Nell'ingranaggio/VIII
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VIII.
Rimaste sole, le due donne si misero a camminare a caso, l’una accanto all’altra, seguendo l’ampia strada che si trovavano davanti.
Ancora sotto l’impressione della scena cui aveva assistito, Gilda non osava nemmeno guardare verso Edvige. Questa pure camminava a occhi bassi, immersa in una contemplazione interiore, la cui amarezza trapelava da tutti i suoi lineamenti.
Fecero così alcuni metri di strada. A un tratto Edvige si fermò e cercò con l’occhio una vettura; ma non ve n’erano al solito posto; allora ella disse:
— Gilda, vi prego, chiamate la prima vettura che passa. Non mi reggo in piedi, e mi dà fastidio veder gente.
Quando un brougham si trovò fermo davanti a loro, Edvige invitò la giovine a salire.
— Non è meglio che io la lasci?... domandò questa esitando.
Ma Edvige insistè; disse che le faceva una vera carità se non la lasciava sola in quel momento.
Sedettero una accanto all’altra.
Il brumista ebbe ordine di avviarsi verso i bastioni.
— Ho bisogno di rimettermi, — disse la signora Pianosi alla sua compagna — non voglio che mi vedano con questa faccia, con le tracce di queste lagrime.
Si asciugò gli occhi, ma invano. La reazione allo sforzo violento che aveva fatto per rimaner calma durante tutto il dialogo con Paolo Anselmi ora la schiacciava. Erano singhiozzi, sussulti lagrime dirotte.
Atterrita dallo spettacolo di una crisi così violenta, Gilda rimaneva immobile e silenziosa, mal sapendo se quello che provava era pietà o disgusto.
Passarono alcuni istanti, e finalmente i singhiozzi divennero più radi, poi cessarono. Continuò ancora un pezzo a piangere, ma quasi in silenzio, con una sorta di dolcezza.
A un certo punto cercò la mano di Gilda, e la strinse.
Erano sul bastione che da Porta Romana mena a Porta Vittoria, uno dei bastioni più ricchi di verdura e più malinconici. L’aria fresca della campagna entrava dolcemente per gli sportelli aperti. Il sole discendeva dietro a una distesa di nubi color porpora.
Giungevano a porta Vittoria, e ancora non avevano parlato. Il vetturino rallentò un momento, poi, non ricevendo alcun ordine, tirò diritto verso porta Venezia.
Edvige si scosse; aveva bisogno di parlare — di parlare di sè, di rimettersi in buona luce davanti a Gilda, di rialzare il suo amor proprio depresso.
Più ancora, dacchè il destino l’aveva fatta incontrare in quella ragazza in un momento così decisivo, voleva sfruttare il caso, e trarne il maggior vantaggio.
Questo era per lei un principio di condotta, come chi dicesse una tattica di guerra, in tutte le circostanze imprevedute della vita.
Questa tattica e il suo ingegno, innegabile, il colpo d’occhio sicuro, la rapidità con cui poteva concepire un piano e la tenacità e l’astuzia che metteva nell’eseguirlo, formavano appunto il segreto della sua fortuna, in mezzo alle peripezie di una esistenza così avventurosa.
Ora ella era risoluta a tutto piuttosto che a decadere. Il solo pensiero di questo pericolo la faceva rabbrividire, e la paura che ne provava prendeva una forma acuta. Poichè dinanzi a sè ella vedeva lo scandalo di una cacciata obbrobriosa, e la sua vita data in pasto alla maldicenza feroce delle cento nemiche; vedeva la miseria e l’abbandono in cui sarebbe andata a finire, poi il disprezzo e l’oblìo, più doloroso ancora e più lugubre dello scandalo, più insopportabile della maldicenza.
Bastava che a Giovanni Pianosi saltasse in testa di eliminarla dalla sua vita, di riacquistare la propria indipendenza, di vendicarsi del tradimento di cui lei si era resa colpevole, perchè questo fantasma atroce diventasse una realtà inevitabile.
Ma ella non voleva; e la sua volontà era una forza su cui poteva contare. Già aveva cominciato col rendersi utile, e questo non era poco. Come tutto l’aveva secondata! Pareva quasi che dandole i maggiori colpi, il destino avesse cura di fornirle i mezzi per ripararli.
