Monsignor Celestino Cavedoni/Testo
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Estratto dagli Opuscoli Religiosi, Letterarj e Morali.
Ser. III. Tom. II.
Ben degna cosa si è, che fra noi si mantenga in osservanza il nobilissimo costume tramandatoci dai maggiori, d’encomiare qualche insigne nostro concittadino, nel giorno sacro al solenne rinnovamento dei corsi scientifici. Non è necessario vagare fra le tenebre d’età remote, per incontrarvi le sembianze di un personaggio memorabile, a cui la posterità riconoscente debba ravvivare la luce di quell’aureola che gli cinsero intorno al capo i secoli passati. In breve volger di tempo, la città nostra rimase orbata di uno splendido drappello di dotti che ne formavano la gloria: in pochi anni, ha veduto rapirsi celebri scienziati, letterati valorosi, giureconsulti prestantissimi. Fra tanti nomi che offrirebbero argomento di ben meritato encomio, io trascelsi, non senza grandissima trepidazione, quello di Mons. Celestino Cavedoni1, precarissimo ornamento ad un tempo della città nostra e di questo Ateneo. A me parve che un eco delle sue lodi dovesse risuonare eziandio entro le pareti di quest’aula nella quale anch’egli tante volte intervenne: e proponendomi a subjetto dei mio dire, un personaggio che contava fra i suoi più degni ammiratori i chiarissimi cattedratici dai quali ho l’onore di essere circondato, io mi figurava in certa guisa di rispondere a un loro voto, e quindi di ottenere alle povere mie parole più generosa indulgenza. Tanto più che riesce assai malagevole od impossibile, costringere nelle angustie di un discorso le lodi di un ingegno ragguardevole per le più svariale prerogative, ciascuna delle quali fornirebbe di per se argomento di compiuto elogio. Egli fu infatti versatissimo nella letteratura di quelle due nazioni alle quali fu accordato dal cielo il raro privilegio di ammaestrare tutte le altre: ei fu Archeologo e filologo profondo nei biblici studi, insigne autore d’epigrafi latine, benemerito dell’italica e della provenzale letteratura: e niuno palesò meglio di lui da qual vincolo di solidarietà sieno fra loro collegati gli studi i più apparentemente disparati. Ond’è che mentre io m’accingo a delinearne un’imagine, fate ragione, o Signori, che io aspiro non già a descrivere la storia de’ suoi meriti, ma a darne un cenno, e non già a tesserne l’elogio, ma a porgere un omaggio alla sua memoria.
Gli amatori della scienza rammentando le glorie dell’Italia nostra, per due volte maestra di civiltà al mondo intero, sogliono con sensi di magnanima invidia riguardare al valore ed alla fama d’uomini egregi nelle opere del pensiero, onde vanno segnalate le più colte nazioni. Ai medesimi debbe tornare assai caro il riflettere che, all’età nostra, due sommi Archeologi, Mons. Celestino Cavedoni e il Conte Bartolomeo Borghesi, sostennero il vanto dell’antico sapere, e in guisa il fecero da non essere né superati né pareggiati da veruno fra gli stranieri. Stretti insieme per lunghi anni da un vincolo comune d’amicizia e di studi, consacrarono tutta la lor vita alla scienza; l’uno ebbe il primato nella Numismatica, l’altro nell’Epigrafia, ed entrambi furono riguardati come l’onore dell’Italia nel secolo XIX.
L’Italia fino dall’epoca del risorgimento, mostrò per la prima al mondo di apprezzare l’importanza delle medaglie, coll’esempio di Francesco Petrarca, luminare della sua letteratura e al tempo stesso portento di molteplice e faticosa dottrina. Il quale non solo fè redigere pel primo una carta geografica, e pel primo forse combattè Averroe senza parteggiare per Aristotile; ma suggellò tutti i suoi meriti, facendo perseverante incetta degli antichi scrittori, acquistandoli con grave dispendio, correggendoli, propagandone il culto e l’amore, e raccogliendo eziandio nelle sue famose peregrinazioni le medaglie che gli veniva fatto di trovare.
Dopo il Petrarca, fu pure l’Italiano Sebastiano Erizzo quello che pel primo sparse qualche lume d’erudizione sulle medaglie: ma doveva scorrere gran tempo ancora, molti altri studi dovevano progredire, prima che ne sorgesse l’edifizio di una scienza novella. Il che accadeva per mezzo dell’Eckhel quando il secolo XVIII volgeva all’occaso. Spirava un’aura favorevolissima alle ricerche degli antichi monumenti, si facevamo scavi dovunque balenava la speranza di scoprirne, si formavano con ogni diligenza collezioni di medaglie.
Frattanto quel sommo Archeologo, pubblicando la sua opera immortale sulla Scienza delle monete antiche, rese attoniti i dotti che in lui salutarono il creatore della Numismatica, l’oracolo di tutti i Numografi avvenire. Il quale superando tutti coloro che lo avevano preceduto nell’aringo, per vasta erudizione e critica profonda abbracciò tutte le parti della numismatica disponendole in un ordine al tutto nuovo, semplice e filosofico. Ma l’Italia oggimai più non debbe invidiare all’Allemagna il suo grande Numismatico, poiché possiede anch’essa nel Cavedoni l’Eckhel del secolo XIX, che con immensi lavori la fece progredire, recandola ad alta perfezione. L’Università di Bologna d’onde spuntò la luce del sapere giuridico, fu la prima eziandio di tutta Europa ove sorse una cattedra per l’insegnamento delle antichità; e divenne la palestra in cui esercitò l’ingegno dopo i primi studi nel paese natio. I nomi dell’Archeologo Schiassi e del Mezzofanti che la scienza delle lingue rendeva concittadino di tutte le nazioni e fratello di tutti i popoli, rammentavano la gloria di quei tempi pieni di vita e d’entusiasmo nei quali quella città era il convegno di tutti gli studiosi. Il giovane discepolo si era consacrato alla carriera ecclesiastica: e sapendo che, in epoche tenebrose, l’umana ragione fé scintillare i primi raggi della scienza sulla fronte del sacerdote, volle farsi rappresentante di sì gloriose tradizioni. Con auspici felicissimi, profondamente si erudì sotto il magistero dei due celebri professori. L’uno gli fu maestro nell’interpretazione delle monete, delle iscrizioni, dei simboli, dei monumenti tutti dell’antichità: l’altro nella greca letteratura, e gli fé sentire vivamente nell’anima la bellezza originale di quella parola piena di nerbo e di splendore, di maestà ed armonia, colla quale fu vergato il codice più vetusto dell’umana famiglia. Ambidue furono per lui presi di caldo affetto, luminosa ne presagirono la carriera e ben presto l’accolsero nella loro dimestichezza. Onde la memoria di quei giorni sereni della sua giovinezza sempre lieta gli si affacciava poscia allo spirito, nè mai più se ne scompagnò l’affettuosa ricordanza dei venerati Professori, per le attestazioni dei quali, compiuti gli studi a Bologna, venne nominato Direttore del Medagliere Estense2.
