XVIII

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XVII
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XVIII.

Caterina Mauri aiutava sua nipote a prepararsi un costume nuovo per un vaudeville che doveva [p. 303 modifica]andare in scena la penultima settimana di carnevale.

Cucivano tutte e due, una di faccia all’altra, presso a una tavola su cui erano distesi i diversi pezzi del costume, in raso celeste da due lire e mussolino bianco.

La vecchia tirava l’ago alacremente, col viso serio, soffocando i sospiri che di tratto in tratto le salivano inconsciamente dal cuore gonfio.

Gilda, con la testa arrovesciata, il lavoro abbandonato in grembo, le braccia abbandonate sul lavoro, guardava davanti a sè con gli occhi smarriti.

— Avrai capito male, disse scuotendosi improvvisamente e ripigliando il discorso interrotto: non può essere!

Caterina alzò gli occhi nel medesimo tempo che alzava il braccio per tirare un punto, e rimase un momento ferma in quella posizione, guardando sua nipote per di sopra agli occhiali. Ma l’espressione del suo viso, che era di risentimento, si cambiò affatto per quel breve esame e divenne triste, spaventata. Il braccio teso parve irrigidirsi mentre con l’altra mano, istintivamente, ella si toglieva gli occhiali.

— Non rispondi? — domandò Gilda: — perchè fai quella faccia?

La vecchia si ricompose subito e tornò a lavorare con le mani che le tremavano.

— Sicchè, tu credi proprio di avere inteso bene? — tornò a dire la giovane.

— Gesù mio! potrei anche avere inteso male, che vuoi ch’io ti dica!

— Ma che ti ha detto la Vimercati? — Parla dunque!... [p. 304 modifica]

— Madonna santissima! — esclamò la Caterina quasi singhiozzante. — Come vuoi che parli, se tu sei tutta stravolta, e mi dai della imbecille a tutto pasto!... Oh! lasciami sfogare anche me, povera donna, che mi rodo e non posso farmi intendere da nessuno. Ti pare che sia poca pena vederti in codesto stato di disperazione, con quel viso smorto, che non ridi mai, come se tu avessi ammazzato tuo padre o tua madre! Pensare quello che ho fatto per tirarti su, con quel birbaccione di mio fratello che s’era scordato di te, e non si è rifatto vivo altro che per farci più male! Pensare a quello che mi dicevano, e, persone autorevoli! Che tu avevi tanta testa, tanto sentimento, che ti saresti fatta onore, che ti saresti guadagnata una buona posizione coi tuoi studi! Invece ecco qui! — ella alzava in aria i calzoncini di raso — per vestirti a questo modo non c’era alcun bisogno di studiare!

Gilda cercò d’interromperla, ma non le riuscì.

— Non per farti rimprovero, sai? — diceva l’altra continuando. — Tu che colpa ci hai, poverina? Ti hanno fatto girar la testa, e è finita; alla tua età, povere quelle che ci cascano! E poi li ho visti i belli posti di maestra che ti sono capitati! Quello che mi cruccia di più è di vederti così male andata di salute e così giù di spirito. Ora il male è fatto, se sei buona il Signore ti perdonerà. Hai un mestiere in mano, che, dopo tutto non è neanche un mestiero cattivo: e quelle che vogliono si mantengono buone e savie anche sul palcoscenico. Ne ho conosciute delle altre.

— Ti ricordi — ripigliava dopo di essersi un momento interrotta per infilare l’ago — ti ricordi [p. 305 modifica]la Gina del parrucchiere da quando si stava in Porta Garibaldi? Era una ballerina: peggio che recitare a quello che dicono; eppure, se brave ragazze ce ne sono, era lei una! Ma tu sei così inquieta, così malcontenta, che non mi so proprio cosa fare!

Gilda taceva, col viso basso sul lavoro, mentre la vecchia continuava nel suo lamento.

Per lasciarla sfogare, per dominare i propri nervi, ella si era rimessa a lavorare. Quando finalmente l’altra parve esaurita, e si tacque; ella cercò di consolarla con qualche buona parola. Poi tornò al punto che più le premeva, a quello che le aveva detto la contessa Vimercati.