Il giorno in cui Sabina, spinta da un rimprovero, che si era meritato eccessivamente, metteva ad effetto il vecchio proposito di accusarla, fornendo le prove di cui si era impadronita, quel giorno appunto Giovanni aveva bisogno del concorso di lei per salvare il credito della sua banca e i capitali dello stabilimento industriale di Como.
Anzi, quando Sabina gli aveva consegnata la chiave, trafugata alla sua padrona, e gli aveva detto che quella chiave apriva una porta la quale metteva l’appartamento dell’avvocato Anselmi in comunicazione con la sede di una società di beneficenza, in una vecchia casa di via Tre Alberghi — un fabbricato enorme e disordinato dove si trovava un po’ di tutto: al piano terreno una scuola, al primo, la sede di una società di mutuo soccorso e quella di beneficenza, poi due o tre piccole industrie, al secondo una pensione con molte camere ammobiliate — egli aveva avuto la presenza di spirito di dire che lo sapeva che era cosa intesa, che la Signora si recava in quel posto per ordine suo, chiudendo così la bocca alla cameriera meravigliata e pentita, sebbene non molto convinta.
Il Banchiere odiava sopra tutto le scene violente e gli scandali, e questa disposizione naturale sarebbe forse bastata in ogni tempo a fargli tenere una linea di condotta così ferma e prudente; ma in questo caso egli era stato consigliato da un interesse più alto ancora.
Da parecchi mesi egli credeva di essere sulla traccia dei grandi imbrogli che si facevano nella amministrazione dello stabilimento industriale, a cui aveva affidato tanta parte de’ suoi capitali e tutto il suo credito; da parecchi mesi egli sapeva pure che l’avvocato Anselmi doveva essere il complice principale di quella ladreria. La chiave dunque non poteva arrivargli in miglior punto. E d’altra parte, Edvige nella sua qualità di dama benefattrice, aveva tali relazioni e così continue con personaggi altolocati e rappresentanti dell’autorità, che il suo ajuto gli era indispensabile, per eseguire il proprio piano di difesa.
Egli era andato, dunque, direttamente da sua moglie, sormontando, con uno sforzo supremo, il disgusto e la collera che ruggivano nel suo cuore, e le aveva parlato francamente.
In poche parole le aveva provato di sapere ogni cosa e che non valeva la pena di negate: meglio valeva una confessione spontanea, generale, sulla quale egli avrebbe poi deciso quello che gli rimaneva a fare per la loro vita avvenire: ora si trattava di riparare a un grave disastro, a cui lei, come madre, se non come moglie, non poteva essere indifferente — poichè, l’averla avuta compagna per tanti anni, l’averle dato il suo nome, l’essere lei madre di sua figlia, gli vietava di supporla complice di un truffatore: pensava piuttosto che l’astuto Anselmi si fosse servito della sua stolta passione per impadronirsi di certi indirizzi e scoprire il segreto di alcuni affari importanti.
Questo discorso l’aveva impressionata; visto che mentire non le giovava e nel medesimo tempo intravedendo una possibile salvezza nella verità, ella aveva confessato la propria colpa cercando, naturalmente, di alleggerirla. Nè aveva mancato di buttarsi ai piedi di lui e di supplicarlo a volerle perdonare.
Ma su questo punto egli era rimasto impenetrabile, dicendo, e era vero, che non voleva pensarci fino a che la più difficile delle due battaglie, in cui il destino lo gettava, non fosse terminata vittoriosamente.
Il tradimento della moglie era cosa sua personale; il disastro di cui era minacciato lo stabilimento industriale a Como e la sua banca a Milano, implicava la rovina di una quantità di persone, che avevano riposto tutta la loro fiducia in lui: era dunque dovere sacrosanto ch’egli si occupasse innanzi tutto di questo. Aiutandolo, ella poteva riparare, in parte, il gran male che gli aveva fatto.
Ed ella lo aveva aiutato, o meglio gli aveva obbedito con zelo. Per tutte quelle ore, non aveva pensato che a lui, alla bambina: agli interessi comuni... e alla propria salvezza.
Ma ora che il momento dell’azione era passato, si sentiva nuovamente scoraggiata e avvilita. Pensava che il Banchiere suo marito era forse vicino al trionfo, mentre per lei forse era giunta l’ora della rovina.
Il divorzio poteva essere la forma più clemente con cui il marito oltraggiato avrebbe cercato di riparare l’offesa fatta al suo onore.