Il Muratori e il Tiraboschi splendidamente illustrarono la Storia del nostro paese, ed egli che ne doveva essere il degnissimo successore nell’Ufficio di Bibliotecario, consacrava può dirsi le primizie del suo ingegno alla città nostra, illustrando le reliquie della sua antica grandezza, quando venne aperto un luogo di sicuro asilo a quei marmi scritti e figurati che ne porgono tuttora sicuro indizio3. Ma sebbene fosse cultore operosissimo d’ogni parte dell’archeologia, la voce del suo genio famigliare lo invitava specialmente alla Numismatica, e porgendole ascolto, con mirabile perspicacia definiva al possibile l’età dei nummi antichi, quasi conoscendoli al solo tatto, ne raffigurava la patria, ne interpretava i tipi. Ei travagliò a tutt’uomo, nello scrivere articoli che sparse a piene mani nei periodici nazionali ed esteri, dettando memorie e componendo opere di gran lena; sempre inteso a profittare e delle scoperte di nuovi monumenti, e delle recenti scritture pubblicate dai dotti.
Profondo conoscitore delle storie, meditò eziandio sulle pagine dei più insigni Archeologi moderni; ammirando nel Visconti il giudice inappellabile in materia d’arti antiche, e quello che rese l’Archeologia compagna della Filosofia e delle grazie; nel Marini il più perspicace nel leggere, e il più dotto nell’interpretare i monumenti scritti nel Romano linguaggio; nel Senator Buonarotti, quasi il ritrovatore dell’ottimo metodo d’interpretare l’antichità figurata e quello che schiuse la via battuta poscia si gloriosamente dal Winckelmann. Però quegli che tenne la cima de’ suoi pensieri fu l’Eckhel; in lui venerò il suo maestro ed autore, la saggia guida che dovea francarlo nel cammino della sua scienza prediletta: ed applicandone le norme filosofiche, le arricchì di nuovi canoni, ne corresse ed ampliò le dottrine, e seppe emularlo divenendo il suo grande ed impareggiabile commentatore.
Il Cavedoni accresce a meraviglia le dotte osservazioni del Viennese Nummografo, sottoponendo a nuovi esami e confronti antiche monete di città, popoli e re4: e poiché il sommo Poliglotto gli fu maestro ancora d’utilissimi insegnamenti pratici sulle monete greche e romane, sotto titolo modestissimo, gli consacra un capolavoro, frutto di studi profondissimi sui classici greci e latini, ricchissimo di nuove spiegazioni, due o tre delle quali sarebbero bastate a giudizio dell’esimio Nummografo Francese Coen, ad assicurare la fama di un Numismatico5.
Eravi una parte nobilissima della scienza, nella quale l’Eckhel illustratore insigne di tutte le altre, si mostrava minore di sé medesimo. Il Viennese Nummografo non estese le sue ricerche alle monete Consolari e di famiglie Romane, sebbene con grandi encomii ne celebrasse la prestanza; ché in esse ricorrono le geste, gl’istituti, le prische glorie della città eterna, gl’insigni giudizj degli stranieri intorno alla maestà dell’impero, i riti sacri e le imagini degli Dei, le effigie degli uomini illustri della repubblica, l’ uso vario della prisca lingua e del modo di scrivere, e in non poche un lavoro degno di greco artefice. Pago di crear dubbi intorno alle dottrine dei primi illustratori, non si curò di risolverli, e sembrava in vero che tal parte della scienza fosse provvidamente riservata all’italico ingegno. Sull’italico suolo fiorirono infatti fin dall’epoca dell’Orsini i più segnalati illustratori della medesima; l’italico suolo dischiudeva per tutto dal suo seno tesori preziosissimi, coi quali, mentre porgeva testimonianza fedele ed irrefragabile delle immense dovizie della Romana Repubblica, quasi invitava i dotti ad arricchire la scienza di nuovi giojelli. E qui nell’Italia nostra erano pur sorti lo Schifasi e quel meraviglioso Borghesi6 destinato ad avverare gli splendidi vaticinj che di lui fanciulletto ancora aveva fatto il Marini; e che colla sua dissertazione sulla gente Arria e colle Decadi Numismatiche più d’ogni altro spianava lo scabroso sentiero. L’esempio dei Professore e quello dell’amico, sono al Cavedoni uno stimolo potentissimo per entrar nell’aringo, e una prima occasione gli vien presentata dai depositi di medaglie trovati nel modenese territorio, già famoso nella storia di siffatti scoprimenti, fin dai primordi del passato secolo7. Su quei depositi speculando acutamente, allarga gli angusti confini tracciati dall’Eckhel nella sua trattazione sulle monete di famiglie Romane; se ne apprezza i precetti, ei mostra a quali eccezioni soggiacciano; e definisce l’epoca della legge Papiria importantissima per la storia di Roma, della sua politica economia e del suo diritto. Poi quando più tardi il Borghesi, tutto rivolto alla sua maggior opera dei Fasti e monumenti ipatici, gli cede l’incarico di nuovi e più completi studj, con lena gagliarda ei si accinge all’impresa: e combinando insieme tutti i risultamenti che un vasto ingegno può trarre dallo studio dei ripostigli antichi e moderni, scoperti in Italia e fuori, arricchisce la scienza di un capolavoro sulle medaglie consolari e di famiglie Romane, che a giudizio del Borghesi farà epoca nella storia, rendendo pressochè inutili gli scritti dei vecchi antiquari, sullo stesso subjetto.8
Un amichevole connubio stringe insieme la scienza delle epigrafi e quella delle medaglie; l’una riverbera sull’altra il proprio fulgore ed a vicenda lo riceve. Ond’è che lo stesso Eckhel avrebbe poggiato anco a maggiore altezza, se non avesse meritato il rimprovero fattogli dal Borghesi, d’aver posto talora poca cura nello studio delle antiche iscrizioni. Ora, come il Cavedoni si manifesta ad ogni tratto abilissimo interprete delle latine Epigrafi, così le sue Annotazioni al Corpo delle Iscrizioni greche gentili e cristiane, edite dall’Accademia di Berlino, ne dimostrano il valore in una maniera la più luminosa. Celeberrimi scienziati membri di quel consesso, attestavano ai presenti ed ai futuri, a qual grado di perfezione sieno giunti nell’età nostra gli studj filologici ed archeologici, con un’opera colossale ed europea, alla quale era necessario il sapere congiunto di tutti i dotti per parecchi secoli.
E il nostro Archeologo, ricordando che, in questi studi ancora, l’Italia riportò i primi trionfi, per opera di Ciriaco Anconitano primo raccoglitore di Greche Iscrizioni in lontane contrade, comparisce rappresentante del sapere Italico in un consesso celebratissimo, che annovera tra’ suoi membri un Boeckh illustratore delle Iscrizioni gentili, Principe dei filologi greci dell’età nostra, e un Kirchhoff illustratore delle Iscrizioni Cristiane. Solo un filologo di consummata esperienza nella vastissima letteratura greca, poteva arrecare incremento ad un’opera per la quale avevano sparso i loro sudori uomini di tanto sapere e di tanta fama. E tale è il nostro Archeologo che, quasi per giuoco e ricreamento d’animo, rivede, reintegra, corregge Iscrizioni con franchezza magistrale, determinandone talora in modo approssimativo l’epoca della sola qualità di una parola9. — Vi hanno certi confini che non è dato di valicare nemmeno ai sommi ingegni; e non è da meravigliare se il Boeckh non ebbe agio di fare studj abbastanza profondi sulle latine iscrizioni e sulle greche medaglie, inteso come era ad un’opera per la quale tornavano indispensabili cognizioni immense della più svariata natura. Egli stesso da vero dotto modestamente lo confessa; e trova nel Cavedoni un uomo che con pari modestia ne corregge e compie le osservazioni. Se un’iscrizione è stata ommessa, egli l’aggiunge: se una appartenente alle cristiane è stata posta fra le pagane, egli l’avverte; se il Kirchhoff si è scostalo dagli Apografi egli ne indica l’errore; se una formola greca ha il suo riscontro in un’epigrafe latina, egli lo trova con inattesa facilità. Egli arricchisce da solo l’opera di un consorzio di dotti di tutte le rettifiche e schiarimenti che in gran copia gli vengono suggeriti dalla critica, dalla storia, dall’antichità figurata, dai sacri e da’ profani scrittori; e quei dotti accolgono con affetto riconoscente le sue correzioni ed aggiunte, le approvano, le ristampano, e le pongono in fine a quell’opera monumentale, come degnissimo complemento10.