Allora la Caterina raccontò, meglio che sapeva, tutto quanto aveva sentito dalla bocca della Con Il signor Pianosi era diventato un uomo d importanza anche laggiù a Roma, e ora stava più volentieri là che qua; ma per non lasciar tanto tempo la famiglia scia a Milano, specialmente Lea, che ci pativa, pensava di condurla con sè a passare l’inverno.

Pareva che lui piantasse ora un’altra banca laggiù con degli altri ricconi; ma questo, lei, non l’aveva inteso bene e non poteva assicurarlo.

Quello che aveva inteso certo benissimo era, che la signora Edvige stava preparando i bauli e portava con sè una quantità di vestiti, perchè sarebbe andata molto in società; la Contessa le aveva descritto specialmente due vestiti, che ora lei non rammentava più come fossero, ma certo una magnificenza per andare ai balli della Regina. E aveva pure inteso benissimo che ora la si[p. 306 modifica]gnora Edvige aveva fatto pace con suo marito, e che la Contessa si mostrava tutta contenta di questa conclusione, perchè, diceva, tutto passa e tutto si dimentica, quando almeno si ha la pace in famiglia.

Gilda taceva; e vedendo che lavorava e pareva tranquilla, la povera Caterina soggiunse che questo pareva giusto anche a lei, perchè pure Don Gregorio le aveva detto che il peggio di tutto era turbare la pace delle famiglie; e che se Gilda non aveva questo rimorso doveva render grazie a Dio.

Gilda tirava i punti fitti fitti, a capo basso, senza fiatare.

Ora la vecchia tornava al primo argomento della inquietudine e della malinconia, e della gran bella cosa che sarebbe stata, se lei non si fosse perduta di spirito in quella maniera, ora che guadagnava sei lire il giorno col suo mestiere, e presto ne avrebbe guadagnate di più perchè al primo viaggio della Compagnia le avrebbero cresciuto la paga, come aveva detto anche Pietro.

Ella continuava così a discorrere, facendo dei progetti di economia, credendo che Gilda l’ascoltasse e sperando che le desse retta, perchè la vedeva apparentemente calma.

Ma Gilda non ascoltava, non sentiva neanche più le sue parole, se non come un ronzìo confuso.

Ella pensava se Giovanni sarebbe partito senza andare da lei.

Non si trovavano insieme da otto giorni, perchè lui aveva avuto molto da fare, e aveva dovuto fermarsi qualche giorno a Como. In teatro sì, lo [p. 307 modifica]aveva visto due volte; ma in teatro non si parlavano.

Lui prendeva una poltrona, quasi sempre vicino al Vimercati, e lei lo guardava dal palcoscenico, o dalla galleria, dove andava qualche volta quando non aveva parte altro che in principio o alla fine della serata; e questo accadeva spesso a lei, che di preferenza cantava.

Questo le rammentava i primi tempi del loro amore, e le metteva nell’anima una grande dolcezza.

Anche lui pareva felice di contemplarla, specialmente quando era sul palcoscenico. Quando cantava, egli non batteva ciglio, e più di una volta la sua voce lo aveva commosso profondamente. Ella se ne era accorta, l’aveva letto ne’ suoi occhi, nella espressione del viso, ch’ella aveva tanto osservato, tanto studiato, che non un moto, non una vibrazione poteva sfuggirle. Egli l’amava sempre. Eppure!... tutto doveva forse finire fra poco tempo.

Tuttavia non credeva che dovesse ripartire senza andare a salutarla.

Certo ella diceva che, se era vero che conduceva Edvige a Roma, se era vero che le aveva perdonato, che avevano fatto la pace, era certo meglio che loro non si vedessero più: meglio che al loro amore fossero risparmiate le brutte scene volgari, i rimproveri malfrenati, le parole ironiche, le scuse mendicate, le inutili menzogne.

Ma quell’abbandono freddo, silenzioso le pareva egualmente insopportabile.

Uno squillo di campanello la fece sussultare. Chi poteva essere altri che lui?...

