapassava. Avvenne che in quei dì gli fu recata una lettera che la sua donna gli scriveva, per la quale entrò in diversi pensieri e non sapeva ciò che far si devesse. Occorse al marito de la Camilla dever andar fuor di Milano a certi suoi luoghi ed ivi dimorar qualche poco di tempo. Il che ella sapendo, a Cornelio, come era suo costume, un’amorosa lettera scrisse, e tra l’altre cose ci erano queste parole: – Vedete mò, signor mio caro, se voi ed io abbiamo la fortuna ai desiderii nostri avversa e se dolerci a ragione de la nostra mala sorte possiamo, con ciò sia che ’l signor mio consorte è per andar fuor di Milano a un dei nostri luoghi e starà lontano qualche giorno. E se voi fossi qui mentre egli se ne starà fuori, noi averemmo agio d’esser insieme; ora io non ci veggio ordine, del che eternamente averò da dolermi. – Mille altre amorevoli parole v’erano scritte come scriver sogliono le giovanette che fervidamente amano. Cornelio, subito che ebbe letta la lettera e mille e mille pensieri su quella fatti, restò molto dubio e pensoso. A la fine andò a ritrovar il suo Delio, il quale egli quanto se stesso amava e fin quando eravamo in Milano era di questo amore e d’ogn’altro fatto di Cornelio consapevole, e a Delio posta la lettera in mano disse: – Leggi. – Delio, presa la lettera e quella letta, quasi indovino di quanto Cornelio pensava di fare: – Tu vorresti, – disse, – amico mio, andar a Milano e farti tagliar il capo fuor d’ogni convenevolezza. Io mi accorgo bene che costei vuol esser cagione de la tua morte e di più farti morire vituperosamente, chè sai bene come i francesi t’hanno in norma. – Tu sei sempre su queste terribilità, – disse alora Cornelio. – Ma ascoltami un poco, perciò che io vorrei che senza passione consegliassimo questa andata e vedessimo che modo si deve tenere che sia il minor male. Tu sai quanto io amo costei e quanta pena le ho durato dietro servendola ed onorandola, e fatta ogni prova per potermi trovar privatamente seco e che mai non ci è stato ordine. Ora che il marito non ci sarà, potrebbemi egli di leggero venir fatto che io mi ritrovassi seco ed avessi quello che tanto ho desiderato. Il che seguendo stimerei molto più che qual altra ventura mi potesse avvenire. Or che ne dici tu? – Cornelio mio, – rispose alora Delio, – tu vuoi che senza passione questo fatto consegliamo ed io non vi veggio modo, perciò che tu sei troppo appassionato dietro a costei e tanto sei fatto ceco, che la morte tua, che dinanzi agli occhi hai, da te veder non si puote. Onde bisogna che tu ti lasci governar a chi non ha gli occhi velati. Tu sai bene se io t’amo, avendo fatto di me tanti cimenti. Perciò attendi a quello ch’io ti dico e cavati dal capo questi ghiribizzi, chè ciò che tu pensi son proprio chimere. Io farò teco quell’istesso che vorrei in simil caso facessi meco. E questo è che io ti conseglio che a patto nessuno tu non vada a Milano. Non ti sovviene egli che tu sei per rubello bandito, e tutti i tuoi beni confiscati? A pena sarai quindi partito che in Milano si saperà. Egli è il tempo del carnevale, e questa città ogni dì è di mascherati piena, e qui ci sono molti che spiano tutto ciò che tu dici e fai. E di già sei stato da Milano avvertito che tu non puoi far cosa che quivi non si sappia. Se, che Dio nol voglia, tu ci vai e per disgrazia vieni a le mani dei francesi, non ti camperebbe quant’oro è al mondo che non ti fosse mózzo il capo. Vuoi tu a posta d’un breve e fuggitivo piacer perder la vita? Poi, che certezza hai tu d’andarvi sicuro? E’ ti conviene passar per Cremona, per Soncino, o vero da Pizzighitone e da Lodi, ed in tutti questi luoghi sei più conosciuto che l’ortica. Ma mettiamo che tu vada per vie disusate per non esser visto in questi luoghi; che sicurezza hai tu, quando sarai colà, che tu possa aver da costei ciò che tanto brami? Io per me credo che ella, sapendo che tu non puoi nè dèi a modo veruno andar a Milano, t’abbia di questa maniera scritto per dimostrarti che di te vive ricordevole e che non mezzanamente t’ama. Chè quando ella fosse certa che tu ci devessi andare, penso