Nell'ingranaggio/X
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X.
All’ultimo momento Emilio Berrà, Giulio Besana, Egidio Lattuada, Balzerotti, Terruzzi, il dottor Riva e il piccolo Bandinelli, avevano invitato Giovanni Pianosi a un desinare tra amici, un pranzetto alla buona, che li aspettava al ristorante della Borsa. Egli aveva accettato per quel bisogno di dimenticare, che lo spingeva fuori di casa sua.
Nel mentre che stava per uscire; dopo di avere trovato un momento per stringere la mano a Gilda, gli venne incontro un fanciullo di sei anni nel quale riconobbe il figliuolo di Rosa Minelli, una sua cugina, che era invitata a pranzo insieme ai suoi, abitualmente tutti i sabati, ma che approfittava raramente di questo invito.
Il rumore che avevano fatto gli ultimi avvenimenti, la curiosità naturale e l’affetto che nutriva per suo cugino, l’avevano decisa a venire quel sabato.
Ora la piccola comitiva saliva in quel punto le scale: il fanciulletto le aveva fatte di corsa, per arrivare primo a dare l’annunzio.
Giovanni non poteva che rassegnarsi a restare in casa. Mandò il domestico ad avvisare gli amici che un impedimendo improvviso lo tratteneva, ma che avrebbe fatto il possibile per trovarsi in mezzo a loro al caffè; poi andò incontro ai suoi parenti, offrì il braccio alla sua buona cugina, e li condusse tutti nella sala da pranzo, dove Edvige, Lea e Gilda stavano già aspettando.
I bambini si salutarono chiassosamente rincorrendosi per la sala, ridendo di gioja, e poi abbracciandosi e baciandosi, con vive esclamazioni.
Questa nota gaja scaldò un poco l’ambiente, che minacciava a farsi gelido, come tutti i giorni a quella ora.
I due fratellini avevano una specie di culto per la bella e ricca cuginetta, che avrebbero voluto vedere più spesso.
Ma i loro genitori non erano ricchi e dovevano il loro tempo al lavoro, non alle visite; e poi Rosa era una donnina semplice e modesta, che il lusso intimidiva, e le grandi società rendevano goffa, Nell’intimità invece era piacevolissima; ma la sua vita si passava in casa, fra suo marito e i bambini. Giovanni era il solo parente ch’ella continuava a vedere di quando in quando. Gli altri l’avevano quasi rinnegata per quel suo matrimonio d’amore con Giorgio Minelli, umile impiegato ferroviario. E siccome essi mantenevano un certo riserbo anche verso Giovanni, per causa di sua moglie, questa posizione somigliante manteneva vivo l’affetto dei due cugini.
— Abbiamo tanto sentito parlare di voi altri in questi giorni — disse Rosa Minelli dopo avere dato ampio sfogo alle solite cortesie e riferiti anche i saluti dei suoi due vecchi suoceri coi quali viveva — che io non ho potuto resistere al desiderio di vedervi.
— Ci vuole proprio una catastrofe perchè questo desiderio ti faccia muovere, — osservò Giovanni sorridendo.
— Oh! — esclamò la buona donnina con voce sinceramente agitata: — dici davvero, Giovanni, hai avuto una disgrazia?... Mi pareva di avere sentito dire il contrario, vero Giorgio? — Giorgio la rassicurò con un sorriso, lui che sapeva.
— Sarebbe stata una enorme disgrazia — disse — se tuo cugino non avesse saputo cambiarla in una fortuna.
— Ha tanto talento lui! — esclamò la giovane donna guardando Giovanni con ammirazione.
Le spiegarono in succinto quello che era avvenuto.
— Oh! — disse, quando credè di aver compreso; — tutte le volte che mi parlano di questi maledetti affari e sento le angosce che costano, io non so darmi pace che uomini ragionevoli consentano a entrare in una carriera così spaventevole.
— Ah! ah! ah! — fece suo marito prorompendo in una gran risata: — questa è bellina! Chiama una carriera spaventevole, quella che fa guadagnare dei milioni. Una carriera spaventevole è quella dell’impiegato ferroviario; mi pareva che tu dovessi saperlo.
E con la palma aperta le dava dei colpettini pieni di tenerezza sulle sue belle spalle rotonde.
Gli astanti ridevano.
— Già tu fai sempre il chiasso, — riprese a dire Rosa, sottraendosi a quelle carezze. — Ma tu Edvige, certo non ridi: chi sa quanto devi aver sofferto in questa circostanza!