La servetta andò ad aprire. [p. 308 modifica]

Gilda non potè reggere al suo posto. Premendosi una mano sul cuore, ella andò fino all’uscio che metteva nel salottino per essere pronta a corrergli incontro. Ma la piccola serva aveva richiuso l’uscio e non si sentiva altro passo che il suo. Gilda tremava tutta. S’appoggiò per non cadere. Era una lettera: l’aveva portata un facchino di studio.

La prese e andò a chiudersi nel salottino, senza guardare sua zia. Aveva bisogno di essere sola a leggere, per nascondere almeno una parte della sua angoscia.

Guardò lungamente la lettera prima di aprirla. L’indirizzo mostrava una calligrafia incerta, sconnessa. La condanna doveva essere parsa molto dura anche a lui. Anche lui soffriva.

Questo pensiero soffiò via dall’anima sua, tutto quanto il rancore, tutta l’amarezza. La sua pena raddoppiò, divenne spasimo acuto; ma in quello spasimo trovava ancora una dolcezza.

Era uno stato che somigliava a quello in cui ella era vissuta durante i primi giorni della malattia di Giovanni; si sentiva immersa nell’infinito dolore, oltre a cui nulla più esiste per l’anima; ma nessun pensiero egoista, nessuna piccola collera mondana turbava la grandezza profonda, quasi serena, della sua mortale disperazione. E questa era la dolcezza.

Qualunque cosa egli le avesse scritto, qualunque fosse la risoluzione che aveva preso, ora era sicura che gli avrebbe perdonato. Nulla, nulla per se, tutto per lui. Non era questa la sua bandiera?

Ora apri la lettera. Egli scriveva così: [p. 309 modifica]

«Gilda mia,

«Non oso ricomparirti davanti. Sono tanto indegno di te, e ne sento tanta vergogna che neppure l’ebbrezza dell’amor tuo non basta più a rallegrarmi. Ti ricordi dell’ultimo giorno che passasti in casa mia l’estate scorso quando io entravo nella convalescenza? Certo ti ricorderai! Mi avevi detto delle cose che a me parevano sorprendenti in una fanciulla. Ho poi capito che era tutto amore. Tu mi volevi persuadere che le difficoltà, che io non potevo superare, un poco per la mia indole, più per i miei pregiudizi e le fatali abitudini (e tu lo sapevi), fossero in realtà insuperabili. E tale era l’amore in te, che t’ispirava ragionamenti sottili, osservazioni profonde, veramente superiori alla tua età. Io mi lasciai cullare da quella dolce musica, non del tutto consapevole, nè del tutto inconsapevole. Te lo dissi però che avrei commesso una viltà di più! Ti ricordi? Tu dicesti che non era vero: che non potevo fare altrimenti. Io mi sono lasciato persuadere che il tuo ragionamento fosse più giusto del mio. Era tanto dolce la persuasione!

Pensai pure che tu appartenevi a una razza popolana, più forte, più nuova, almeno; che una volta illuminati dalla istruzione, voi altri vedete le cose più dirittamente e sapete affrontare la vita con più coraggio, perchè avete meno pregiudizi, di quelli instillati in noi fin dalla nascita, meno vigliaccherie ereditarie. Forse mi sono anche detto qualche cosa di meno bello. Ma lasciamene dubitare. [p. 310 modifica]

«Certo, sai, ho pensato che se tu vedevi le cose in una maniera così ragionevole, la mia coscienza poteva lasciarmi godere in pace il premio guadagnato con sì poco rischio.

«Sicuro! forza dell’abitudine di approfittare, sempre, della generosità o della spensieratezza altrui, in nostro pro. Ah! bambina, un banchiere resta sempre un banchiere! L’aritmetica è una scienza perfida. Quei piccoli numeri a forza di ripetersi scavano nel cervello e nel cuore tanti piccoli buchi, traverso ai quali tutto si filtra.

«La senti, la mia amarezza? Senti l’odio che ho per me stesso, per la mia debolezza vana, per questa maschera, che non potrò mai strapparmi dal viso?...

«Non ci avevo mai pensato, sai però, prima. Sei tu che mi hai dato come una seconda vita, affatto nuova: la vita del dolore. Senti, ti voglio dire tutto. Una volta, in principio, quando mi inquietavi con la tua bellezza, avevo pensato di poterti prendere e lasciare, come un piacere passeggero, come una medicina che mi ridonasse la calma. Ero poco stupido?

