Novelle (Bandello, 1853, I)/Parte I/Novella XXIX
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Dopo desinare, mascherato andò a far riverenza al signor Alessandro Bentivoglio e a la signora sua consorte la signora Ippolita Sforza, ove stando con loro a ragionamento vennero alcuni gentiluomini, tra i quali uno ci fu che disse come in quell’ora medesima Momboiero era stato con la guardia a casa di Cornelio, avendo inteso che era partito da Mantova e venuto in Milano, e che la madre di Cornelio gli aveva mostro tutti i luoghi de la casa. Sentendo questo, Cornelio prese licenza dal signor Alessandro e da la signora Ippolita e a l’albergo se ne tornò, deliberando non star più in quei perigli. Onde, la notte montato a cavallo se n’andò a la volta di Bergamo e Brescia e indi a Mantova, non volendo più far il viaggio che prima fatto aveva per dubio di non incontrar i mali spiriti per camino
E’ si suole, Pasolino mio soavissimo, communemente dire che gli uomini semplici ch’a poche cose pensano sono molto pronti a dar la sentenza di tutto ciò che si parla. Onde spesse fiate avviene ch’essendo tenuti saggi ed ingegnosi mostrano di leggero la lor ignoranza. E perciò deverebbe ciascuno prima ch’ei parli pensar bene su quello che si ragiona e non esser così facile a cicalare, e quando è domandato considerar la materia preposta e poi sobriamente dir il parer suo. Chè, come dicono le sante scritture, ne le molte ciance non mancherà il peccato. Per questo il protomaestro de la natura, quando ci fabricò, ne fece di sorte che la lingua umana stesse chiusa sotto dui bastioni, e volle che le orecchie fossero in luogo eminente e libere senza ostacolo, a fine che l’orecchia potesse tutto quello che si dice udire, ma la lingua, innanzi che uscisse fuor dei dui ripari, avesse tempo di masticare e cribrare ciò che volesse dire, con ciò sia che la parola detta è irrevocabile nè più può tornar indietro. Se adunque ciascuno, prima che parlasse, pensasse a le due porte, cioè ai denti e a le labra, molte cose si dicono che si tacerebbero, e molti paiono pazzi che saggi sarebbero tenuti. Onde si dice che di rado avviene che il tacere dia nocumento, ma che ben spesso il mal limato cicalare reca grandissimo danno, e fa spesso, se danno non dà, parer chi parla scemonnito e semplice, come avvenne ad un nostro romagnuolo, cittadino di Forlì, il quale volendo più che a lui non si conveniva parlare, fece rider tutto un popolo. Narrandosi adunque a questo proposito un giorno nel piacevol castello di Gazuolo molte cose, il valoroso capitano Giacomo Masino disse una novella molto picciola ma bella, la quale, parendomi degna d’esser tenuta a memoria, fu da me come egli la disse scritta. E per esser accaduta la cosa in Romagna e narrata dal detto capitan Masino gentiluomo di Cesena, onde voi anco avete antica e nobil origine, ho voluto mandarvela e farne un dono al vostro onorato nome ed in parte pagar tanti piaceri che voi e tutta casa vostra, essendo io in Cesena, mi faceste. Io non mi ritrovai già presente quando il Masino questa novella disse, ma poi il signor Pirro Gonzaga me la narrò e mi commise ch’io la scrivessi e la riponessi con l’altre mie novelle, come ho fatto. State sano.