Edvige trasse un lungo sospiro, e levò gli occhi al cielo come una martire cristiana nei quadri raffaelleschi.
Giovanni crollò le spalle impercettibilmente. Fece alcuni passi verso la porta e scontratosi con la cameriera che portava la minestra, il domestico essendo uscito per fare la sua commissione, la apostrofò con mal garbo:
— È la maniera di servire codesta?... Dirai a Giacomo che noi aspettiamo da un quarto d’ora; può cercarsi un altro padrone.
Questa collera, evidentemente sproporzionata alla sua causa apparente gelò i convitati. I bimbi girarono intorno i loro grandi occhi, pieni di stupore, e di interrogazioni.
Lea però si riebbe subito, e con la sua imperturbabile franchezza di figlia unica, andò a mettersi in faccia a suo padre dicendo:
— Cattivo babbo, perchè vuoi mandare via il povero Giacomo che è tanto buono e vuol tanto bene a Lea?...
Questa uscita della bimba scongiurò la tempesta. Rosa e Giorgio Minelli e i loro ragazzi non si tennero dal ridere.
Il Banchiere guardò la sua creaturina serio serio, poi l’alzò di peso pigliandola sotto le braccine e le stampò in fronte un lunghissimo bacio.
Gilda osservò che andando a sedere al suo posto la bimba non rideva più, e i suoi occhi si volgevano al padre con una espressione di curiosità seria, quasi pensosa, come una donna.
Il pranzo cominciò così alla meno peggio; ma neanche Rosa potè trovare un accento di vera allegria.
Giovanni non mangiava quasi niente e sul suo viso pallido si rifletteva l’interno, continuo combattimento.
Edvige cercava di alimentare il dialogo raccontando a Rosa Minelli delle tante visite che avevano ricevuto quel giorno, e descrivendole alcune toillettes.
La giovane signora Minelli ci si divertiva. Contentissima del suo abito di thibet verdone guernito con piccoli listelli di raso, ella non era insensibile al fascino delle belle cose, tanto più che era nata nel lusso e ci aveva vissuto fino ai vent’anni.
Ma ella aveva trovato la più completa felicità che possa desiderare il cuore di una donna amante e buona, in una esistenza frugale, in una casa pulita ma senza lusso, egualmente lontana dal bisogno che dal superfluo. Per questo era così serena e così indifferente alle soddisfazioni della vanità e agli acri desiderii di questa passione, che tormenta e rovina tante esistenze femminili. Per questo ascoltava le descrizioni di Edvige, come si leggono quelle dei romanzi, e ammirava il lusso di quell’appartamento, la sontuosità del servizio, senza esserne menomamente turbata.
Pensava piuttosto con desiderio alla sua casetta, dove avrebbe ritrovato i suoi due vecchietti, che l’aspettavano accanto al fuoco, e quella bella allegria, le cui gaie esplosioni le si gelavano sul labbro in quell’ambiente signorile, troppo ricco per la intimità e rattristato dalla malinconia di suo cugino, e dalla falsa spigliatezza di Edvige, due cose di cui ella ignorava le cause, ma che la colpivano profondamente.
Alle frutta, Giovanni si alzò per andarsene, pretestando il dispiacere che aveva di doversi separare così presto da’ suoi cari ospiti e allegando la promessa anticipata che aveva fatto.
Nel salutare, egli porse la mano anche a Gilda come usava sempre, e la premette forte. La ragazza ebbe l’impressione di stringere la mano di un ammalato, tanto le parve brucente ed arida.
Partito il padrone di casa, la cui faccia scura imponeva agli ospiti, il pranzo terminò un poco più allegramente.
I bambini vi contribuirono facendo il chiasso. Ma la famiglia Minelli non stette molto a ritirarsi; in verità non vedevano l’ora di essere fuori. Passando il suo braccio sotto al braccio del marito, la donnina si strinse tutta a lui con una gioja intima, anche più viva del solito. Egli la comprese e la guardò amorosamente. Oh! come fu dolce il loro ritorno nel piccolo nido!
Edvige intanto, non aspettando altre visite, si chiudeva nella sua camera verso le nove, dopo di avere dato un bacio a Lea e licenziata la cameriera.
Questa andò con Gilda a mettere a letto la bimba.
Quando fu coricata, la bimba volle che la sua istitutrice sedesse un momento vicino al suo letto, mentre la Sabina spazzolava i vestiti e portava fuori gli stivalini.