Le congetture e le ipotesi sono parte accessoria ed essenziale ad un tempo del patrimonio di ciascuna scienza, e come ad esse ricorre lo studioso della natura, e il seguace di Galileo che estatico contempla la volta stellata del firmamento, così se ne vale l’archeologo eziandio, avvezzo a sperimentare che pur fra lo squallore d’ipotetiche deduzioni, spunta rigoglioso il fiore della verità, e cresce robusto l’albero della scienza, come quello descritto da Platone, la cui cima più ardua tocca il cielo e riceve nutrimento d’eterea rugiada. Non poteva il Cavedoni sottrarsi a tal legge: ma non solo fu remotissimo dalle audaci e fantastiche ipotesi, più facilmente accarezzate dai compatrioti del Cartesio e dell’Hegel che da quelli del Vico, bensì soleva, con un linguaggio pieno di riservatezza, sottoporre le proprie opinioni all’altrui senno, mostrando pel primo di conoscere limpidamente, qual grado avessero di probabilità, e definendolo talora quasi direi con matematica esattezza. I fatti provano del resto quanto in lui fosse squisito l’istinto del divinare, e come per tempissimo ne fosse dotato. In uno dei primi suoi lavori Numismatici studiando in qual epoca poteva essere stato celato sotterra un tesoro di monete scoperto a Fiesole, giudicava esser ciò accaduto, quando le orde di Silla, portando il terrore nell’Italia e segnatamente nell’Etruria, diedero di piglio negli averi e nel sangue dei miseri Fiesolani. Il Borghesi vivamente da lui dissentiva; e sull’animo del Cavedoni pesava dolorosamente la sentenza di un uomo le cui parole erano oracoli di suprema autorità, ai quali tutta la dotta Europa soleva inchinarsi tacita e riverente. Ma la scoperta di nuovi monumenti in epoche successive, fece sì che il suo rammarico si convertisse in giubilo. Il Borghesi fu il primo ad averne cognizione e a studiarli, e confessando il proprio errore, non esitava a dirgli che le sue congetture rimanevano accertate, e si dichiarava pronto a rendergli pubblica e solenne giustizia.
Saviamente riflette l’Hase, che lo studioso delle discipline archeologiche batte il sentiero più lungo e scabroso per ottenere rinomanza. Imperocchè esso affatica il più delle volte l’ingegno intorno a minuziose particolarità, che non possono avere grande piacevolezza per l’universalità dei leggitori. Mentre non è malagevole procacciare al proprio nome una fama almeno passeggiera, dando spaccio a generalità senza costrutto, a frivole e sofistiche astrattezze, massime chi sappia vestirle di forme leggiadre ed appariscenti. L’occhio dell’uom volgare non scerne quanta mole di cognizioni storiche, geografiche, filologiche, artistiche, paleografiche, e qual vivida fantasia faccia di mestieri all’Archeologo nelle sue sottili ed intricale disquisizioni. Ma ben deve rimaner compreso di stupore chi medita ai meravigliosi risultamenti che ne ottiene, ai difficili quesiti che risolve, alle importanti verità che conquista. Se l’età nostra va a ragione superba, perchè i dotti nelle scienze naturali hanno scoperto ignote forze nella fisica e nella chimica, ignote armonie nella vita animale e vegetale, ignoti mondi nell’astronomia e tempi ignoti nella geologia, essa debbe sentirsi del pari gloriosa per gli stupendi incrementi arrecati alla scienza di tutta l’antichità. Ai progressi della quale diedero efficace impulso le dottrine filosofiche del Vico, che abbracciando in un vasto sistema d’idee l’ordine universale delle leggi onde si governa il mondo civile, insegnò che la scienza razionale non si compone tutta nelle interiori e solitarie contemplazioni del filosofo, ma richiede l’esame dei fatti umani, delle tradizioni, delle costumanze, delle leggi, degli avvenimenti. Ai giorni nostri l’Archeologia, quasi gareggiando colla scienza della natura, fa pur essa di se splendidissima mostra; tanto più perchè chiede agli ingegni un’istintiva virtù divinatrice del passato, somigliante in certa guisa alla chiaroveggenza profetica dell’avvenire. Volgete, o Signori, per un istante le vostre considerazioni alla classica antichità, ed osservate in quante parti ne sia stato ristorato il venerando edificio, onde appare ai nostri sguardi bello di nuova e più sfolgorante maestà. Accurate investigazioni d’ogni maniera ci palesarono la vita civile e religiosa dei Greci e dei Romani nei loro intimi penetrali, illustrando i costumi e gli avvenimenti, l’arte e la scienza. In quest’opera di magnifico rinnovamento ajutato dalla filologia, il compito più glorioso era riservato all’Archeologo, il quale raccogliendo colla pazienza del meccanico gli sparsi frammenti delle memorie smarrite, le ricongiunge e richiama a novella vita colla potenza creatrice dell’artista. Egli è perciò il solo storico dei tempi che storia non hanno, la guida sicura per far la debita stima degli storici e scrittori antichi, il più dotto maestro di chi studia il passato e lo descrive. Fu già tempo, nel quale al grande storico d’Alicarnasso venne apposta la taccia d’infido narratore: ma mentre gli studj Egizj dimostrano ad evidenza, non essere altrimenti vero che una parte ragguardevole del suo volume sia un tessuto di strani e fantastici favoleggiamenti, gli scavi nelle regioni ove sorse la superba città dell’Eufrate e le ricerche di Layard, Chesney, Oppert e Fresnel, pienamente confermano le descrizioni che quell’ingenuo ne tramandava. Se volgiamo il pensiero al mondo Romano ed in ispecie al culto religioso dell’occidente latino, chi mai, senza interrogare i marmi, potrebbe conseguirne cognizioni sicure? solo chi scruta il linguaggio delle iscrizioni comprende collo Zell e coll’Hartung qual divario corra sotto il rispetto religioso, fra l’imaginativa della schiatta latina e della greca. I poeti Romani abbelliscono bensì de’ più vaghi colori le visioni dell’Olimpo Ellenico, e gli stessi filosofi amano di mostrarsi profondi conoscitori della greca mitologia, ma codesto sistema non ebbe radice nel cuor del popolo, che professava un culto assai meno infetto di antropomorfismo.