Ai suoi occhi invece il divorzio era un male grave, poco meno della morte, perchè quantunque si vedesse ancora bella, sapeva che la fine della sua giovinezza era vicina, tanto più vicina se le veniva tolta quell’aureola di lusso e d’eleganza che nasconde così bene gli anni. E che avrebbe tatto nella solitudine, nella oscurità, nella mezza povertà, forse nella miseria, durante gli altri trenta o quarant’anni di vita, che la sua robustezza fisica le prometteva?
E Lea?... certamente egli avrebbe voluto tenerla con sè, e darle un’altra madre.
No! mai, mai; questo non era possibile. Ella non voleva il divorzio. Piuttosto qualunque cosa.
Ma la ragazza ch’ella si trovava accanto poteva forse giovarle. L’inclinazione che Giovanni aveva provato per lei, poteva essere sopita, ma non distrutta. Per un momento ella aveva avuto paura di quella inclinazione; ora poteva essere la sua provvidenza; ora, cioè, nella nuova fase delle loro relazioni matrimoniali.
Eliminato l’amore, ella sperava di poter contare sopra ausiliari più solidi: il vincolo della famiglia, un reciproco tornaconto e le convenienze sociali.
Non erano forse questi i sostegni più validi di tutti i matrimoni?
Ella calunniava forse molte persone per giustificare sè stessa; a ogni modo il giudizio era il resultato delle sue personali esperienze.
Bisognava che Giovanni accettasse questa maniera di vedere e si persuadesse della utilità di vivere unito a lei, come nel passato. Ciò non doveva esser difficile, dal momento che lui pure odiava gli scandali, odiava le scene violente, e doveva avere tutto l’interesse a ciò che i torti di sua moglie rimanessero nascosti, specialmente adesso, dacchè il seduttore era allontanato, moralmente ucciso, e che lui usciva appena da una crisi, in cui il suo credito e il suo buon nome avevano corso tanto pericolo!...
Se ella — senza parere — gli avesse offerto il mezzo di soddisfare il suo capriccio di cuore, senza disagio, nè chiasso?... Gilda tornava al suo posto, la zia era guarita; non c’era nulla di strano. La vicinanza avrebbe fatto il resto, ella li avrebbe lasciati liberi, sorvegliandoli però attentamente, per essere sempre padrona d’intervenire. Col tempo poi, se la piccina diventava troppo invadente, ella avrebbe certo trovato il mezzo di sbarazzarsene, e allora, d’altra parte, l’infedeltà del marito le avrebbe fornito un’arma di difesa, che ora le mancava.
Dunque era logico: a lei conveniva che Gilda tornasse in casa sua, subito, quella stessa sera. Quand’anche non ne avesse cavato altro utile, era sempre un diversivo, una distrazione piacevole ch’ella offriva al suo giudice, per guadagnar tempo: un bel guanciale di piume ch’ella metteva fra lui e lei, per evitare gli urti troppo rudi dei primi attriti.
Una volta persuasa del suo progetto, ch’ella aveva così ben ventilato in brevissimo tempo, la signora Edvige non pensò che a metterlo in esecuzione.
Con piglio affettuoso e commosso, riafferrò la mano della fanciulla e la strinse, come aveva fatto prima; poi, col tono più dolce della sua voce penetrante:
— O Gilda! — le disse — se sapeste quanto soffro! quanto mi sento oppressa! non potete figurarvi quanto sia grande la vergogna ch’io provo trovandomi in tale posizione davanti a voi, mentre voi chi sa, chi sa mai 1 quanto male avete pensato di me!...
— Io?... No davvero, Signora! Non spetta a me giudicarla — mormorò la fanciulla.
— Non spetta a voi! capisco quello che volete dire. Ma certo mi giudicate una gran colpevole... lasciatemi parlare. Sì, sì, lo so, sono colpevole. Non mi è bastato l’amore della mia Lea, non mi è bastato l’essere moglie e madre felice, ho lasciato che il mio cuore desse posto ai sogni, alle illusioni funeste! Pazza! dite pure: pazza!... Ma deh, Gilda, vi prego, non dite infame! Vi giuro, per quello che vi ha di più sacro, per la mia Lea che adoro: non ho mai macchiato il mio onore I Sono come voi, innocente.... e imprudente. Soltanto che in voi, perchè avete vent’anni, perchè siete libera, perchè non siete madre, l’imprudenza è perdonabile. In me diventa delitto. Un delitto tanto più grave, chè non ho mezzo di giustificarmi pienamente, e che agli occhi del mondo le apparenze bastano per disonorare una donna, e peggio ancora il manto di lei! Eppure, credete, io potrei giustificarmi, se qualcuno fosse tanto generoso da credermi: fu la pietà, un sentimento generoso, che mi trasse sull’orlo del precipizio. Ma ho lottato, veh, Gilda: posso dire che ho sostenuto lotte terribili e che ne sono uscita vincitrice — sebbene apparentemente vinta!