— Senti — disse la bimba buttandole le sue braccine intorno al collo o abbassando la voce — dimmi, tu che sei grande e sai tutte le cose: i babbi piangono anche loro come noi bimbi e come qualche volta le mamme?
Avendo compreso il senso della domanda, Gilda ebbe un fremito nelle ossa; tuttavia rispose con naturalezza:
— I babbi non piangono mai come i bimbi, almeno io non ho mai visto. —
Lea rimase un momento perplessa.
— Ho detto male — riprese dopo un breve silenzio — non come i bimbi; ma però possono piangere?
— .... Io direi di sì.... Ma perchè mi fai queste domande stravaganti?
— Perchè.... quando il babbo mi ha preso in collo prima di desinare... ti ricordi? egli mi ha baciata in fronte... ti ricordi? ebbene, io ho sentito due lagrime che mi son piovute sulle guancie, una di qua e una di qua!
— .... Ti sarà parso, Lea...
— No, no! chè, chè! Ti dico che le ho sentite. Una di qua e una di qua. Vorrei sapere perchè piangono i babbi. —
Gilda frenava a stento la sua commozione; pure cercò di appagare in qualche modo la tenera curiosità della bimba, sviando la intensità del suo pensiero.
— Se i babbi piangono — disse — vuol dire che i figliuoli non sono buoni. —
Ma questo non fu un buon rimedio.
— Oh! Gilda — esclamò la bambina in uno scoppio di lagrime — tu vuoi dire che il babbo ha pianto per colpa mia!... —
Ci volle tutta la pazienza e l’affetto di Gilda per consolare quel povero piccolo cuore travagliato da una sensibilità squisita.
Finalmente il sonno la colse, nella stanchezza dei nervi, tra gli ultimi sussulti.
Gilda si staccò dolcemente dalle sue braccia, la coprì bene, depose ancora un bacio sui suoi capelli e si ritirò nella propria camera.
Il suo cuore era oppresso, sentiva in tutte le membra una lassitudine, come se l’avesse schiacciata una cappa di piombo. Si buttò bocconi traverso al suo letto e lasciò scorrere le lagrime che frenava da parecchie ore con supremo sforzo. Non aveva ancora mai provato uno spasimo così acuto: una tristezza così tetra non si era mai impadronita dell’anima sua. Quello che la prostrava era lo scoraggiamento completo, la morte della speranza.
L’abbattimento che aveva notato sul viso di Giovanni, quelle due lagrime che avevano fatto tanto impressione a Lea, la mano ardente e arida che ella aveva sentito tremare nella sua, tutto le diceva che egli soffriva mortalmente.
Vederlo soffrire così e sentirsi penetrare a poco a poco dal convincimento che tutto il suo amore, tutta la sua abnegazione, non potevano, non che renderlo felice, nemmeno sollevarlo dal suo abbattimento, questo le toglieva tutto il suo coraggio.
Ma anche pensando a sè stessa, doveva persuadersi che aveva peggiorata la propria condizione, che Edvige l’aveva ricondotta in casa per tutto suo comodo, per farsene in certo modo un usbergo contro il risentimento di suo marito; ma che forse era già pentita, poichè non le risparmiava le umiliazioni e la trattava con diffidenza.
E lei non poteva reagire, perchè, voglia 0 non voglia, quella donna era la sua padrona, e finchè Giovanni non la scacciava, bisognava obbedirla e rispettarla al pari di lui.
Tuttavia ella si sarebbe rassegnata anche a questo: fin dalla prima sera in cui lo aveva riveduto dopo quella dolorosa e lunga separazione ella s’era giurata di sopportare tutto per lui, di sacrificargli tutto: libertà, onore, vita, senza pensare mai a sè, senza chiedere nulla per la propria soddisfazione, immaginandosi di trovarla tutta in quel grande sentimento del sacrificio completo, fatto al suo unico amore, nell’annichilimento, nell’assorbimento di tutte le sue facoltà in un solo pensiero.
Peraltro, in questo bel sogno era sottinteso che Giovanni dovesse essere felice. E poi, vi doveva essere in tutti i loro rapporti, nei loro cuori, come nella loro vita, qualche cosa di celestialmente sereno, di poetico, di ideale, che invece, alla prova della realtà, mancava assolutamente.