Il grande nostro concittadino Sigonio fu il primo che colla face dell’Archeologia diradò le tenebre della Storia, e il Cavedoni ora ne rettifica le dottrine, ed ora gioisce di scorgere che i nuovi trovati ne confermano mano le sapienti induzioni. Tutti superava il Borghesi gli antichi e i moderni nel rendere l’Epigrafia tributaria alla storia. Ei fu scopritore di una storia novella di Roma, non già divinata sui volumi lasciati in comune retaggio dalla classica antichità, ma fondata sulla testimonianza di monumenti che dissipano non di rado, in modo irrefragabile, le più appariscenti menzogne e gli errori più radicati. Onde il francese Accademico Des Vergers. addivenuto discepolo del sommo Epigrafista, arricchiva di nuovi fatti la vita di quel Romano Imperatore che il fasto della corona non potè distogliere né dalla semplicità del costume cittadino, né dal culto delle lettere e della filosofia11. Anche la Numismatica largamente ricambia la Storia dei beneficj che ne riceve: perchè se dapprima ne è docile alunna a poco a poco si converte in maestra, ed è per questo che il Cavedoni ne apprezza e misura tutta l’importanza, e vagheggia dì diffonderne il culto. Egli segue gli esempi dell’Eckhel, del Visconti e d’altri uomini insigni, ed arricchisce la storia di preziose illustrazioni. Quindi colle monete degli ultimi re di Tracia avvalora l’opinione di Girolamo, che quella regione fosse primamente da Claudio incorporata all’impero12. Colle monete della Licia risale alle origini di quella greca colonia, ne mostra la floridezza ai tempi d’Augusto, concilia i racconti d’Erodoto e d’Isocrate, fa all’Eckhel egregie addizioni, ne sa risparmiargli la taccia di negletto13. — Lo rettifica con quelle di Costantino, e prova, che il Cesare Cristiano più saldamente raffermò il novello sistema dopo la morte di Licinio14. Ei si volge alle monete della Cirenaica: e vede che Angelo Mai, « ornamento e splendor del secol nostro ». questo uomo celebrato dai canti del Leopardi, e che da solo, accrebbe il patrimonio dell’antica letteratura, più che non abbia fatto un intero secolo prima di lui; porge argomento al Borghesi d’illustrare la storia di quella regione, scoprendo il memorabile sommario delle geste di Pompeo in Oriente15. E il Cavedoni piglia le mosse per gareggiare col nobile amico, e battendo un diverso sentiero, mira allo stesso scopo e lo raggiunge. Egli è attratto dalla beltà delle monete Cirenaiche, rispondente alla fama di quelle contrade, alla beata fertilità di quel suolo, all’opulenza de’ suoi abitatori, alla vigoria del loro ingegno; non isdegna però le monete Bizantine, inamabili a molti, quale testimonianza di un’arte decadente e spesso semibarbara. E poiché due dotti Francesi, il Barone De Marchant, e De Saulcy ne tornano in onore lo studio, grandemente giovevole alla storia della decadenza del Romano impero, ei si sente per questo eccitato ad imitarne l’esempio16. Ei gitta un guardo ancora sui più recenti scrittori di storie: e s’incontra con quello Storico coronato che dal trono di Clodoveo e di Carlo Magno detta la vita di Cesare: anch’esso il nostro Numismatico meditò sulle imprese dell’eroe di Farsaglia; e fondendo nel crogiuolo della sua critica lutti i testi vaghi e contraddittorj degli antichi scrittori che ne favellano, dimostrava pel primo, che a Cesare arrise propizia la fortuna delle armi in cinquantadue grandi battaglie campali: e col sussidio delle medaglie, che rammentano alla posterità il fondatore del Romano impero, offeriva una bella dottrina storica al nuovo Fondatore dell’Impero Francese17.
Col procedere dell’età cresceva l’operosità del Cavedoni, e la sua vena scorreva più larga e feconda, simile a fiume che, quanto più s’inoltra nel suo corso, più cresce e diffonde la copia delle sue acque. Quindi non è da stupire se apertosi il concorso a un premio di Namismatica dall’Accademia d’Iscrizioni e Belle lettere di Parigi, ei poté presentare due opere di diverso subjetto, cadute di fresco dalla sua penna. Qnell’Areopago di dotti, illustre per gloriose tradizioni, i cui suffragi autorevolissimi sono segno alle ambizioni dei primi scienziati d’Europa, gli decretava il premio, affermando che questo era un compenso sproporzionato a tanti servigi e a tanto ingegno. Una sola opera avevano presentato gli altri dotti concorrenti; ed è vero, che né il numero, né la mole dei lavori, sono argomento sicuro di lode ad uno scrittore; ma torna a splendido vanto del nostro Numismatico l’averne presentati due, ciascuno dei quali fu giudicato di per se, meritevole dei primi suffragi. Questi furono « La Dichiarazione delle Tavole del Carelli e la Numismatica Biblica. » E qui non vi torni discaro, o Signori, se in brevi tocchi ne ricordo l’importanza18.
Il Carelli, valoroso Archeologo Napolitano, erasi procacciata una collezione d’antiche monete della Magna Grecia, oltremodo copiosa e senza pari di pregio; e come il Re Luigi XVI acquistava quella del centenario Numismatico Pellèrin, così Giuseppe Bonaparte addiveniva proprietario della raccolta Carelliana: poscia a dimostrazione d’animo regio e magnanimo ne faceva dono alla Biblioteca di Napoli. Ma dopo breve tempo tale raccolta veniva adocchiata dalla Carolina Murat. A quella vista l’augusta donna rimaneva sì fattamente affascinata che per se la volle; e ad un volgere imperioso di ciglio, quel raro tesoro veniva destinato a crescere lo splendore della regale dimora. Poi, quando al tramontare dell’astro propizio la dinastia del re guerriero scompariva dalle spiaggie partenopee, con essa dileguavasi eziandio il Medagliere Carelli. Né più si seppe di suo destino, ed oggi ancora gli Archeologi d’Europa si domandano sconsolati dove giaccia nascosta così lauta preda.
Ma la benigna fortuna si era riservata di alleviare l’oltraggio recato alla scienza. Quando è negata al Numismatico la gioja di affissare gli avidi sguardi sulla moneta, contemplandone le originali ed eloquenti sembianze, ei s’allieta abbastanza ove gli sia concesso di raffigurarne su fedele disegno la pinta imagine. Spuntava un giorno fausto e felice che tutta rasserenò la famiglia degli Archeologi, allorché s’intese che ancora esisteva quasi tutto l’apparecchio delle Tavole in rame rappresentanti i disegni delle monete Carelliane. Il Millingen dall’Inghilterra mandava fervidi voti perchè le preziose reliquie fossero salvate dal quasi certo naufragio onde erano minacciate, tutti facevano eco alle sue parole, ed apparve un nume benefico nel Braun che facendone l’acquisto allontanò tutti i pericoli, fé cessare tutte le apprensioni.
La scienza che scrive ne’ suoi fasti il nome del generoso Braun, gli pone accanto quello del Cavedoni che secondandone l’invito illustrava le Tavole Carelliane. Per opera dell’uno, veniva in certa guisa ricuperata una collezione di monete avidamente cercate, per la leggiadria dei tipi e per la squisita perfezione dello stile; una collezione che nel suo genere è la più insigne non dell’Italia solo ma dell’Europa, anche dopo tante scoperte numismatiche. Per opera dell’altro fu riordinata e descritta secondo i più recenti progressi della scienza. Il Braun, lieto di poter appagare la comune aspettativa, dava l’opera in luce coi tipi di Lipsia; che le officine Italiche non bastavano a tanto; due giovani celeberrimi Professori, Teodoro Mommsen e Ottone Jahn ne dirigevano con somma cura la pubblicazione, alteri d’aver preso una qualche parte nella bella impresa: e il vero editore Braun, a contrassegno d’ammirazione e d’animo cortese, ne faceva apparire editore quegli che ne era stato soltanto l’illustratore.