che in altro modo t’averebbe scritto. Orsù, mettasi per fermo che ella sia tutta presta, quando sarai là, di far ciò che tu vorrai; non dèi pensar che casa è quella, e che, se bene il signor suo consorte si parte, che restano sempre molti al governo de la casa? Non sai che donna austera è la sua vecchia, che mai non se le parte da lato e che forse mentre il marito sta lontano dorme seco? Vuoi tu per un’ora d’amaro trastullo e di noioso piacere metter la vita a rischio? Che si direbbe di te se per disgrazia, di questa andata, male te n’avvenisse? Tu sei riputato, ben che giovane, saggio e prudente e più maturo che gli anni tuoi non ti danno; non ingannar la general openione che si ha de la tua prudenza. Se fosse bisogno che tu andassi a Milano in servigio e beneficio del tuo signore e male te ne succedesse, almeno da ciascuno e dai nemici medesimi ti sarebbe avuta compassione, e ne saresti lodato come leale e fedel servidore al tuo padrone. Ma per simil effetto veramente eterno biasimo e vituperosa infamia, oltra il danno, ne averesti. Serba, fratel mio, questa vita, di cui sì poco ti cale, a meglior uso e a più onorata impresa che non è questa. – Parve che Cornelio a questo conseglio molto si raffreddasse ben che mal volentieri e, non sapendo che rispondere, disse che la notte era madre dei pensieri, e che meglio ai casi suoi pensarebbe e che poi sarebbero insieme. E con questo da Delio si partì. Come la notte fu venuta e che Cornelio tutto solo si ritrovò, non potendo dormire, lasciò il freno ai suoi pensieri e tra sè rivolgendo varie cose ed al ragionamento con Delio fatto pensando, non ci essendo chi contra lui parlasse, da l’appetito superato e vinto deliberò, se ben la morte riceverne dovesse, andar a Milano. Il perchè, levatosi di letto a l’apparir del sole, andò a ritrovar Delio che ancora era nel letto e gli disse: – Delio mio, io ho deliberato, avvenga mò ciò che si voglia, venuto che sia il tal dì, come la notte cominci ad imbrunire partirmi e andar di lungo a Cremona e attender che la porta sia aperta, chè a buonissim’ora s’apre, e andar a casa del nostro messer Girolamo ed ivi star tutto ’l dì e poi la sera al tardi uscire ed andarmene di lungo presso a Lodi a Zurlesco, ove io sarò segretamente albergato a casa del cavalier Vistarino, ed ivi anco starmi tutto il dì fin presso la sera, e da Zurlesco poi andar a Milano ove io arriverò a le tre ore di notte. Tu sai che la porta Ticinese da ogn’ora s’apre donando un soldo al portinaio, e tutto dritto me n’anderò a casa del nostro messer Ambrogio. – Quando Delio ebbe inteso l’animo di Cornelio, egli si sforzò con evidentissimi argomenti rimoverlo da tal viaggio. Ma puotè dire ciò che volle e ciò che seppe, che Cornelio determinatamente si risolse ad ogni modo voler gire e per ultima conchiusione disse: – Io vo’ tentar la mia fortuna. Se la cosa mi succede com’io desidero e spero, qual mai amante fu più di me fortunato e felice? Ma se altrimenti avverrà, almeno averò questo conforto, che colei, che io più che la vita propria amo, conoscerà chiaramente la mia servitù esser vera e non simulata. – Delio, dapoi che vide che Cornelio era pur disposto mettersi a tanto rischio, e rimedio non ci era da farlo distornare, gli disse che, poi che egli voleva ad ogni modo andare, che lasciasse i suoi servidori in Mantova e pigliasse altre persone, di cui si poteva fidare e in Milano non erano conosciute. Il che fece egli e con tre servidori si mise ad ordine. Venuta poi la sera determinata, egli celatamente uscì di Mantova e, secondo la deliberazione da lui prima fatta, pervenne a le tre ore di notte a Milano, e dritto se n’andò a casa di messer Ambrogio suo fedelissimo amico. Ove giunto fece picchiar da un dei servidori e dire che messer Ambrogio venisse a basso, chè un gentiluomo gli voleva parlare. In quello Cornelio fece un fischio, al quale messer Ambrogio conobbe che questo era Cornelio e scese giù, ed aperta la porta disse: – Chi è là? – Cornelio senza risponder fece un certo segno, onde messer Ambrogio, certificato del vero, fece ritirare a dentro le