«Ora vedi, il mio grande rimorso, la mia schiacciante vergogna è appunto questa, che amandoti come ti amo e essendo amato da te, come forse pochissime donne amano, non ho fatto niente per te di quello che avrei voluto: nessun sacrificio!

«E, vedi cosa è mai un uomo di affari! non ci avrei forse troppo pensato, se non avessi notato la tristezza crescente del tuo sguardo, certi dati significativi, certi discorsi degli amici, certe loro imprese, che tu, nella tua lealtà, non hai potuto nascondermi. Povera Gilda! Quando non ti potevo [p. 311 modifica]dare il mio nome, quando non ti potevo tenere con me per sempre, dovevo rispettarti in eterno. Questa è la verità. Un amore come il tuo non si profana senza delitto. Troppo tardi ci penso, e sempre senza frutto! Cosa dirai tu ora quando saprai, o Gilda, non so come dirtelo, quando saprai che ho ceduto ai consigli degli amici, alle pressioni di persone influenti, alle preghiere di Lea, e che meno tutta la famiglia con me a Roma,... Forse è soltanto per questo che non mi sono sentito il coraggio di venire da te, oggi.

«Non avrei saputo come dirtelo; e che figura avrei fatto ai tuoi occhi quando tu lo avessi saputo dagli altri?

«Io non voglio scusarmi. So che questo fatto è uno dei miei torti più gravi verso di te, perchè ti farà soffrire tanto. So pure che è una debolezza verso la società e gl’interessi, una debolezza verso Lea, niente altro, sai! È inutile eh io ti ripeta che quella donna è morta per me, come donna. La debolezza è tutta del padre, dell’uomo d’affari e dell’uomo politico.

«Tu che sei tanto indulgente e tanto buona, certo mi perdonerai e quando tu mi dirai che mi hai perdonato io oserò ancora presentarmi davanti a te, sebbene vergognoso sempre e desiderando di scomparire.

«Dicono che a primavera la Compagnia milanese viene a Roma; chi sa se da qui a allora non potremmo essere tutti e due più calmi? Chi sa se la tua crescente fortuna nella carriera non giungerà a cancellare almeno una parte dei miei rimorsi per te?

«Conserviamo questa speranza, e, qualunque [p. 312 modifica]cosa accada, pensa sempre che puoi contare, finchè io viva, sulla inalterabile amicizia e sull’affetto del

«Tuo
«Giovanni



Ella non ebbe più che un pensiero: vederlo un’ultima volta.

Fra le molte persone che partirono quella sera per Roma, pochi forse notarono una figura femminile, alta e svelta, tutta ravvolta in un ampia pelliccia nera, il viso coperto da un velo di garza nera che s’avvolgeva ripetutamente intorno al collo. Per avere l’aspetto comune di una viaggiatrice si era appesa al braccio una borsetta di pelle, e appena scesa dal brougham era entrata nella immensa stazione e si era affrettata a prender posto presso agli sportelli, dove si cominciava in quel momento la vendita dei biglietti.

Con un’occhiata in giro, ella si assicurò che Giovanni non era là e domandò un biglietto di prima classe, per Melegnano. Poi si diresse verso le sale d’aspetto, entrò in quella destinata alla prima classe e si mise a sedere nell’ombra, ma poco lontano dall’entrata. Vi era poca gente ancora. Una vecchia signora, grassissima quasi impotente, con due giovinette melanconiche; due ufficiali superiori; un signore giovane, elegante, che passeggiava in su e in giù senza guardare nessuno, fermandosi lungamente davanti alle vetrate, come uno che è tormentato dalla impazienza, qualche altra figura seduta nell’ombra. I Pianosi non erano arrivati ancora; ma ad ogni momento arrivavano nuovi viaggiatori. Gilda teneva gli occhi [p. 313 modifica]fissi sulla entrata, allorchè, qualche minuto dopo una bimba vi si affacciò e rimase ferma sul limitare guardando curiosamente. Il suo cuore battè con violenza. Ella aveva riconosciuto la graziosa figuretta di Lea. S’irrigidì tutta e chiamò a soccorso tutte le sue forze perchè la commozione soverchiarne non la tradisse. Quello era per lei il momento terribile, in cui il soldato coraggioso, che va fieramente incontro alla morte, entra nel folto della mischia e si sente impallidire e gelare per una sensazione più forte della sua volontà.