Però io non debbo dissimularvi, o Signori, che fra i giudici Francesi uno ne sorse, il François Lenormant|Lenormant, il quale sebbene con grandi encomii celebrasse i meriti del Cavedoni, tuttavia inserì nel Rapporto della Commissione alcune sua censure contro quest’opera. Se non che le medesime non trovarono un eco presso i dotti; anzi servirono solamente a far sorgere un caldissimo difensore, fra coloro stessi che facevano parte della Commissione esaminatrice. Appena aveva il nostro Numismatico dato di piglio alla penna per apparecchiarsi alla difesa, e già il sommo Archeologo Francese Raoul Rochette erasi accinto a ribattere con tutta lena le ingiuste osservazioni del proprio collega: e con un linguaggio caldo d’ammirazione pel Numismatico Modenese, ne analizzava minutamente e commendava le dottrine, in una serie di articoli importantissimi stampati nel Giornale dei Dotti.19 E invero non si poteva trovare giudice e difensore autorevole più di lui, che per lunghi anni studiò le Medaglie della Magna Grecia, ed impiegò buona parte della sua vita a formarsene una collezione.
Fra le osservazioni del Censore Francese quella campeggia per l’importante controversia a cui si riferisce, che il Cavedoni non abbia impugnato l’esorbitante antichità attribuita ai prischi monumenti dell’arte Italica dagli Archeologi Romani. Il Lenormant, riguardandolo come timido amico del vero, lo disse avverso alle questioni storiche per non turbare le illusioni di coloro che di buon grado farebbero dell’Italia una scuola, alla quale la Grecia sarebbesi educata.
Sembra invero incredibìl cosa che riguardo al Cavedoni si possa adoperare un linguaggio somigliante. La natura del lavoro non gli consentiva di correre a piene vele il pelago sterminato delle questioni storiche, però da gran tempo erano note agli Scienziati d’Europa le opinioni da lui professate, in sì grave argomento. Egli aveva combattuto senza riserve e senza reticenze gli illustratori del Museo Kircheriano, Marchi e Tessieri, i quali fanno venire dal Lazio in Roma i primi artefici della moneta: mentre invece ei riguardava come fatto certo che vi si recassero circa la fine del IV secolo, e non già dal Lazio, ma dalla Campania, o da altre contrade abitate da Oschi o da Greci Italioti. L’eccellenza e perfezione dello stile, ond’è si bella la primitiva moneta Romana ed italica è argomento poderoso a sostegno della sua dottrina. Non si può pensare che, appena fondata la città di Quirino, i Latini, i Rutuli, i Volsci, gli Equi esercitassero le arti imitatrici della natura, con sì squisito magistero. L’incantesimo dell’arte greca non aveva per anche tolto lo scoglio della natia selvatichezza al Lazio agreste e bellicoso, né può supporsi che tanto valesse nelle arti da superare i Greci e segnatamente gl’Italioti. E il Cavedoni guidato da queste massime, propugnava la sentenza del Lanzi: che quanto più innanzi si procede nello studio dell’antichità, più si conosce la necessità di abbassar l’epoca dei monumenti d’Italia, perchè portandola troppo in alto, ne rimane scompigliata e confusa la storia dei popoli e delle arti.
Io vi dissi, o Signori, che l’altra opera premiata a Parigi fu la Numismatica Biblica. Lo storico delle lingue semitiche20, scrutando le vicende dei tempi nei quali lo splendore del genio semitico rimase offuscato dal culto delle lettere greche, è tocco di stupore, al contemplare quanta copia di preziosi insegnamenti venga somministrata al Filologo da questo ramo di Numismatica. — La qual serve di tessera, fedele ricordatrice delle lotte tenaci ed indomite sostenute dal popolo Ebreo, per l’indipendenza della Palestina: mentre, ad ogni trionfo conseguito, ricorre sulle monete il linguaggio nazionale, e vi compare il greco nelle patite sconfitte. Onde, come riflette lo slesso storico, è greco sotto i Seleucidi, ebreo sotto gli Asmonei; greco sotto i principi dell’Idumea, ebreo durante la prima rivolta; greco dopo la sottomissione di Gerusalemme, ed ebreo dopo Barcocheba. A studio di tanto momento applicossi il Cavedoni, e così colmò una lacuna che esisteva nella scienza, onde, fra tutti coloro che trattarono lo stesso subjetto, si può affermare di lui
Che sovra tutti com’aquila vola.
Troppo manchevoli erano i saggi dati dall’Ackerman, dal Bonetty e sopratutto dal Glaire Professore Parigino, alle cui dottrine erronee i traduttori sulle rive del Sebeto agevolarono il corso in Italia. Temevano gli eruditi che troppo tardi apparisse chi poteva appagare i loro voti, perchè a soddisfarli era necessaria una singolare varietà di studj, difficile a trovarsi in un uomo solo. Quest’uomo però fu trovato nel nostro concittadino. Egli è vero che poco dopo l’Accademico Francese de Saulcy trattava lo stesso subjetto con opposte dottrine, e quasi invidiando la fama del nostro Numismatico, ne attenuava i pregi con severi giudizj; ma allora ne sorgeva una viva discussione, la quale, come afferma il Werlhof, traduttore Tedesco del Cavedoni, faceva maggiormente spiccare il suo profondo sapere, e serviva a far sì che i dotti d’Allemagna e d’Inghilterra consentissero in modo definitivo nelle sue sentenze21.
Cosi il Cavedoni come Archeologo giungeva ad occupare un seggio insigne presso quei somnoi che si appellano Visconti e Borghesi: presso quel Visconti che la superba Albione chiamava a giudice supremo dei capolavori dell’arte greca trasportati a Londra, e presso quel Borghesi che, fatto romito della roccia di S. Marino, venne rassomigliato al dottissimo dei Padri Latini che dalla rupe di Betlemme rispose per quarant’anni alle consultazioni dell’oriente e dell’occidente22. Il Cavedoni pur esso soleva essere consultato dai più sapienti d’Europa, e la prontezza e facilità con cui scioglieva le più ardue questioni, toglieva di mezzo i dubbi, appagava le fatte dimande, accresceva lo stupore prodotto dai mirabili responsi 23.
Ma l’Archeologo fu Professore eziandio, e sostenne una parte importantissima d’insegnamento ne’ sacri studj, e debbe crescere l’ammirazione per quel vasto intelletto, ove si consideri quanto ei fosse versato nella biblica letteratura, nei padri greci e latini, in ogni ramo insomma di sacra erudizione. Perciò il suo ritratto non riuscirebbe né pieno né splendido abbastanza, se dopo aver favellato dell’Archeologo, non si favellasse eziandio del Professore d’Ermeneutica biblica e lingua ebraica, il quale non diede, è vero, in luce il corso ordinario delle sue lezioni, ma si palesò insigne coi moltissimi saggi dati, guardandone il valore sotto l’aspetto strettamente scientifico.