— O Gilda! — ella riprendeva dopo un momento di silenzio — non state a guardarmi con quell’aria fredda: dico la verità. Del resto potete persuadetene, voi, (cosi lo potesse mio marito!) Riflettete soltanto a questo; l’Avvocato vi faceva la corte... non potete negarlo, è la verità; ma egli non vi amava, poichè avete ben sentito ciò ch’egli mi disse ancora all’ultimo momento: se avesse amato voi non avrebbe pregato me di fuggire con lui; e d’altra parte, s’io non avessi resistito sempre ai suoi desiderii, credete a me, egli non mi avrebbe fatto quella proposta; gli uomini non si curano più tanto di noi, quando hanno ottenuto ciò che domandano con tanta smania. E ancora una prova voi avete della mia innocenza, e tale che deve innalzarmi nella vostra stima. Avete veduto come ho respinto la sua proposta. Quante altre in tali circostanze perdono la testa, dimenticano marito e figliuoli e si lasciano portar via! Io ho resistito come sempre, mentre il mio cuore si spezzava.
Ella si arrestò come affranta; tacque un istante, aspirò una boccata d’aria fresca affacciandosi al finestrino, guardò il viso serio di Gilda, sospirò profondamente, e tornò a parlare, così, audacemente:
— Voi forse penserete che in quel momento l’Avvocato poteva essermi diventato odioso per le accuse che pesano sopra di lui, tanto da costringerlo a fuggire; ma se avete mai amato, ditemelo, quand’è che noi donne crediamo alle accuse che demoliscono l’uomo che amiamo? Non è egli sempre innocente agli occhi nostri, o per lo meno scusabile?... E poi, qui si tratta di cose, d’affari, in cui noi tanto non si capisce un bel niente. Una volta mi pareva che tutti quelli che prestano danari e prendono un interesse, sia pure piccolo, fossero ladri perchè si fanno restituire più di quello che hanno dato. E chi sa quante donne pensano ancora così! E fanno bene. La vera donna è un essere troppo ideale, troppo superiore, per intendere queste bassezze, che si chiamano affari. Il danaro sporca, ed è naturale che quelli che lo maneggiano si trovino qualche volta le mani macchiate. Ma io divago in questi discorsi, che mi trascinano. Volevo solamente persuadervi che se le apparenze stanno tutte contro di me, le apparenze ingannano; che merito ancora la stima della gente per bene, e che ho saputo fare grandi sacrifici all’amore della famiglia. Voi siete commossa, Gilda, voi mi credete? Sì, sì, cara, lo vedo e ve ne ringrazio!...
La signora Pianosi cinse dolcemente la vita sottile della istitutrice di sua figlia, e serrandosela al petto la baciò in viso, con quella effusione femminile, che maschera tanti tradimenti. Gilda le rese il bacio, trovò qualche parola gentile, poi tacque da capo. Non poteva parlare. Era stanca, nervosa, con la testa indolenzita. Troppo giovine per leggere chiaramente dentro di sè, ella non avrebbe potuto dire fino a qual punto le parole di Edvige le parevano false o vere; ma provava un senso di disgusto a cui avrebbe voluto sottrarsi.
Il suo cuore era buono e naturalmente portato al rispetto, alla fede. L’idea che tutto quel discorso fosse un tessuto di menzogne, la sgominava. Avrebbe voluto crederlo tutto vero, tanto più che la colpa di quella donna prendeva ai suoi occhi, ingenui e pieni di amore per Giovanni, un carattere mostruoso. Ma il suo istinto femminile, maturatosi rapidamente, la sua intelligenza, la scena sulla terrazza a cui aveva assistito dalla sua finestra l’ultima sera della villeggiatura — quella memorabile sera! — lo stesso amore che provava per Giovanni, tutto ciò le gridava altamente, che quella donna mentiva, che era una ipocrita.
In tale stato d’animo, non poteva che tacere, maledicendo il momento che era uscita di casa quel giorno con la speranza di vedere Giovanni. Perchè ascoltava quei discorsi?... Era forse un sogno tutto quello che aveva visto e sentito?...