La realtà portava con sè qualcosa di fosco, di pesante, di falso; una quantità di particolari prosaici, fastidiosi. Ella sentiva troppo quella differenza, e invano si ribellava contro sè medesima e vanamente cercava di illudersi. Pensava ai primi mesi della loro convivenza, allorchè i loro cuori si erano lasciati prendere da quella invincibile tenerezza; pensava alle poche parole che si scambiavano, e ai lunghi sguardi penetranti con cui s’intendevano.
Dopo, durante il tempo della separazione, ella aveva tanto ripensato a quel loro linguaggio misterioso, ci aveva messo dentro tanta ebbrezza e tanta felicità, che aveva fatto il bel sogno di poter vivere così tutta la vita, senza turbamenti, senza angosce, in una idealità sublime di amore eterno ed etereo.
Anche adesso, nei momenti in cui si trovavano insieme, i loro occhi dicevano le stesse cose, con più potenza, con più passione; erano due correnti magnetiche che s’incontravano e si toccavano, producendo un urto che la faceva tutta riscuotere e dolcemente rabbrividire. Ma il silenzio a cui erano condannati, le toglieva il respiro; ma la sua commozione diventava tanto viva e tormentosa ch’ella non poteva dissimularla: e la presenza di quella donna, che era la moglie di lui, le suggeriva dei pensieri così insensati e terribili ch’ella doveva inorridire di sè medesima. Quella sera specialmente, davanti allo spettacolo di beatitudine che presentava la giovine famiglia Minelli, ella era stata assalita da quei pensieri spaventevoli. Se Giovanni non poteva divorziare, se i vincoli sociali della sua posizione, le obbligazioni contratte, l’amore di sua figlia, non gli permettevano di separarsi da colei: se doveva vivere così miseramente legato a chi lo aveva tradito, non rimaneva altro che un mezzo il quale potesse liberarlo e permettergli di essere felice.... un mezzo violento: la morte.... di Edvige.
Dacchè questo pensiero le si era affacciato, ella aveva delle allucinazioni. Quella sera stessa le era parso di vederla cadere agonizzante, e invece d’inorridire, il suo cuore era balzato di gioja, e ella aveva riso dentro di sè cinicamente, di un riso pieno di ebbrezza.
Ora il solo ricordo di quella visione la faceva tremare.
Entrò la Sabina col pretesto di cercare un lavoro che credeva di avere lasciato là, e il suo passo le strappò un grido.
— Che ha lei? Le ho fatto paura? — esclamo la cameriera avvicinandosele. — Dio, come è tutta disfatta! Si sente male! Ha pianto?...
Gilda si asciugava gli occhi e cercava di rimettersi.
— Povera figliuola! — ripigliava la cameriera, non facendosi caso del suo silenzio: — Lei è pure sfortunata come me!
In altri tempi questo paragone avrebbe forse urtato l’orgoglio di Gilda Mauri, ancora tutta fiera de’ suoi studi e delle sue aspirazioni elevate; ma adesso, era tanto abbattuta, che l’essere compianta, anche dalla Sabina, le riesciva quasi dolce.
Tuttavia quest’ultima disse:
— Non se ne stupisca se la paragono a me: parlo di vent’anni fa! Allora ero giovine anch’io, non bella come lei, ma fresca e piacente. E anche io avevo fatto un bel sogno, che volò via, come il vento. O Gilda, creda a me, le ragazze povere, buone e semplici, sono sempre calpestate. Le furbe vincono. Vincono sempre loro!
Ella tacque un momento guardando la giovine che si era messa a sedere da piedi del letto e ascoltava con quell’aria trasognata, propria di chi si concentra in un solo pensiero.
— Ebbene! — riprese cambiando tono, quando si accorse che era affatto inutile aspettare una qualche domanda da quella creatura tormentata. — Sa lei che cosa faccio io adesso?
Gilda la guardò con meraviglia, poi si strinse nelle spalle, con l’atto di chi non sa e non è curioso.
— Me ne vado da questa casa.
Questo annunzio ebbe la potenza di strappare una esclamazione alla giovine.
— Oh! lei?...
— Io, sì, — replicò la Sabina; — me ne vado perchè non voglio aspettare che mi mandino via.
— Chi la manda via? La... signora Edvige?...
— E anche il signor Giovanni! — replicò la Sabina pestando il pavimento. — Le pare impossibile, eh? dopo tanti anni che servo in questa casa. Oh, del resto non voglio dire che mi abbiano a mettere sur una strada! mi faranno certamente una discreta posizione: hanno sempre costumato così in casa Pianosi. Ma io voglio essere la prima a dire che me ne vado. Ne ho anche abbastanza di quello che ho visto.