A Lea tenne dietro la governante, figura scialba e bonaria, poi la signora Edvige, in mantello da viaggio tutto orlato di lontra, il tocco di lontra posato sui capelli biondi e contornato da una veletta azzurra, che le copriva una metà del viso, come una mascherina graziosa. I suoi occhi sfavillavano: la sua andatura, il suo vago sorriso, certi scatti giovanili, tutto esprimeva la profonda soddisfazione dell’animo suo.

Ella sedette quasi di fronte a Gilda e fece sedere Lea al suo fianco, mentre la governante si occupava degli scialli e delle valigie. Gilda guardava intensamente quella donna così contenta: quella bimba tanto cara al suo cuore.

E Giovanni? Avrebbe aspettato l’ultimo momento? Per così poco doveva esserle concesso di vederlo?

Ella spasimava in una ansietà inesprimibile. Finalmente sentì la sua voce nel corridoio.

Salutava il signore con cui si era intrattenuto: un’altro deputato, al quale diceva: a rivederci.

Ella si premette tutte e due le mani sul cuore.

Giovanni entrò nella sala, portando ancora nel[p. 314 modifica]l’indefinibile sorriso o negli occhi, l’impressione delle parole che aveva ascoltate e pronunciate un momento prima, continuando forse mentalmente quella conversazione, poichè ne’ suoi occhi ardeva un pensiero intenso, e sulle sue labbra ondeggiava la compiacenza. Girò lo sguardo in cerca della sua famiglia, che un gruppo di persone in piedi, appena arrivate, gli nascondevano; e incontrò lo sguardo ardente di Gilda. La fissò un momento senza riconoscerla.

Per resistere alla tentazione violenta di chiamarlo per nome, ella chiuse gli occhi e chinò la fronte. Quando li riaperse lo vide chinato verso di Lea, che gli era corsa incontro.

Ora poteva guardarlo almeno!

Voleva imprimersi nell’anima la cara immagine e portarla con sè viva e parlante.

Egli si voltò due volte verso di lei. Pareva che quella figura nera, accasciata, quel mistero, quella solitudine gl’inspirassero una involontaria curiosità. O era la muta attrazione dello sguardo amoroso di lei, ch’egli subiva senza sapere?

Intanto l’ora appressava.

Il movimento sotto la tettoja diventava sempre più vivo: era arrivato il treno diretto: le locomotive fischiavano acutamente; brevi ordini partivano; le porte delle sale d’aspetto venivano spalancate; la folla dei viaggiatori si arrovesciava sul largo marciapiedi sotto la tettoja affrettandosi verso quella lunga massa nera, dalla testa ruggente, dagli occhi rossi come due brage.

Gilda si alzò e si trattenne un momento, aspettando che uscissero prima i Pianosi, contenendosi in modo da rimanere poco discosta da Gio[p. 315 modifica]vanni, per prendere posto in uno scompartimento vicino al suo. Le pareva di camminare come in un sogno, e che tutta quella gente fossero fantasmi, senza volontà nè coscienza, spinti come lei da una fatalità ineluttabile.

Un momento, Giovanni, che era rimasto indietro per salutare un amico, le passò accosto sfiorandola col gomito. Ella alzò istintivamente la mano per trattenerlo, ma non lo fece. Tuttavia egli avvertì il movimento; si voltò verso di lei e riconobbe la figura nera tutta velata che aveva destato la sua curiosità nella sala di aspetto. Ma ella aveva voltato il viso dall’altra parte e camminava tranquillamente vicino a lui.

— Babbo! — chiamò Lea: babbo, dove sei?

Egli le rispose e s’affrettò a raggiungerla.