No. Pur troppo era una realtà.
Ella si era lasciata trascinare ancora una volta in quella corrente perversa e fascinatrice.
In fondo al cuore sentiva un lontano appello.
Perchè non era partita senz’altro per Napoli?
Con gli occhi dell’anima rileggeva la lettera di Mistress Thionny, così dolce, così affettuosa. O perchè non si era slanciata subito verso quella creatura buona, indubbiamente leale?
Rachelli, quell’uomo sapiente e modesto che le aveva date tante piccole prove di benevolenza, che, secondo Edvige, l’avrebbe volentieri sposata, quel buon amico era certo laggiù, anche lui, ad aspettarla, con la vecchia signora.
Che pace in quell’ambiente, che dolcezza!
Là, là era chiamata — là doveva andare. Certo, in quel momento parlavano di lei! La tenerezza pungente che si sentiva nel cuore, non poteva essere che una ripercussione misteriosa delle loro parole. Parlavano di lei, poveri buoni! Avevano fede nel suo senso retto, nella sua amicizia: l’aspettavano...
E lei non vi andava!
Forse si perdeva...
La percezione distintissima, ch’ella ebbe in quel momento del suo destino, la fece fremere. Era una visione precisa, luminosa: laggiù la pace, una vita pura e felice, consolata da miti affetti: qui il dolore, l’obbrobrio, la morte...
Ah! perchè non era partita subito!
Perchè non aveva presa una buona risoluzione, invece di uscire con la speranza di veder Giovanni?... Si sarebbe, non foss’altro, risparmiate tutte le amarezze di quella giornata. Avrebbe ignorati quei particolari disgustosi.
Ma forse era tempo ancora per fuggire altri affanni, altre esperienze crudeli.
Perchè no?
Or ora si sarebbero separate e lei sarebbe andata a casa sua. Subito subito voleva scrivere, poi partire di lì a pochi giorni.
Lontano, voleva andare.
Aveva sempre sentito una voce ignota, che la chiamava lontano, fin nelle sue fantasticherie di collegiale. Aveva la nostalgia di un paese ignoto. Forse quel paese non era di questo mondo! Chi sa che cosa era?...
Ah! se avesse potuto andare subito da quella buona amica! Forse vi avrebbe trovato l’oblio; sarebbe, guarita del male che la travagliava, guarita di quel fascino acre che l’aveva legata alla casa del Banchiere; prima con una curiosità malsana, poi con una passione febbrile, che non le prometteva alcuna uscita felice. Ma come era difficile il dimenticare! Si sentiva tutta debole, tutta sconvolta, improvvisamente ripresa, solo perchè il brougham, al cui conduttore Edvige aveva dato un ordine senza ch’ella vi badasse, era entrato nella nota strada. Per salvarla, per strapparla al suo male, sarebbe stato necessario che i suoi amici fossero venuti in persona a portarla via. Un braccio poderoso ci voleva, che la sollevasse di peso e la portasse con sè. Ella lo invocava... ma non poteva fare di più.
Edvige le diede una piccola scossa. Stavano per arrivare. La bella casa, dove ella aveva passati tanti dolci momenti, era là, con le sue finestre illuminate.
— Egli è nel suo studio, mormorò Edvige, con un fremito nella voce.
Gilda si sentì tutta rimescolare, ma non fiatò.
Tutto a un tratto si risovvenne:
— Io vado a casa mia, disse con voce secca.
— Oh! Gilda, ma vi pare? Volete lasciarmi così? Non avete un po’ di amicizia per me?... E la povera Lea, non la volete nemmen salutare? Sarebbe una cattiveria, di cui voi non siete capace.
Gilda la guardò con esitazione e diffidenza.
— Ma è tardi, disse, tanto per dir qualche cosa.
— No, Gilda, non è tardi. Guardate, alzate gli occhi. Vedete? Egli è là, nello studio. Certo ha già saputo l’esito della spedizione. Alla stazione c’era una guardia travestita che doveva informarlo della partenza dell’Avvocato. Guardate l’ombra sui vetri come va su e giù. È inquieto. Dio! chi sa come sarà intrattabile! — Si arrestò un momento aspettando che la ragazza dicesse qualche cosa; poi riprese:
— Ho paura, Gilda. Sapete, gli uomini sono originali. Lui è capace di non credermi nulla, di volermi punire, solo perchè mi sono compromessa, se si mette a pensarci in questo momento... La vostra presenza può farci un gran bene a tutti e due. Venite. Vi prego, per amor di Lea, almeno!