— Ma se invece il signor Giovanni non pensasse a mandarla via?...
— Ragazza! — esclamò la Sabina guardandola in aria di compassione. — se non ci pensa adesso, ci penserà poi; quando avrà fatto la pace con la sua moglie!
Gilda si scosse tutta. Ma la cameriera crollo le spalle e continuò: — Se non si separano, faranno certo la pace un giorno o l’altro; che vuole che facciano?... E quando si saranno messi d’accordo come vuole che non mi mandino via, me, che so tutto? che ho detto tutto al padrone? È vero che lui ha cercato di salvare le apparenze dicendomi che ero male informata, che non c’era sotto nulla di quello ch’io credevo: che la chiave famosa l’aveva procurata proprio lui alla signora Edvige perchè sorvegliasse l’Avvocato, lei, che poteva farlo con tanta comodità e senza dar sospetti, tutte le volte che si recava alla sua società di beneficenza; che del resto, l’Avvocato aveva notoriamente un altro appartamento, dove riceveva le sue amanti, e che quello in via dei Tre Alberghi era piuttosto uno studio... E tante me ne disse, sicchè io feci sembiante di credergli e gli domandai scusa. Ma s’immagini se io fossi stata tanto grulla da parlarne, quando non avessi avuto la sicurezza! Sapevo tutto, sapevo! Anche dei due appartamenti, mentre il padrone ignorava affatto quello in via de’ Tre Alberghi, e la mia rivelazione lo mise sulla buona strada per sorprendere le altre furfanterie dell’Avvocato. Meno male, del resto 1 Mi resta la consolazione di avergli fatto del bene al mio povero padrone; lui non è punto cattivo, e io gli perdono di avermi dato una smentita, perchè dal suo punto di vista gli pareva necessario. Non è cattivo lui, anzi è buonissimo. Son già degli anni che la signora Edvige parla di mandarmi via, ma lui non ha mai voluto. Perchè in casa Pianosi c’è una specie di lascito che le persone di servizio invecchino coi padroni. Ora a Ognissanti si compiono appunto i venticinque anni dacchè io entrai al servizio della povera signora Teresa, che Dio l’abbia in gloria! come seconda cameriera — la prima era una vecchia quasi impotente che si metteva a piangere quando gli dicevano di ritirarsi con la sua pensione; e però, se ora il padrone si vuole liberare della mia presenza, dirò che ho lavorato abbastanza, che ho poca salute e che merito la pensione e il riposo.
— Venticinque anni! — esclamò Gilda colpita da questa sola parola — il signor Giovanni sarà stato ancora un bambino allora?...
E questa immagine graziosa della infanzia dell’uomo amato, le empì gli occhi di tenerezza.
— Bambino no — rispose la Sabina sorridendo — ma ragazzo certo; aveva tredici anni lui, e io diciassette.
— Già, non ci corrono che quattro anni fra me e lui — soggiunse, vedendo l’atto di stupore che aveva fatto la fanciulla — quattr’anni, e a guardarci adesso, io sembro la sua nonna! Non è vero che gli anni passino per tutti a una maniera. Anche la signora Edvige pare sempre giovine, e se non ingrassa troppo chi sa quanto dura ancora allo stesso modo. Chi sa di che diavolo sono messe insieme quelle donne là! San fare a vivere, loro. Io non ho saputo. E neppure lei, Gilda! E in questo che ci si somiglia. Quando il signor Giovanni ha avuto qualche anno di più, cominciò a fare gli occhi lucidi ogni volta che mi guardava, e mi guardava di molto. La sua povera mamma s’era messa in testa di tenerlo in careggiata come una signorina; sempre in casa, sempre attaccato alle sue gonnelle. Per questo lui non aveva occasione di trovarsi con altre ragazze di confidenza, e col sangue caldo che aveva stava sempre dietro a me. Io, povera sciocca, che non capivo niente di niente, mi figurai che mi volesse un gran bene, che mi potesse sposare, e m’innamorai come una gatta.
Gilda la interruppe. Questo racconto, così inaspettato per lei, ch’ella non aveva provocato, urtava tutte le suscettibilità del suo cuore e della sua fantasia.
— La prego, Sabina — disse — non mi racconti di più: non desidero di sapere.
C’erano delle lagrime nella sua voce. La Sabina capì, e mostrò più tatto e gentilezza di quanto uno potesse aspettarsi da lei.