torcie che seco erano venute ad allumare il camino, e lietamente il suo amico raccolse. E fatto subito aprir una camera terrena, in quella fece entrar Cornelio, nè volle che nessuno di casa sapesse chi si fosse, eccetto un suo fidato famiglio. Era del mese di febraio ed erano molti dì che nè pioggia nè neve avevano rotte le strade, di modo che era la polve per tutto. Onde Cornelio aveva avuto comodo cavalcare. Venuta la matina, Cornelio mandò per un sarto, per il cui mezzo egli riceveva le lettere de la Camilla. Venne il sarto e fece meravigliosa festa veggendo Cornelio. Parlarono insieme buona pezza e poi Cornelio diede al sarto una lettera, che portasse a la sua donna. Come ella conobbe l’amante suo esser in Milano, lieta insieme e dolente si ritrovò. Lieta, chè sperava veder il suo Cornelio, dal quale, essendosi posto a tanto periglio, ella portava ferma openione che da lui era unicamente amata. Si trovava poi molto di mala voglia, perciò che fra un giorno o dui ella aspettava il marito. Ora devete sapere che ella, ne la lettera che scrisse a Mantova a l’amante errò nel giorno de la partita del marito; il che fu cagione che Cornelio tardò più di quello che era il bisogno a partirsi da Mantova. Al sarto diede la donna alora un bollettino, ove scriveva al suo Cornelio che quel giorno stesso tra le vent’una e le ventidue ore ella l’attenderebbe su la porta del suo palazzo, e che egli mascherato ci andasse e facesse un certo segno. Venuta l’ora, Cornelio, con quelli abiti di varii colori e lunghi che in Milano dai gentiluomini s’usano, con certi pennacchi in capo si mascherò e montato suso un bellissimo e leggiadro giannetto verso la stanza de la sua Camilla tutto solo s’inviò, e quella sulla porta più che mai vaga, bella ed aggraziata, che con alcuni gentiluomini ragionava, ritrovò. Quivi Cornelio giunto, inchinandosi a la donna fece il segno, e senza parlar se ne stava. Quei gentiluomini veggendo un mascherato che senza far motto appresso loro s’era fermato, e giudicando che a la donna senza testimonii volesse parlare, come discreti che erano, dato di piedi a le lor mule si partirono, ed a Cornelio, senza saper a cui, lasciarono il campo libero. Egli, come furono partiti, salutò riverentemente la donna, la quale fatta di mille colori stette buona pezza senza poter parlare. Cornelio era quasi fuor di sè e a pena credeva esser vero che egli fosse ov’era, e la sovrana bellezza de la sua cara donna contemplava. A la fine, rotto il dolce e sospiroso silenzio, cominciarono a ragionare e narrarsi le lor passioni amorose, ed ai ragionamenti loro ebbero la fortuna assai favorevole, perciò che ancora che mascherati ed altri gentiluomini passassero per quella contrada, nessuno pertanto, veggendo la donna a stretto ragionamento con un mascherato, vi s’accostò, di modo che fin a l’imbrunir de la notte ebbero agio di dire quanto loro aggradiva. La donna fieramente il riprese che a sì periglioso rischio egli si fosse posto e che, pur avendo deliberato venire non fosse venuto a tempo, imperò che ella d’ora in ora il suo consorte attendeva. Cornelio le mostrò la lettera, onde, leggendola ella, s’accorse che s’era ingannata di più d’otto dì del termine de la partita di suo marito, e restò forte sbigottita. Nondimeno ella venne con l’amante in questo accordio, che ella a le quattro ore di notte l’attenderia, e da la donzella, che era de l’amor suo consapevole, lo farebbe metter in casa, facendo egli un certo segno. Ma se quella sera il marito a caso fosse venuto, egli come avesse fatto il segno sentiria a una de le finestre de la sala grande la donzella che diria: – Io aveva pur posto qui su il pettine e non ce lo truovo. – Cornelio, avuta questa promessa, lieto oltra modo a l’albergo ritornò e fece una picciola colazione, e sentendo al brolletto dar il botto de le quattro ore, armato di giacco e maniche con guanti di maglia, prese una spada d’una mano e mezza, e verso la stanza de la sua donna se ne andò. Ove giunto che fu, attese che l’uscio se gli aprisse. Mentre che egli in questa aspettazione dimorava, sentì non troppo