Ella era già discesa, e Gilda si lasciava trascinare.
Oramai non faceva che una debole resistenza. Le era bastato vedere la sua ombra inquieta, per dimenticare ogni altra cosa.
Era bastata la possibilità intraveduta di trovarsi con lui, dopo tanto tempo, in un momento in cui egli doveva avere tanto bisogno di consolazione, perchè tutti i savi proponimenti di poco prima cadessero, e tutte le dolci immagini di pace volassero via come un soffio.
— ... Ma è tardi, — disse ancora, mentre varcava la soglia, non sapendo dir altro, desiderando intensamente che ogni difficoltà si potesse appianare.
— ... Zia Caterina, cosa penserà?
Ma Edvige disse con premura:
— Manderemo subito qualcheduno a avvisarla.
Il figliuolo della portinaia, ecco. Va, bimbo, va, piglia il tram. Sai bene dove sta la signorina, sul bastione di Porta Romana? Sali a casa sua e di’ a zia Caterina che io le mando tanti saluti, e che sua nipote è qui con me: che stia senza pensiero.
Il ragazzo si era già messo a correre con i soldi per il tram in tasca, ben contento di guadagnarseli con una semplice passeggiata.
Le due donne salivano le scale lentamente, con le gambe intormentite dal lungo sedere in vettura.
— Vostra zia sarà felicissima di sapervi qui, — disse Edvige, come per finire di persuaderla. Ma Gilda non aveva più bisogno d’incoraggiamento. La sua fantasia si era già slanciata incontro a Giovanni, e il cuore le batteva come un martello dentro il bel petto verginale.
Lea venne incontro gridando allegramente:
— La mamma! la mamma!
Quando vide Gilda le fece una gran festa. Non finiva di baciarla e gridava con tutta la sua voce:
— È tornata! è tornata! Oh! che gioia! È tornata Gilda!
Entrarono nella sala da pranzo precedute dal giubilo chiassoso della bambina, che batteva le mani e continuava a gridare: — Oh! che gioia! è tornata! è tornata la mia Gildina!
La tavola era preparata, le lampade accese: evidentemente non si aspettava altro che l’arrivo della signora per annunziare che il pranzo era servito.
Lea corse a cercare il babbo nello studio.
Intanto Sabina si affrettava intorno alla signora Edvige per aiutarla a levarsi la mantiglia e il cappello, come se nulla fosse accaduto fra loro, e la signora accettava i suoi servigi con la più aristocratica indifferenza.
Gilda aveva fatto alcuni passi davanti a sè, poi si era fermata. I lumi l’abbagliavano, le pareva che la sala girasse e si sentiva stringer la gola da una commozione soverchiante.
Chiuse un momento gli occhi, come per Sfuggire a quella visione.
— Eccola! — disse la voce vibrante e gaia di Lea, additando a suo padre la giovane. — Vedi mo’ ch’è vero? — E correndo verso la sua istitutrice che se ne stava ancora immobile, con gli occhi bassi, le saltò al collo esclamando:
— Sai, Gilda? Oh! che ridere! lui non voleva credere che tu eri tornata! Come se Lea fosse bugiarda, eh?
Giovanni si avvicinò: era pallidissimo, e non trovò che poche frasi sconnesse per esternare alla giovane il piacere che aveva di rivederla. In compenso la sua stretta di mano fu più eloquente.
Si misero a tavola come nei tempi passati, quando Giovanni Pianosi era ancora ignaro della infamia che pesava sulla sua fronte, e sprezzando i pericoli che lo minacciavano, faceva dei bei sogni col cuore dolcemente scaldato da un amore romanzesco — quando Gilda Mauri si abbandonava con fanciullesca spensieratezza alle prime dolcezze di quell’amore.
Nell’apparenza nulla era cambiato. La sala aveva sempre il suo aspetto di ricchezza solida, con le pareti rivestite in legno di noce fino a un metro e mezzo di altezza, con le vaste credenze per argenteria e le porcellane, col largo specchio prospicente la tavola, il cui servizio massiccio, di argento, di porcellana inglese e cristalli di Boemia, tutto fatto fare a posta con la cifra del Banchiere, scintillava ai raggi intensi delle due grandi lampade a gaz.