Gli studi orientali sono il subjetto più squisito della moderna poligrafia, perchè dall’Oriente, archivio delle più vetuste tradizioni, semenzajo inesausto d’idee e di memorie, sempre spuntò la luce dell’occidente. Di quegli studi è parte essenzialissima la Bibbia, che non è il libro soltanto di chi vive nei recessi del santuario, o nella cella dell’anacoreta; essa attrasse in ogni tempo i dotti in ogni ragione i studi, il filologo ed il filosofo, lo storico e il giureconsulto, il poeta e l’artista. Gli uni come Bunsen e Lepsius, Müller e Goerres scrutano le forme del suo linguaggio antichissimo, per risolvere gli ardui quesiti dell’etnografia, o rintracciare le prime orme stampate dall’umanità sopra la terra. Gli altri studiosi del pubblico Diritto e delle legislazioni, come il Sigonio, Pastoret e Dupin, volgono le loro considerazioni al meraviglioso assetto di una democrazia teocratica della quale non trovasi somiglianza presso verun altro popolo. Infine i Poeti e gli artisti, dall’Allighieri e dal Buonarotti fino al Manzoni, trovano nel sacro volume una viva sorgente d’ineffabili ispirazioni. Se non che, per ciò che riguarda la trattazione scientifica dei principj dogmatici, un dissidio irreconciliabile disgrega i seguaci del Cristianesimo dai settatori della filosofia positiva, moderna e antica ad un tempo, alla quale è primo canone l’ignoranza delle cause che trascendono le leggi dei fenomeni sensibili. Oltre di che, la moltiplicità delle religiose credenze moltiplica le barriere di separazione. — Voi sapete, o Signori, che l’idea religiosa, onde tutto si sentiva compreso il Cavedoni, era quella stessa dell’Allighieri allorquando nel mezzo del cammino della sua vita, commosso dagl’inni che la Cristianità faceva echeggiare sulle rive del Tebro, imprendeva il mistico pellegrinaggio, e commentando l’epopea del suo duca e maestro, spiegava la causa onde il padre di Silvio fu padre ed autore del latino impero. Questa idea, con tutta la virtù del suo prestigio, gli scaldava l’ingegno e gli governava la penna. Così il Cavedoni tutto compreso dal pensiero della divina consecrazione che gli brillava sulla fronte, imitava i figliuoli di Giacobbe che adoperavano ogni profano tesoro nel rendere più magnifico e venerando il Santuario dell’Eterno.
Come nella filologia e nella storia, così nell’archeologia, l’universalità degli studi fa spiccare la virtù sintetica dei forti intelletti, ed apre il varco alla soluzione delle più difficili controversie. Perciò di buon ora il Professore d’Ermeneutica spinse gli sguardi curiosi nelle antichità Egizie; e il primo impulso gli venne da un avvenimento, pel quale gli storici degli odierni progressi scientifici dovranno scrivere una pagina assai gloriosa per l’Italia, e per un altro dei più eletti suoi figli.
Di già il Champollion, qual novello Colombo, aveva scoperto l’antico mondo degli Egizj, rivelando il linguaggio che con migliaja di strane figure e di cifere arcane sta impresso sugli involucri delle mummie, sui tempi, sulle piramidi, sugli obelischi, negli ipogei di quel popolo singolare, al quale più stavano a cuore gli onori dopo la morte, che le glorie caduche e passeggiere della vita. Un altro allievo del Mezzofanti, affettuosissimo amico del Cavedoni, il giovane Rosellini Professore Pisano, divulgava pel primo in Italia quel trovato meraviglioso, che il grande poliglotto ben tosto adoperavasi anch’esso a propagare.
Ma il discepolo del Champollion ne diveniva ben presto l’amico anzi il fratello. Il progetto di una spedizione scientifica in Egitto, favorito prima dal Governo Toscano poscia accettalo non senza difficoltà anche da quello di Francia, appagava i voti dei due dotti compagni; che in un impeto d’entusiasmo per la scienza novella osavano un giorno divisare un viaggio nelle misteriose contrade dei Faraoni. E colà trasportati, con quell’animo invitto che non fiacca o disfranca a vcrun rischio, s’internarono nelle tombe quasi innumerevoli di Memfi, dell’Eptanomide, dell’Elythia; percorsero le intricatissime ambagi dell’immensa necropoli di Tebe, penetrarono nello speco maggiore d’Ibsambul nella Nubia, per ritrarre le sculte imaginì e i geroglifici, che a milioni ricoprono le pareli dei più suntuosi sepolcri.
Il Cavedoni sospirava l’istante di poter profittare delle nuove scoperte Egizie, e questo istante giungeva. La morte aveva rapito nel fior degli anni l’immortale Champollion, e il Rosellini, da solo, intraprendeva la pubblicazione di una vasta serie di documenti, riguardanti la storia, la cronologia, i costumi civili e le dottrine del culto Egizio. L’Archeologo Modenese si affisa avidamente su quei testi bilingui, che mentre favellano allo sguardo, condannano tuttavia a durissime prove ogni ingegno più gagliardo. Ei riconosce coll’Ideler, nel Rosellini maggior sicurtà di dottrine, che nel Champollion: non si propone di seguirli nello studio dell’arcano linguaggio; ma seguendo le orme d’entrambi, ne commenta le conclusioni storiche, e si rafferma nella convinzione, che, come l’antica Storia degli Assiri e de’ Caldei si comincia a chiarire solo all’epoca del secondo regno dell’Assiria, così anche la Storia Egizia divien chiara, quando le memorie di quelle nazioni cominciano ad accordarsi cogli annali del popolo Ebreo24.
Egli è ben vero che un acerba dissidio intorno alle epoche più vetuste del popolo Egizio, tenne lungamente gli animi agitati e divisi. Il Dupuis ed altri francesi favoleggiarono di un’età remotissima guardando alle figuri zodiacali di Dendera e di Esneh, e interrogando gli astri, credevano di penetrarne l’arcano significato. E d’onde, per risolvere la questione, poteva discendere la luce negata dagli astri? non certamente da’ greci scrittori, che lasciavano alla posterità l’ingrato retaggio di asserzioni vaghe e contraddittorie: non da Manetone Eliopolitano, sebbene educato dai Sacerdoti in uno dei centri della civiltà Egizia. I soli monumenti potevano toglier di mezzo ogni dubbio. Su quelli meditando, ne è dato di raffigurare le larve ingannevoli dell’Astrologia Egizia, che dopo aver corso la Grecia e Roma, tornava al suolo materno, imbaldanzita del favore dei Cesari, e consacrava nei tempj l’impero delle sue superstizioni25.