lunge da sè far una gran mischia d’armati che si percotevano molto fieramente, ed uno venir correndo e gridando: – Oimè che io son morto; – il quale dinanzi la porta de la donna cascò in quello a punto che la donzella l’aprì e che Cornelio dentro entrò. Era la notte molto oscura, di modo che senza lume niente si vedeva. Ma per la mischia ed il romor che si faceva, furono pur alcuni dei vicini che a le finestre con lumi si fecero, di maniera che uno che di rimpetto a la donna stava vide Cornelio con l’ignuda spada in mano entrar ne la detta casa. Cornelio aveva ben sentito cascar in terra uno quasi dinanzi ai suoi piedi, ma egli altra stima non ne fece, non pensando ciò che si fosse, chè il core ad altro rivolto aveva. Entrato in casa, fu da la donzella messo in una camera tra la pusterla e la porta de la casa a ciò che quivi attendesse fin che Camilla venisse. La quale inteso da la donzella come l’amico era venuto, fingendo non si sentir troppo bene, volle che ciascuno andasse a dormire. I servidori, non ci essendo il padrone, come madonna gli disse che si ritirassero, essendo di carnevale, tutti andarono fuor di casa a dormir altrove, di modo che uomo nessuno ci restò se non il canevaro che era molto attempato e dui paggi di tredici in quattordici anni per ciascuno. Le donne di casa licenziate da la padrona s’andarono tutte a corcare. Come Camilla sentì che ciascuno era ito a dormire, ella con la donzella scese a basso più chetamente che puotè per menar Cornelio di sopra. Ora, mentre che queste cose si facevano, s’abbattè a caso la guardia del capitan di giustizia a passar per la contrada. Era capitan di giustizia monsignor Sandiò, uomo molto grande e grosso, e tanto che forse un altro sì fatto non si sarebbe di leggero trovato, e teneva a quell’ufficio per suo luogotenente Momboiero. Il barigello avendo inteso de la questione che alora era finita e trovato uno staffiero del signor Galeazzo Sanseverino, alora gran scudiero del re cristianissimo, che ancora era caldo e non finito di morire, fece uscir di casa alcuni quivi vicini abitanti e volle da loro intender come la mischia era seguita. Nessuno seppe dire che cosa fosse, se non che avevano sentito gran romore ed un batter d’arme. Uno poi disse che aveva veduto entrar in casa di madonna Camilla un grand’uomo con una spada ignuda dinanzi a la cui porta era lo staffier morto. Andò adunque il barigello a la casa di madonna Camilla ed a la porta fieramente percotendo e francese parlando, senza fine sgomentarono Cornelio e la donna, dubitando ciascun di loro che per spia non si fosse scoperto come Cornelio quivi era. Non era a pena entrata la donna ne la camera, ed il suo amante affettuosamente abbracciato quasi non aveva ed egli lei, quando la guardia del capitano di giustizia a la porta bussava. Cornelio sentito il romore da subito conseglio aiutato, con l’aita de la donna e de la donzella messi duo scanni l’uno sovra l’altro s’ascose dentro la cappa del camino, e sovra dui grossissimi arpioni di ferro, ai quali le catene appender si sogliono, con i piedi fermatosi, se ne stava dritto con la spada in mano. Levati via gli scanni e la camera serrata, disse la donna: – Chi è là? chi bussa? – E fattosi recar le chiavi, e scese alcune altre donne e venuto il canevaro al romore, fece la porta aprire dicendo più animosamente che poteva al barigello: – Che ricercate voi a quest’ora? – Egli, che aveva inteso il palazzo esser di persona molto onorevole, disse a la donna: – Dama, perdonateci se noi a tal ora vi diamo disturbo, perciò che mal volentieri il facciamo. Ma essendomi detto che colui che qui di fuori ha ammazzato uno staffiero su la porta vostra, che stava con monsignor il grande, è entrato qua dentro, io son venuto con la guardia per pigliarlo, se v’è. – La donna che de l’amante temeva, come udì questo, mezza rassicurata, sapendo ove egli s’era nascoso rispose: – Monsignore, io come si fece notte, perchè il signor mio consorte non è in Milano, feci chiavar la porta e so che dapoi nessuno è entrato ne la casa, avendo io sempre tenuto le chiavi appo