Il domestico che portava intorno i piatti aveva la stessa faccia bonaria e sarcastica, coperta da una maschera di profonda soggezione. I padroni chiacchieravano tranquillamente di politica o di cronaca cittadina, del Ministero e del Municipio, di teatri e di attori, di maestri e di cantanti, e di tutti gli argomenti neutri che la civiltà mette alla portata di tutti, con pensieri belli e fatti, i quali servono non solo a chi non sa pensare, ma anche a coloro che in un dato momento hanno bisogno di stordirsi con una conversazione vuota, e di nascondere lo stato del proprio animo.
Malgrado questo e gli sforzi che il Banchiere e la sua signora facevano per nascondere le loro ferite sanguinanti, all’avida curiosità dei servi, la conversazione aveva delle interruzioni assai lunghe, dei languori, che Lea riempiva fortunatamente con le sue piccole chiacchiere di bimba felice.
Gilda da principio era incapace di sormontare la sua commozione: non rispondeva che a frasi brevi, a voce bassa. Ella aveva notato che al momento di mettersi a tavola il Banchiere aveva voltate le spalle a sua moglie con un movimento di profonda ripugnanza; poi lo aveva visto giocarellare col coltello in una maniera insolita, mentre i suoi occhi grigi, profondi, diventati quasi metallici in una durezza di espressione, ch’ella non gli conosceva, avevano fiammeggiamenti paurosi e una leggera iniettatura di sangue.
E come le pareva mutato! I suoi lineamenti tanto nobili e piacevoli, parevano allungati in una tensione penosa e formavano degli angoli duri. Le sue tempie così ben fornite di capelli fini, ricciuti, si erano un po’ denudate e i capelli cominciavano a inargentarsi.
A momenti, le pareva quasi un uomo nuovo, che poteva anche essere cattivo e crudele, e la cui voce, divenuta rauca, stonava coi suoi ricordi soavi. S’egli fosse stato sempre così, probabilmente non lo avrebbe amato mai, e anche adesso chi sa! forse questo cambiamento impreveduto, se fosse durato, avrebbe fatto fuggire il dolce fantasma ch’ella portava in cuore.
Ma non durava il cambiamento benefico.
Appena ella parlava, appena i loro sguardi si incontravano, egli mutava espressione e tornava quello di una volta; serbando soltanto l’impronta delle sofferenze morali, che lo avevano travagliato e lo travagliavano: e ciò lo rendeva ancora più interessante e degno di amore.
Allora Gilda pensava che lui era sempre stato buono e generoso, che lo avevano abbiettamente tradito, nella famiglia, nell’odore, negl’interessi, e che però aveva diritto a una riparazione formidabile.
E poichè lei non poteva far nulla, non poteva riparare alle sue sventure, nè vendicarlo delle offese patite, voleva almeno consacrargli tutta la sua vita giovine ed innocente. Egli ne avrebbe disposto a suo piacimento. Poteva farne un. amore serio, duraturo, mettendola al posto così indegnamente occupato da quell’altra; oppure, niente altro che un romanzo di pochi capitoli, scritti col fuoco però e indimenticabili, oppure ancora una amicizia pura e incrollabile, una religione ideale. Ella si sentiva capace di tutto, disposta a tutto, anche alla morte, pur di appartenergli in qualche modo, e consolarlo, per quanto lei poteva, del gran male che gli avevano fatto.
Così inebbriandosi della sua tenerezza, l’anima sua compi una evoluzione immensa in pochi momenti: così il suo amore sali al più alto grado, poichè ella non pensò più a sè, nè al proprio avvenire, ma unicamente a lui. Così, col cuore preso dalla più acuta pietà, la fantasia ubbriacata dalla singolarità della sua posizione, ella si votò incondizionatamente a quell’uomo.
Stavano prendendo il caffè, allorchè il domestico si affacciò all’uscio annunziando che il telefono, collocato nello studio del Banchiere, aveva dato il segnale di chiamata.
Egli si alzò senza dimostrare troppa premura e andò a ricevere il messaggio aereo, seguito soltanto da Lea, che era sempre molto curiosa di assistere a quelle misteriose conversazioni.
Edvige e Gilda si alzarono da tavola e si avvicinarono all’uscio, prese da una ansietà che le avvicinava.
Non andò molto che sentirono rinchiudere lo sportello; il Banchiere fece alcuni passi nel suo studio, e, da un leggero fruscio di seta, compresero che indossava il suo soprabito.