La sua voce, profonda e dolce, parve leggermente agitata a Gilda. Forse un dubbio aveva attraversato il suo cuore ed ella era riescita a sventarlo, o lui stesso non aveva voluto indagare di più.

Oh, se avesse potuto dargli un bacio, senza ch’egli la vedesse I

Egli aveva ora trovato Bardaniti, che partiva con loro, e Santini e altri che erano là per salutarli.

Gilda entrò in uno scompartimento che precedeva di poco il coupè riservato, dove aveva già preso posto la signora Pianosi con Lea e la istitutrice.

Alla discesa, a Melegnano, contava di fermarsi a vedere sfilare il treno; così se lui si affacciava lo avrebbe visto ancora una volta.

I conduttori chiudevano gli sportelli, in fretta; [p. 316 modifica]la locomotiva mandava i suoi fischi più sibilanti. Ma Giovanni si spenzolava a salutare gli amici e ella potè ancora vederlo. Dopo si rannicchiò nel suo angolo e rimase inerte.

Il treno partì gemendo e scrosciando sotto all’impulso irresistibile.

Un momento dopo, una corrente d’aria gelida annunziò che il mostro usciva dall’abitato e andava a interrompere il sonno profondo della campagna.

Gilda sentì vicino a sè un doppio lamento. Erano due signore forestiere che si lagnavano di quel gran freddo.

Ella chiuse il finestrino, e tornò a rannicchiarsi nel suo cantuccio, guardando traverso i vetri, i poveri alberi nudi, dai rami troncati, protesi, imploranti, fuggire e fuggire nella profondità della notte, nella desolazione della campagna invernale.

Quell’inazione del proprio corpo in mezzo al movimento vertiginoso di cui sentiva il rombo e vedeva il riflesso, le diede un senso strano e rapido della sospensione della vita. Le parve di essere lontana dal mondo, al di là della meta fatale, libera d’ogni preoccupazione, d’ogni desiderio, nella fantastica immensità della morte. Sul suo capo brillavano le stelle, e ella viaggiava nell’aria senza fatica e senza rimpianti per la vita. Ma un sussulto improvviso del cuore, uno spasimo dei nervi, fugarono la visione ideale. Ella ricadde nella sua pena; sentì ancora quanto fosse violento, quanto fosse crudele il distacco eterno a cui si preparava.

Egli era là, a poca distanza, in quel medesimo treno fuggente nella notte, era là, con Lea, con [p. 317 modifica]Edvige, forse abbastanza tranquillo da poter pensare agli affari, meditare una combinazione finanziaria; certo tanto preoccupato dei nuovi pensieri della nuova ambizione, delle lotte e dei trionfi in cui si assorbiva la sua attività, che poteva sopportare la presenza di sua moglie senza collera e senza disgusto; e aveva potuto passare accanto a lei, povera Gilda, sentire il fremito di tutto il suo corpo, dubitare della verità, e non curarsi di approfondire quel mistero! Forse gli era parso più prudente di passare oltre. Si sarebbe trovato in un bell’impiccio, se ella gli avesse fatto una scena di disperazione in pubblico, mentre lui andava tranquillamente a Roma con la famiglia! Non le aveva scritto che si sarebbero riveduti ancora, se ella gli perdonava, e che poteva contare sempre sulla sua inalterabile amicizia e sull’affetto suo?...

Certo gli perdonava.

Cosa non gli avrebbe perdonato lei? Ma dove era andato l’amore assoluto, l’amore grande, che nulla doveva interrompere?

Sprofondato nell’urto delle cose, era condannato a decadere a discendere sempre più.

Questo era il chiodo che le stava confitto nel cervello, cagionandole tanto dolore.

Giovanni stesso, nella sua larga coscienza maschile, nella sua forte coscienza di uomo attivo, combattente per altri ideali, non poteva difendersi da quel sentimento amaro: la sua lettera ne era piena. Si capiva bene ch’egli avrebbe voluto non averla conosciuta o non più vederla, piuttosto che affrontarne i rimproveri o subire un perdono troppo generoso. [p. 318 modifica]

Ma neppure lei voleva avvilirlo così. Nel suo cuore giovane, dato tutto all’amore, non turbato da nessun’altra passione, ella aveva in quel momento una intuizione profonda. Sentiva che non doveva rivederlo, appunto perchè gli perdonava. Perchè rivedendolo, abbandonandosi all’ebbrezza delle sue carezze, quel grande dolore si sarebbe attutito, quell’unica grandezza che le restava ancora sarebbe dileguata: la sua anima sarebbe discesa, scivolando a poco a poco, nella fosca indifferenza, nella bassa atmosfera morale, dove queste cose non strappano più gridi strazianti, dove se ne sorride, come di fantasie esagerate o idee da romanzo.