Noi siamo entrati a parlar d’una materia, gentilissime donne e voi signori e gentiluomini, la quale per il mio giudizio par una cosa molto leggera, ma chi ci pensa maturamente è cosa di gran momento. Noi diciamo proverbialmente che la lingua non ha osso, ma che rompe il dosso. E così è che dei mille errori che si commettono, i novecento procedono tutti da poco considerar ciò che si dice; chè se pensassimo bene a ciò che dir vogliamo e tra noi far giudicio se le parole nostre ponno recare a noi o ad altri profitto o nocumento, quante pappolate si dicono che si terrebbero chiuse in gola? quante questioni si fanno che non si farebbero? quanti omicidii si commettono che si lascieriano stare? Gli uomini saggi prima che la parola gli esca di bocca la masticano molto bene, ma i trascurati, e che troppo di loro presumeno, dicano tutto ciò che loro vien a la bocca, onde tanti romori poi ci nascono al mondo e tanti duelli. Dirà poi quel pazzerone e che si pensa poter con l’arme in mano star a fronte con Marte: – Io vo’ dir ciò che mi piace, e se la lingua fallirà il corpo patirà la pena. – Ma perchè non saria molto meglio non morder l’amico fuor di proposito che venir a queste mischie? E’ pare che Domenedio così permetta, che questi morditori e mal dicenti e che a la lor lingua non vogliono por freno, che quando vengano poi al menar de le mani, restano sbigottiti e non sanno ciò che si faccino, e restano con lor danno e vergogna o morti o prigioni. Ed io ne ho veduti tanti qui a Gazuolo, a Bozolo, a Gazoldo, a Mantova, a Scandiano e altrove in Italia per simil cagioni combattere, che vi potrei narrare che sempre l’ingiuriatore è restato di sotto. Ma io non voglio per adesso entrar in materia d’arme nè referir cose sanguinose, sapendo ch’io dispiacerei a queste nostre madonne, a le quali io desidero non solamente con le parole far servigio, ma con l’opere de la vita, ogni volta che l’occasione mi accaderà, di farle conoscere quanto le son servidore. Dirò adunque quanto trascuratamente un cittadino di Forlì dimostrasse l’ignoranza sua, essendo stato troppo pronto a rispondere ove egli deveva tacersi e star ad ascoltare come facevano gli altri. Onde vi dico che, non è molto tempo, essendo in Forlì seguita una occisione grandissima e rovinamento con fuoco di molte case tra ghibellini e guelfi, come spesso per le nostre malvage fazioni suole in Romagna avvenire, i frati di san Domenico, che in quella città hanno un venerabile ed antico monastero, fecero elezione d’un santissimo uomo e solenne predicatore che la quadragesima seguente devesse la parola di Dio ai forlivesi predicare ed insiememente le lor parzialità e vizii riprendere. Questo fu un fra Mattia Cattanio da Pontecorono di Lombardia, uomo in quella religione molto stimato per la sua buona ed austera vita. Come fra Mattia fu nel tempo de carnevale arrivato a Forlì, così fu dal priore pienamente instrutto dei peccati e sceleratezze che in quella città si facevano, e di tanti omicidii, abrusciamenti e rovine di case, che solamente per le parti dai ghibellini a’ guelfi si commettevano. Il predicatore del tutto pienamente informato, il primo giorno che cominciò a predicare, fatto il suo proemio e proposta e partita la sua materia che intendeva di predicare, prima che entrasse più innanzi fece una sua accommodata scusazione, che non di sua volontà era venuto in quella città a predicare, ma mandato dal suo superiore, a cui non è lecito contradire, e che, nel viaggio e dopo che era a Forlì arrivato, aveva inteso tanti enormi peccati e vituperose maniere dei forlivesi, che gli pareva non esser venuto a predicar a cristiani, ma a mori e a turchi. – La cagione adunque per cui mandato sono qui è per disbarbare e svelgere i cattivi e scelerati costumi, e con l’aiuto di Dio seminarvi i buoni ed accendervi tutti ne la carità del signor nostro messer Giesu Cristo e farvi del tutto con buon modo cangiar vita. Per questo avverrà che spesse fiate riprendendo le vostre sceleraggini sarò costretto a dire che voi sète bestemmiatori, ladri, assassini ed i maggior ribaldi del mondo. Quello ch’io dirò, tutto sarà detto a buon fine. Similmente quando io dirò che voi sète usurari, adulteri, concubinarii, invidiosi, iracondi, golosi, seminatori di risse e di discordie, nodritori di guerre civili, nemici del ben publico, parziali, omicidiari e peggio che giudei, non vi devete adirare, ma pensar che io il tutto dirò a buon fine. – E molte altre cose simili rammentando, diceva pure che il tutto diria a buon fine. Era a la predicazione un ricco cittadino che dirimpetto al pergamo sedeva, il quale aveva nome Buonfine. Questo, pensando che il frate a lui volesse solamente predicare e non agli altri, perchè era molto semplice, si levò in piede e discopertosi il capo disse al predicatore: – Padre, aspettate e non andate più innanzi. A me pare che l’onestà e il debito voglia che voi predichiate a tutto il popolo e non a me solo. Dite pur anco a Berlinguccio, a Naldino, a ser Nicola Miglietti, a lo Sterlino e a ser Simone, che sono quelli che governano il commune ed hanno in queste cose più a fare che non ho io. – E dicendo alcuni che tacesse e per nome appellandolo, il frate, conosciuta la semplicità di messer Buonfine, gli disse che non dubitasse che a tutti darebbe la parte loro. E così andò dietro al suo sermone, e il nostro ser Buonfine fu cagione che tutto il popolo del suo sciocco parlare si ridesse senza fine.
Era, come sapete, mio costume, quando in Mantova dimorava, mentre che madama Isabella da Este marchesa al suo amenissimo palazzo di Diporto si teneva, andar due o tre volte la settimana a farle riverenza, e quivi tutto il giorno me ne