me. Nondimeno per sodisfazion vostra vi farò aprir tutte le stanze de la casa. Cercate voi. – E così primieramente entrarono ne la camera ove Cornelio dentro il camino era e per il luogo d’alto contemplava le stelle sentendo più freddo che non voleva. Quivi sotto le banche e sotto il letto e per tutto ricercando ed i forsieri qua e là girando, uno dei sergenti che volle far il più diligente diede d’una alabarda ne la fune che sosteneva il padiglione sopra il letto, ed il tutto andò sossopra. Cornelio stava cheto dicendo tra sè i paternostri de la bertuccia. Usciti gli sbirri di quella camera, andarono per tutti i luoghi di casa e non ci lasciarono nè buco nè chiazzettino che non cercassero, e non si trovando se non i duo paggi ed il vecchio canevaro, discesero ne le rivolte terrene e dubitando che forse il malfattore si fosse dentro le botte riposto volsero sentir il sapore di quasi tutti i vini. Era entrato ne la casa gente de la contrada, come in simil accidente si suole, e tra gli altri v’era colui che detto al barigello aveva l’omicida per certo esser in casa. Onde là dentro non si trovando malfattore alcuno, volle il barigello che l’accusatore a corte fosse menato, pensando che egli qualche cosa di questo caso sapesse. Non era ancora il barigello con i sergenti a mezza la contrada, quando il marito di madonna Camilla sovravvenne, il quale ritrovando la porta aperta ed assai gente de la contrada con la moglie e sentendo tra loro gran bisbiglio, si meravigliò forte che ciò potesse essere. La donna, come vide il marito, restò più morta che viva e gli disse: – Oimè, signor mio, vedete un poco come gli sbirri del capitan di giustizia hanno acconcia questa camera e tutta la casa, – e dicendo questo lo prese per mano e menollo dentro la camera ove Cornelio era; e per far intendere a l’amante che il marito si trovava in casa, assai forte diceva: – Guardate, marito mio, come questi ladroni hanno ogni cosa sossopra riversato. – E quivi narrò ciò che il barigello era venuto a fare. Il marito, che si sentiva stracco e che più voglia aveva di riposar che d’altro, disse: – Moglie, andiamo a letto e dimane poi s’attenderà a queste cose. – Quando Cornelio a la voce conobbe il marito de la donna essere arrivato, quasi che tramortito non cadde giù e non sapeva che farsi, tanto restò stordito. Ora, data licenza a quei de la contrada che in casa erano, fu serrata la porta. Era la stalla vicina a la casa in un’altra stradella ove i cavalli furono menati. Il marito de la donna andò di sopra a le sue camere e fece accender il fuoco e attese a farsi spogliare e mettersi in letto. In questo mezzo, il fattore con un compagno s’era corcato ne la camera ove Cornelio appiattato nel camino era molto di mala voglia, nè sapeva che farsi. Colà dentro anco alcuni altri servidori avevano messo dui archibugi e tre giannettoni ed andati in altre camere, ove solevano dormire. La donna, lasciato il marito che s’era già messo a letto, discese a basso con la donzella per veder se v’era ordine di liberar Cornelio, e veggendo che quei dui erano in letto disse: – Voi non devevate mettervi qui per esser ogni cosa riversata. – E in questo sovravvenne il maestro di casa, che disse: – Signora, per questa notte eglino staranno come ponno. Dimane poi il tutto si acconcerà. Andate pur a riposare, chè deve oggimai esser mezza notte. – Veggendo la donna che altro soccorso a Cornelio dar non poteva disse: – Io era scesa anco per veder che qui dentro non si facesse fuoco, perciò che la cappa del camino di sopra respira e si potrà di leggero accendere il fuoco in casa. – E detto questo se n’andò di sopra, pensando di continovo a l’amante, e trovò che già il marito era per dormire. Ella a lato a lui corcatasi gli disse – Signor mio, voi sète pur tardi giunto a casa per questi così freddi tempi. – Io, – rispose il marito, – questa matina partii da Novara con animo di venir questa sera a casa. Ma a Buffaloro dai nostri parenti Cribelli fui gran pezza intertenuto, di modo che mi cangiai d’openione e deliberai venir a cena e a dormir al nostro luogo sovra il Navilio, e