Mai più avrebbe ritrovato sè stessa: mai più quelle lagrime, quel rammarico ardente dell’ideale perduto.

Si sarebbe consolata, perdendo di vista l’altezza a cui aveva sognato, e non si sarebbe rialzata mai più.

Per questo voleva morire. Giovanni almeno si illudeva di poter fare qualche cosa di utile, qualche cosa che nel miraggio della eccitazione intellettuale gli appariva grande; e poi, aveva Lea. La bella bimba, intelligente, lo avrebbe consolato anche della morte di lei.

Lei invece non era nemmeno abbastanza vana da credere nel conforto dell’arte.

Lei non aveva nessuno che vivesse della sua vita, altro che la sua vecchia zia; e questa si sarebbe forzata alla rassegnazione e sarebbe vissuta lo stesso per raccomandare l’anima sua al Signore.

Ora ella divagava trascinata dalle immagini. Rivedeva la sua cameretta di fanciulla, il ripostiglio [p. 319 modifica]dove aveva nascosto i suoi libri, rivedeva il giorno e l’ora in cui si era tanto rallegrata per la lettera della signora Pianosi, che la nominava istitutrice di sua figlia. Era il maggio; tutta la campagna era in fiore; il vento le portava un profumo acuto che le saliva al cervello.

Mancavano tre mesi ai due anni! Ella non rivedrebbe il maggio mai più... poteva credere che quei poveri tronchi, quei moncherini contorti non sarebbero rinverditi mai più. Uno scoppio di tenerezza le gonfiò il cuore, le sali agli occhi. Due lagrime cocenti le scesero per le guance.

O Giovanni! Giovanni! mai più un bacio, mai più una carezzai

Pensava almeno a lei in quel momento, o alla industria del ferro e alla fabbrica che aveva a Como, ora tutta sua, o alla plastica bellezza di Edvige, che placidamente gli sorrideva, e alla sua fibra salda di trionfatrice?

Dio! Dio! Come correva il treno! volava. Presto si sarebbe fermato a Melegnano. Giovanni dormiva, forse; non si sarebbe nemmeno affacciato: non lo avrebbe nemmeno intravisto.

Ecco, ora la corsa rallentava. Ella si alzò in piedi, abbassò il cristallo, e appena il treno si fu fermato chiamò il conduttore perchè le aprisse. Discese e si fermò sotto un lampadario, fissando gli occhi intenti dalla parte dove sperava di vedere affacciarsi Giovanni. Vi era un’ombra di fatti. Ella fece un movimento, l’ombra sporse la testa e le spalle. Ella rimase immobile, con tutta la sua vitalità negli occhi. Il treno si mosse lentamente, la testa che sporgeva dal finestrino si trovò di fronte a lei, nella luce del lampione. [p. 320 modifica]

Non si era ingannata. Due occhi sbarrati la guardavano, mentre la bocca accennava a parlare. Le arrivò all’orecchio una invocazione anelante:

— Gilda! O Gilda!...

Ed ella alzò le braccia tremanti in segno di saluto.

Ma il treno aveva già ripreso la sua corsa e un momento dopo tutta la visione era scomparsa.

— Io ti seguo, io ti seguo — ripeteva Gilda dentro di sè, nell’ultimo delirio dell’amor suo, mentre entrava nella stazione e si avviava verso la città.

Camminava a passi rapidi, tutta concentrata, nell’ombra delle strade silenziose. Non c’era luna, ma il cielo stellato e limpido, e un freddo intenso. Ella si era alzata il velo nel vagone e non l’aveva più abbassato. Non si accorgeva dell’aria frizzante che le arrossava il viso. Qualche viandante notturno che vedeva quella figura nera, sottile, la guardava un momento, poi si voltava, stupito di una apparizione così insolita a quell’ora.