— Non abbia paura, — rispose con un lieve sospiro, non entro in particolari; d’altra parte non accadde nulla di grave. Il vecchio banchiere, il signor Angelo, che era un uomo svelto, molto galante, e pratico di questi affari, rideva delle illusioni che la sua povera moglie si faceva ancora sulla innocenza del suo figliuolo, e teneva d’occhio il ragazzo. Quando s’avvide che lo scherzo diventava pericoloso, lo condusse con sè a Parigi, dove lui andava tutti gli anni per i suoi affari, e lo lasciò là presso a un banchiere suo amico perchè fosse iniziato agli affari e imparasse il vivere del mondo. Quanto piangere si fece allora, la mia povera padrona e me!... Ella non poteva darsi pace che il suo figliuolo, così giovine e inesperto, fosse sbalestrato in una capitale come quella là; io ero disperata, perchè non lo vedevo più e capivo bene che era irreparabilmente perduto per me. E così fu. Quando ritornò era un bel giovane serio e imponente, quasi tale e quale come lo vede adesso. Forse non si ricordava nemmeno di avere pensato alla cameriera, e ne rideva nel suo pensiero, come di una ragazzata. La mia signora morì alcuni mesi dopo, ricordandosi di me nel testamento e raccomandandomi con speciale affetto al marito e al figliuolo. Così io sono rimasto con loro.
— Adesso ne sono pentita, — disse sospirando, dopo un momento d’interruzione. — Avrei fatto meglio a maritarmi con un mio pari quand’ero ancora in tempo.
La Sabina s’arrestò a questo punto assorbendosi nell’inutile ricostruzione del passato, tanto comune alle vecchie zitelle.
Poi, vedendo che Gilda rimaneva anche lei assorta, con un braccio appoggiato alla spalliera del letto e la festa appoggiata al braccio, fece per andarsene. La ragazza la richiamò.
— Ma... come si è fatto questo matrimonio? chiese rialzando la testa.
— Precisamente non lo sa nessuno, — rispose la Sabina, che quella sera era disposta a dire la verità. — Io mi ricordo di questa cantante forestiera, che faceva furore al teatro Carcano, nel sessantotto o nel sessantanove, salvo errore. Ci sono stata una volta. Mi pare che facessero la Marta, un’opera tedesca o inglese, che so; nessuna opera grande certo. Il padroncino ci andava tutte le sere. Poi cominciò a accompagnarla da per tutto. Infine un giorno vi fu una gran disputa fra padre e figlio, perchè questo aveva dichiarato che voleva sposarla. Il vecchio prima gli rise in faccia, poi lo minacciò. Il padroncino parti dopo pochi giorni, dichiarando che andava a cercarsi lavoro all’estero. Egli aveva allora da venticinque a ventisei anni, e era entrato in possesso della eredita di sua madre. Stette via due anni. Intanto si seppe che si erano sposati. Il vecchio era furibondo. Qualche volta però mi diceva che quel matrimonio non contava un bel nulla. Che poteva sciogliersi quando uno voleva. Poi mi spiegava che il signor Giovanni aveva preso domicilio in una città della Russia, dove la diva s’era incontrata nel suo vero genitore «uno zingaro!» esclamava il signor Angelo diventando tutto rosso, e che là quell’imbecille del suo figliuolo — lui diceva proprio imbecille — si era lasciato ingarbugliare e l’aveva sposata. «Come se ci fosse stato bisogno!» masticava fra i denti. Poi, quando si voleva rasserenare, tornava a dire: «Meno male che là c’è il divorzio! Quando ne avrà abbastanza, potrà mandarla al diavolo.» Invece si vede che non ne ha abbastanza neppure adesso, con tutto quello che sa!... Nel settant’uno, il vecchio ammalò è naturalmente, fece richiamare il figliuolo. Questo arrivò con la moglie, che lui era in agonia. Io rimasi con loro, come Giacomo il cuoco, Marco Il domestico e Pellegatta il portinajo, perchè si era tutti affezionati alla casa.
Ecco la storia. Ora, se mi permette le dirò ancora che noi a un certo punto s’era sperato ch’ella persuadesse il padrone a fare questo divorzio, se veramente si può fare. Ma oramai, si è persa anche questa speranza.
Gilda tacque, e non fece alcun movimento, come se questa insinuazione non la riguardasse. Per quanto la Sabina le fosse apparsa quella sera sotto un aspetto più tollerabile, ella non si sentiva punto disposta a contraccambiare le sue confidenze.