Come nel Numismatico e nell’Epigrafista si svela a chiare note il Professore d’Ermeneutica Biblica, così spiccano in questo ad evidenza le sembianze dell’Archeologo e del Filologo. E come Achille riceve dagli Dei le armi per combattere, così ei le piglia da tutta ]’ antichità, in difesa delle dottrine che propugna dalla cattedra. La Bibbia gl’ispira l’opera premiata a Parigi, colla quale illustra la numismatica: la numismatica gliene ispira un’altra, colla quale illustra la Bibbia26. Inteso ad additare i metodi più sapienti dell’esegesi, combatte i recenti interpreti dell’Allemagna, che vantano, come supremo principio ermeneutico, l’uso del parlar prisco, ponendo talora io non cale le antiche versioni e le tradizioni dei maggiori. Perciò dalle più celebri officine dell’Alemanna filologia piglia le prove, a sostegno del proprio asserto, e compreso di stupore pel Gesenio che, dopo aver fondato una dottrina paleografica, pel primo legge le lettere Numidiche, e pel primo spiega i monumenti Fenici, con dimostrazione peregrina e tutta sfavillante d’evidenza, dal sistema che ha seguito il più profondo Orientalista moderno, tragge norme sicure da seguirsi eziandio per l’intelligenza del testo Ebreo 27. Per le quali dottrine, grandemente apprezza le antiche versioni, e chiarisce i pregi della siriaca della Pescito, elaborata su purissimi testi, e fra le ambagi di somali Filologi, ne rafferma l’antichità con prove sfuggite all’acume dei più perspicaci28. Quindi celebra Alberto Pio di Carpi, memorando per ingegno e grandezza di concetti, munifico verso le lettere e verso le arti, che pel primo forse in Italia, con largo dispendio, fé trascrivere alcuni codici Siriaci ed altri scritti in lingue orientali dei quali ne porge accurato ragguaglio29. Poi dalle investigazioni più severe e riservate ai pochi, trapassando alle più amene e di facile diletto, sui campi ognora delle bibliche discipline, coglie fiori pieni di venustà e di fragranza, e li porge ai cultori della greca, della Ialina, dell’Italica letteratura.
Gli uni ricrea d’infinito diletto, mostrando il culto delle greche lettere diffuso presso gli antichi Israeliti, dalle scuole dei grammatici Alessandrini, dopo che l’Oriente fu soggiogato dal Macedone30. Col Siracide alla mano, non che cogli altri scrittori dell’antico patto ad esso posteriori, pone a riscontro le locuzioni, le imagini, le sentenze dei medesimi, con quelle di Omero, dei gnomici greci e specialmente di Teognide, e di ogni altro più famoso, sicché ben veggasi con quanta disciplina e magistero di somiglianza, le une si specchiano nelle altre. — Agli amatori della Romana filologia inculca col Gessner di tener conto dell’antica vulgata Itala anteriore ai tempi di Girolamo, come di un classico scritto, e di una fonte di latinità; ed egli stesso accresce le dovizie dei lessici moderni più accurati e compiuti31. E poiché l’età nostra, profondamente scossa dalla voce dell’Allighieri, gli rende gli onori negati in tempi frivoli e vanitosi, il Cavedoni unisce anch’egli la sua parola, per porgere un tributo di ammirazione al divino poeta, e questa parola ei la prende dalla Bibbia.32. L’Omero della cristiana civiltà che, come diceva Vincenzo Monti dalla sua cattedra di Pavia, rivendicò alla poesia lo scettro dello stesso regno teologico, congiungeva in un solo affetto il sacro volume e la Romana Epopea; e come da questa ne pigliò lo stile, così con quello crebbe lena e vigore alle altissime fantasie. Al severo Professore d’Ermeneutica Biblica, dovea sovranamente piacere l’Allighieri, che benigno verso coloro i quali allucinati da fallaci apparenze tortamente filosofavano, faceva segno agli strali dell’ira magnanima gl’infidi interpreti del sacro volume. Come questo era il libro prediletto e fondamentale del Cattedratico, così il sacro poema lo era del letterato Italiano; che l’italica letteratura formò pur essa le delizie di quel vasto intelletto; ei fu di questa grandemente benemerito: e qual fosse appassionato cultore del gentil nostro idioma, lo dimostrano l’ingenuo candore dello stile, vero specchio dell’animo suo, e la magistrale proprietà che per tutto scorgesi nel suo dettato.
Al Cavedoni ricco di tanto sapere, non potevano mancare, né il plauso universale de’ più dotti d’Europa, né altre onorifiche distinzioni che egli ebbe non cercate, non ambite, non superiori al merito. Il suo nome suonò glorioso fino nelle remote contrade della Russia, di dove la Principessa Kotschoubey gli spediva in dono un’opera di numismatica, edita con regale munificenza, e non posta in commercio33. Dalla dotta Allemagna gli vennero grandi attestazioni di stima: ed anche sulla foggia di quelle che, alcuni lustri fa, il Grimm, versatissimo nelle antichità Germaniche, porgeva a Carlo Troya, profondo conoscitore di cose Longobarde, appropriandosene le dottrine.34 Di pari guisa il Friedlaender, illustratore delle monete Osche, si appropriava osservazioni del Cavedoni, e il Rathgeber, illustratore delle monete Ateniesi, seguiva l’esempio del suo connazionale. E giacché ho toccalo più volte del Borghesi, consentitemi, o Signori, che a proposito di questi scienziatissimi Alemanni, io vi rimembri ancora del celebre Epigrafista Olao Kellermann già suo discepolo, al quale diede in dono i materiali di un volume sull’interna Organizzazione delle Romane coorti che prima era assai poco nota. Tanto era vivo l’affetto che il grande Italiano aveva posto nel giovane forestiero; sì nobile ed eccelsa era la tempera dell’animo suo; sì facile e copiosa scorreva la vena dei nuovi trovati da quell’ingegno privilegiato! Il Kellermann pubblicava il libro come proprio, e quando una morte immatura, fè cadere i suoi manoscritti nelle mani d’alcuni dotti Alemanni, ben rimasero questi sorpresi scoprendo eziandio quelli del Borghesi. Assai diverso fu da questi il Lepsius che dall’Allemagna recatosi a Pisa per farsi discepolo del Rosellini, ingenuamente confessava di quanto andasse debitore al suo perfetto e generoso disinteresse35. Tali fatti però, dimostrano, io credo, l’esorbitanza delle opinioni e il servile andazzo di coloro, che alternando le lamentevoli elegie sulle condizioni della coltura Italica, cogl' inni di lode fragorosi ed incessanti al sapere alemanno, riguardano quei dotti come gli Eumolpidi d’Atene, che soli erano i privilegiati depositari dei misteri di Cerere: obliando talora, o non pregiando abbastanza quegli impareggiabili Italiani, che tuttora rammentano agli stranieri la Storia della nostra grandezza.
Appartenne il Cavedoni alle più famose Accademie d’Europa;36 il Comune di Modena che ambì d’avere nel Tiraboschi un suo concittadino, ascrisse lui, suo successore nell’ufficio di Bibliotecario, all’ordine del Patriziato, lo sollevò alla dignità di Prelato il Pontefice, lo fregiarono di decorazioni i Monarchi. Il Sacerdote modesto37 e solingo attrasse a se gli sguardi dello stesso Imperatore dei Francesi, che lo nominava Cavaliere della legion d’onore. E ciò faceva egli, senza alcuna interposizione altrui, senza che il nome di lui gli venisse proposto da alcun ministro, ma solo per impulso suo proprio, recandosi a gloria, come scrive Ernesto Desjardins, di dare siffatto contrassegno di stima al più illustre Numismatico d’Europa38. L’ammiratore del Borghesi che a proprie spese ne faceva stampare le opere a Parigi, lo fu eziandio del Cavedoni, che in quell’impresa rese servigi i più segnalati alla memoria dell’estinto amico, come membro di un consesso dei più dotti Europei, incaricati di dirigere quella pubblicazione. Per lui era preso del più sentito affetto il Principe Massimiliano Arciduca d’Austria, appassionato cultore della Numismatica, e che il Sestini chiamava luminare e splendore fra i colleghi dell’arte che professava. La presenza del Cavedoni abbelliva oltremodo il soggiorno della città nostra all’ospite augusto, che giunto alla reggia dei congiunti, moveva frettoloso il passo alla biblioteca, per deliziarsi con lui in eruditi colloqui. Al vederlo era tocco da vivissima commozione che tutta gli trasparia dal sembiante: sì gli stringeva la mano con effusione di letizia, con lui conversava lungamente, e avresti detto che gli riusciva amarissimo il separarsene. Può ognuno figurarsi di leggieri, quanto tornassero gradite al Numismatico quelle visite cortesissime, sempre apportatrici di novelli doni al Museo, in medaglie ed altri oggetti pregevolissimi39.