Ella non vedeva nessuno.

Svoltava gli angoli delle strade, traversava le crociere, le piazze, senza arrestarsi.

Andava al Lambro, che taglia la città in due parti, al piccolo fiume dalle linee dolcemente mosse, abbellite da giardini signorili, rallegrate da edifici industriali, coronate dalla stesa delle case su cui emerge la vecchia torre quadrata della chiesa maggiore, e la massa nera e tozza dell’antico castello.

— Al Lambro, al Lambro, ella ripeteva sommessamente, esaltandosi: le sue acque mi porteranno verso il Sud, dietro al treno. [p. 321 modifica]

Giunta al ponte si arrestò un momento; si appoggiò al parapetto, si guardò intorno; il suo sguardo si fermò sull’ombra densa del castello antico; ma il posto non le parve adatto.

Qualcuno poteva passare improvvisamente, sorprenderla.

Riprese il suo cammino per andare all’altra estremità del paese, dove il fiume torna tranquillo, dopo di avere ricuperata la propria libertà, al di là dei vasti edifici, e dopo di essere ritornato nel suo letto naturale, balzando e spumeggiando. Ella conosceva il paese, per esservi stata una volta in vacanza a trovare la Eva Martinelli, la sua amica più cara, che aveva uno zio filandiere. Questa circostanza le si affacciò un momento al pensiero, passando davanti alla filanda del signor Gustavo Martinelli; un momento ebbe la visione netta dell’interno della casa, degli orti; e rivide il viso gaio di Eva e il suo sorriso spensierato, ma senza farvi quasi attenzione, per pura meccanica della memoria.

Ora aveva fretta, pensava che il treno filava con la sua spaventosa rapidità e ch’ella voleva raggiungerlo.

Finalmente arrivò a un punto solitario, nella campagna dove l’acqua scorreva dolcemente, fra due spiagge guernite d’alberi dimentica dei trambusti passati.

Pensò involontariamente che quel posto doveva essere bellissimo in primavera, e sospirò.

— Oh Giovanni!

Che belle passeggiate avevano fatto insieme a Aix-les-bains!

Come erano felici allora! [p. 322 modifica]

Finito! finito!

Almeno ella portava con sè, nella morte, tante belle immagini! E portava sè stessa, nel massimo splendore della giovinezza, tutta ardente ancora del suo fervido amore, senza aver sopportato l’oltraggio di una consolazione volgare; senza aver piegato all’oblio nè alla menzogna, come comanda la vita; senza cadaveri putrefatti nel cuore.

La sua morte era una salvezza. Giovanni non l’avrebbe dimenticata mai.

Sempre giovine, sempre bella, sarebbe rimasta nella sua memoria; mentre Edvige invecchiava, con le macchie dei suoi tradimenti, sempre più visibili tra le rughe. Ella sarebbe rimasta il suo ideale fino agli anni più tardi, anche se avesse amato altre; l’ideale dell’amore giovine, dell’amore fedele, che si rifugia nella morte, quando la vita l’offende.

Ella si fermò un momento a guardare l’acqua che scorreva così cheta cheta, al lume delle stelle, dopo aver preso tanta parte nel tumulto della cascata, di cui suonava alto il fragore nel silenzio della notte. Anche a lei la pace dopo la tempesta, anche a lei la dolcezza di quell’onda tranquilla!

Trasse un largo nastro di seta, che aveva in tasca, e si legò le sottane sotto le ginocchia. Si levò il cappello, buttò via la pelliccia, si trascinò giù giù fino al livello dell’acqua, e si lasciò prendere dolcemente... chiudendo gli occhi, invocando l’immagine di Giovanni, mormorando il suo nome.

· · · · · · · · · · · · · · · · · · · ·
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Intanto il treno, di già lontano, correva e correva instancabile, portando seco pel mondo, con un pugno di vivi, chi sa quante bassezze trionfanti, e rimorsi sterili, e vani propositi: una infinita varietà di miserie.

FINE.