tardi ci arrivai. Il castaldo ne preparò una buona cena e fece la scusa che male averemmo da dormire, conciò sia che i letti, dapoi che dentro per la guerra si portarono, non si sono poi mandati fuori, ed io credeva che ci fossero stati condotti. Udito questo, deliberai come si fosse cenato venirmene qua. Il camino è buono e la via sicura, e così ho fatto. – Ora Cornelio, che aveva sentito la venuta del marito di Camilla ed alcuni entrar nel letto in quella camera e udita la donna che era discesa, e a ciò che non si facesse fuoco, non ebbe mai la maggior paura al mondo, dubitando vinto dal sonno di cascar in basso ed esser da quei di casa morto. Da l’altra parte egli sentiva un freddo e gelato aere che giù per il camino discendeva, il quale fin a l’ossa gli penetrava. Fu egli più volte in pensiero di lasciarsi più soavemente che fosse possibile calar giù, sentendo quelli dormire che in camera erano, e fuor di camera uscire. Ma per non esser pratico de la casa non sapeva poi come uscirne o dove ritirarsi. Sentiva egli dolor nei piedi grandissimo per esser gli arpioni tondi e malegevoli a potervisi lungamente fermar su, di modo che a pena vi si poteva sostenere. Nondimeno, sperando pure la matina quindi esser cavato, con questa debole speranza andava se stesso ingannando, e a la bellezza de la donna pensava e talora tra sè diceva: – Questa che ora io soffro acerbissima pena non è tanta, che molto maggiore sofferir non si debbia per goder tanta bellezza e tanta leggiadria quanta è in costei. E come potrebbe ella conoscere che io perfettamente l’amassi, se per amor suo e questi e molti maggior perigli e più acerbe pene non sofferissi? – Con questi pensieri, da fervente amor aiutato, si dispose animosamente il tutto sopportare. Aveva, come già s’è detto, il barigello menato in corte l’accusatore e quello presentato dinanzi a Momboiero, il quale l’essaminò e minacciollo di darli de la fune e farli molti strazii, se egli non diceva la verità del caso occorso de l’omicidio de lo staffiero. Il pover uomo, che altro non sapeva se non aver veduto uno entrar in quella casa con la spada ignuda in mano, replicava quanto detto aveva. Il perchè Momboiero comandò al barigello che di nuovo a la casa se ne andasse e ricercasse diligentemente per tutto. Egli v’andò, e picchiato fortemente fu quasi da tutti di casa il romor sentito. Onde il primo che si levò fu il canevaro, che si fece dar le chiavi e con licenza del padrone andò ad aprire. In questo mezzo il padrone de la casa si vestiva. Il barigello entrato in casa e del capo dato ne la camera ove Cornelio era, che il tutto aveva sentito e dubitava non esser da’ sergenti de la corte ricercato sotto specie di cercar altro; il barigello, dico, veduti quei dui a dormire, che vinti dal sonno ancor non erano desti, trovate in camera arme d’aste e da fuoco, prima tutti dui fece legare che eglino s’accorgessero esser presi. Non era guari che il fattore era uscito di prigione, ove era molti giorni stato per cagion di certe ferite che aveva date a un lavoratore. Essendo dal barigello conosciuto e dicendo che cosa era questa, gli disse il barigello: – Tu il saperai tosto e pagherai questa e l’altra. – Venne giù il cancegliero in quello che i sergenti montavano le scale e da loro fu gremito. Il padron de la casa, intendendo questo, e forte meravigliandosi di tal accidente, essendo mezzo vestito, venne incontra al barigello, il quale come lo vide gli disse: – Monsignor, voi sète prigione del re cristianissimo. – Il dire ed il gremirlo fu tutto uno. Presero anco tre o quattro degli altri che gli vennero a le mani, facendo il maggior strepito del mondo, di modo che pareva che in quella casa fosse il giorno del giudizio. Cornelio che sentiva il tutto diceva tra sè: – Aiutimi Iddio, mò che diavolamenti son questi? – Il padrone voleva pur scusar i suoi e se stesso e dir che era poco innanzi mezza notte venuto di villa con tutti quei suoi, ma nulla gli giovava, perciò che tutti, che furono nove, in quell’ora furono condutti in corte a le prigioni del capitano di giustizia. Madonna