Quando ricomparve nella sala era pronto per uscire. Camminava con passo rapido e fermo, a testa alta, col viso illuminato da una soddisfazione che lo trasfigurava. Pareva un trionfatore.
— Tutto va bene! — esclamò con un tono di voce quasi fischiarne. — Il complice del ladro... avvocato Anselmi (impossibile dare un’idea della espressione di disprezzo con cui egli pronunziò questo nome) si è dato una revolverata!...
Gilda mandò un grido di orrore.
Edvige non fiatò; l’insulto di suo marito l’aveva fatta vacillare.
— È una bella cosa questa! — riprese a dire il Banchiere con animazione febbrile: — questa revolverata compie la salvezza della mia banca, della fabbrica e di tutti gli azionisti!
— Ma dove è avvenuta? — Si azzardò a domandare la signora Edvige — e come ha saputo, quello?...
Il Banchiere ghignò.
— Una volta fatto un piano — disse rivolgendosi a Gilda, — io sono d’avviso che non si debba trascurar nulla per eseguirlo con la massima sicurezza e precisione. E il piano che avevo fatto io era di una strategia molto ardita. Oso vantarmene. Così appena seppi dalla mia guardia, ferma in stazione fin dalle tre, che il peggior nemico si era allontanato, prendendo un biglietto per la Svizzera, senza avere il coraggio di far prima una visita al suo appartamentino riservato di via Tre Alberghi, dove teneva molte carte compromettenti e la maggior parte dei valori, feci telegrafare ad un impiegato della fabbrica, che io sospettavo di complicità, che si era fatta una perquisizione in casa del tale e che lo avevano arrestato. Bastò questo. Il telegramma lo feci firmare dal Giovannella, che era un po’ d’accordo con loro, ma che s’affrettò a tradirli appena s’accorse che io sapeva ogni cosa. Il merlo venne a Milano col treno delle sette e mezzo ora sono le otto e dieci! — andò alla casa dell’amico, trovò le guardie sull’uscio, scappò spaventato, saltò in una vettura, si fece condurre alla banca, ma prima di arrivare, a pochi passi di distanza, sull’angolo di piazza del Duomo, vinto, probabilmente, dal rimorso e dalla paura, si tirò un colpo col revolver, che aveva portato seco, si vede, ad ogni buon conto.
— È morto? — domandarono in due.
— A quest’ora forse sarà già morto... Il brumista lo portò fino alla banca, come gli era stato ordinato, e il povero Giovannella che andò ad aprire lo sportello, se lo trovò davanti boccheggiante in un bagno di sangue... Una buona lezione per lui!... Del resto sono cascati da imbecilli; specialmente l’Avvocato, il quale doveva sapere che io non avevo diritto di fargli fare una perquisizione, perchè non avevo prove del suo reato, e che se sono entrato in casa sua è stato un arbitrio mio, una rappresaglia, di cui avrebbe potuto chiedermi conto, quantunque io fossi riescito a persuadere persone influenti che il delitto doveva esistere, e avessi ottenuto in via di favore il permesso di far mettere due guardie alla sua porta... Ma queste canaglie sono poi sempre anche vili! Meglio così!...
Ora bisogna ch’io vada a Como col segretario che mi aspetta.
Dentro stanotte e domani devo fare una rivista completa di tutto lo state degli affari per presentarlo al Tribunale, con le piene prove, adesso che le ho, delle truffe e delle ladrerie del fuggiasco e del suicida.
— Che enorme lavoro! — esclamò Gilda.
Ma egli le assicurò che sapeva quasi tutto, che non gli rimaneva se non di conoscere esattamente alcuni particolari e di coordinare i documenti, giacchè da quattro mesi, da quando una persona amica lo aveva avvertito, egli stava in guardia, vegliava minuziosamente sull’andamento di tutti gli affari, e ci era voluto proprio una perfidia diabolica per ingannarlo.
Ma ora non voleva più rivangare in quel fango. Uno dei complici, forse il meno colpevole, aveva scontato il suo fallo con la vita. L’altro non poteva sfuggire al suo abbietto destino, che lo spingeva, da anni, di bassezza in bassezza.
Egli pronunciò queste ultime parole con voce grave e una espressione solenne e triste, che fece sparire, dalla sua faccia nobile e buona, ogni segno della brutale compiacenza, cui s’era abbandonato un momento prima.