Camilla, veggendo quest’altra disgrazia, piangeva dirottamente. Tuttavia sapendo il marito con i suoi di casa esser di quello omicidio innocente, ringraziava Iddio che questo avvenuto fosse per poter liberare il suo fedel amante. Onde fatto serrar la porta e mandato il canevaro con i paggi e le donne a dormire, entrò con la sua cameriera ne la camera ove Cornelio aspettava il Messia. E venuta sotto il camino, asciugate le lagrime e tutta ridente a Cornelio disse: – Anima mia dolce, che fate voi? come state? Ora potete voi sicuramente scender giù, chè Iddio per schifar maggior scandalo ha permesso che il signor mio consorte con una gran parte dei suoi servidori sia stato condotto a la corte. – La donzella, posti gli scanni come prima, insieme con la madonna gli tenne saldi. E Cornelio soavemente discendendo fu da la sua donna lietissimamente raccolto. E così di brigata ascesero di sopra e allumato un buon fuoco e Cornelio lavatesi le mani e il viso, che erano in parte da la caligine tinti, e cacciato via il freddo che nel camino preso aveva, a lato a la sua donna in letto si corcò di modo che colse il frutto del suo fervente amore, più volte con la donna de le occorse disaventure ridendo. La matina a buon’ora fece la donna andar l’amante in un camerino, ove egli commodamente di tutto quello che gli bisognava era da la donzella servito, e la madonna a suo agio quando voleva v’andava. Poi mandato per i suoi parenti, diede ordine a la liberazione del marito, narrando loro tutto il successo com’era seguito. Ma la cosa andò più in lungo di quello che si credevano, con ciò sia cosa che fu bisogno mandar a Novara un notaio de la corte per essaminar testimonii, e così anco a la villa ove avevano cenato per provare quanto il padrone de la casa con i suoi diceva, di modo che ci corse lo spazio di sei giorni prima che uscissero di prigionia. Ed in questo mezzo Cornelio tenne compagnia tutte le notti a la sua donna, a ciò che non dormisse sola e la fantasma forse le desse noia. Sapendo poi ella che il marito doveva venir a casa il dì, quella matina a buon’ora dopo mille abbracciamenti mise l’amante fuor di casa, ed egli andò di lungo a l’albergo. Dopo desinare, mascherato andò a far riverenza al signor Alessandro Bentivoglio e a la signora sua consorte la signora Ippolita Sforza, ove stando con loro a ragionamento vennero alcuni gentiluomini, tra i quali uno ci fu che disse come in quell’ora medesima Momboiero era stato con la guardia a casa di Cornelio, avendo inteso che era partito da Mantova e venuto in Milano, e che la madre di Cornelio gli aveva mostro tutti i luoghi de la casa. Sentendo questo, Cornelio prese licenza dal signor Alessandro e da la signora Ippolita e a l’albergo se ne tornò, deliberando non star più in quei perigli. Onde, la notte montato a cavallo se n’andò a la volta di Bergamo e Brescia e indi a Mantova, non volendo più far il viaggio che prima fatto aveva per dubio di non incontrar i mali spiriti per camino
E’ si suole, Pasolino mio soavissimo, communemente dire che gli uomini semplici ch’a poche cose pensano sono molto pronti a dar la sentenza di tutto ciò che si parla. Onde spesse fiate avviene ch’essendo tenuti saggi ed ingegnosi mostrano di leggero la lor ignoranza. E perciò deverebbe ciascuno prima ch’ei parli pensar bene su quello che si ragiona e non esser così facile a cicalare, e quando è domandato considerar la materia preposta e poi sobriamente dir il parer suo. Chè, come dicono le sante scritture, ne le molte ciance non mancherà il peccato. Per questo il protomaestro de la natura, quando ci fabricò, ne fece di sorte che la lingua umana stesse chiusa sotto dui bastioni, e volle che le orecchie fossero in luogo eminente e libere senza ostacolo, a fine che l’orecchia potesse tutto quello che si dice udire, ma la lingua, innanzi che uscisse fuor dei dui ripari, avesse tempo di masticare e cribrare ciò che volesse dire, con ciò sia che la parola detta è irrevocabile nè più può tornar indietro. Se adunque ciascuno, prima che parlasse, pensasse a le due porte, cioè ai denti e a le labra, molte cose