Forse non avvi Archeologo di merito insigne che, alla maniera degli antichi savi della Grecia, non abbia cercato di procacciarsi dai viaggi una più ricca suppellettile di dottrina. L’Eckhel veniva a perfezionarsi al cospetto dei monumenti italici, e grandemente si giovò della dimestichezza contratta col Lanzi, col Marini, coll’Oderici e col Cocchi. E qual è fra gli Archeologi a cui la vista di Roma imperatrice delle genti, non sorrida al pensiero come il sogno più bello della vita, come la meta più sospirata d’ogni desiderio? Ei conosceva in ispirito la città del Tebro, e ne favellava col linguaggio dell’Allighieri, allorchè diceva nel suo convito: E certo io sono di ferma opinione che le pietre che dentro le sue mura stanno sieno degne di riverenza: e il suolo ove ella siede, sia degno oltre quello che per gli uomini è predicato e provato. Pure ei passava i suoi giorni entro l’angusta cerchia della città natia, amante del vivere appartato e cogitabondo, e forse la tempera di un fisico delicato, e spesso cagionevole, gli rese cara una perfetta uniformità d’abitudini, e parve che i sereni diletti dello studio l’appagassero compiutamente. A lui sarebbe stato giovevole l’osservar monumenti in maggior copia, ma, riflette il Francese Nummografo Coen, s’egli avesse visto di più, chi sa che non avesse divinato meno?
Così, con questi modi disadorni, cercai di rammentare i meriti precipui del Cavedoni, e ben lungi dal sapermi sollevare all’altezza del subbjetto, di molti non vi tenni parola. Io non vi favellai dell’Epigrafista profondo conoscitore della lingua del Lazio, degno discepolo del Morcelli e dello Schiassi, degno condiscepolo dei chiarissimi fratelli Ferrucci. Chiunque a lui si volgeva per avere un’iscrizione, era appagalo tantosto, e ne dettò in gran copia, d’argomento religioso e profano, a ricordanza di pubblici fasti e di private contingenze, in lode d’esimii personaggi e di semplici cittadini. Ei fece spiccare la sua perizia in questo genere di componimenti, modesti sì ma non poco malagevoli, nei quali egli congiunge la semplicità all’eleganza, la chiarezza e facilità all’arte ben poco facile dì dettarli con molta varietà di concetti e di forma in circostanze somiglianti. lo non vi dissi dell’infaticabile corrispondente, che non lascia senza riscontro alcuna proposta, ne del linguista, che al possesso dei classici idiomi, quotidianamente necessari all’Archeologo e al Professore, aggiunse la cognizione del Colto, esplorò quello della misteriosa Etruria, fu intendente nel Francese e nel Provenzale, nel Tedesco e nell’Inglese. Né finalmente vi descrissi il Sacerdote di soave ed incorrotto costume, che scrupolosamente adempie i doveri lutti di una vocazione, angusta e sublime nell’origine, nell’esercizio, nello scopo.
La durata dell’età sua fu quella che, per sentenza ancora dell’Allighieri, segna il cammino più naturale dell’umana vita. Non era scorso un anno ancora dalla morte del Tiraboschi, ed egli apriva gli occhi alla luce del giorno nel 18 maggio 1795, sui colli Modenesi a Levizzano, poco lungi dalla patria del Muratori. Così la benigna Provvidenza vegliava amorosamente per ristorarci dai patiti danni, quando discese nella tomba quel figlio adottivo della città nostra, che qui ebbe lieto e riposato ostello, e fu Professore onorario di questo Ateneo.
E poiché nel 26 Novembre 1865 suonava l’ora ferale che a Modena rapiva il successore dei due sommi storici, deh possa almeno la sua memoria, anzi quella di si splendido triumvirato, rimanere saldamente impressa nell’animo della crescente generazione; esserle stimolo a forti e virili propositi, sicché non torni a rimprovero di nepoti degeneri e codardi, l’aver sortito la nascita nel paese dove vissero e morirono un Muratori, un Tiraboschi, un Cavedoni. 40
Note
- ↑ [p. 40 modifica]Il Cavedoni nacque d’umile famiglia a Levizzano, e suo padre fu un piccolo possidente e negoziante di pelli, con bottega a Vignola dove soleva recarsi, segnatamente nei giorni di mercato per esercitarvi il suo traffico. Dopo i primi studi fatti in patria, passò a Modena nel Ginnasio di S. Giovanni Battista, del quale era Direttore il giovane Professore Don Antonio Gallinari. La Rettorica era insegnata da Don Gaspare Manfredini ad magisterium mire compositus come dice l'iscrizione sepolcrale posta sopra la sua tomba nella Chiesa Parrocchiale dì S. Anna Pelago ove nacque e dove cessò di vivere in freschissima età l’anno 1818. Fu desso il primo maestro che educò il Cavedoni al culto delle lettere, questi a lui porse i primi saggi del suo ingegno, e il Manfredini ne rimaneva pago sì fattamente, che lo colmava d’elogi in faccia ai condiscepoli, e lo additava come modello di diligenza e d’ogni costume più gentile. Dopo gli studi fatti in Modena, passò poi a Bologna dove rimase cinque anni a profittare degl’insegnamenti del Mezzofanti, dello Schiassi e del Bianconi. Durante la sua dimora in quella città, l’amico e compagno più intimo del Cavedoni fu Michele Ferrucci ora Professore nell’Università di Pisa.
- ↑ [p. 40 modifica]Il Cavedoni ne’ molti suoi scritti coglie con piacere l’occasione dì favellare del Mezzofanti, e si vede che l’animo suo è scosso da un moto interno di tenerezza e di viva gratitudine. Ha scritto alcune memorie intorno alla vita dell’uomo celebre, inserite nel Tomo IX degli Opuscoli Religiosi letterarj e morali stampati in Modena, dove dice: « In sul cadere dell’anno 1820 allorché io, per testimonianze e raccomandazioni sue e del Ch. Can. Filippo Schiassi, fui designato dalla clemenza dell’ottimo mio Principe Direttore del R. Museo Estense delle Medaglie, egli soffriva a mio riguardo persino i rigori estremi della fredda stagione, per addestrarmi alla cognizione pratica delle antiche monete Greche e Romane nelle stanze del Pontificio Museo di Bologna pel decorso del Dicembre che fu rigidissimo. « E più avanti soggiunge. » Ne’ cinque anni che mi fu dato godere del suo in-[p. 41 modifica]sì pubblico come privato, nol vidi mai turbarsi pel tardo intendimento mio o di altri suoi scolari; sì che in lai non si verificava altrimenti quella sentenza di M. Tullio (Pro Roscio com. II.) quo quisque est ingeniosior, eo docet iracundius et laboriosius.
- ↑ [p. 41 modifica]Dichiarazione degli antichi marmi Modenesi con le notizie di Modena al tempo dei Romani. Modena, Vincenzi, 1828. Vi è una dedica allo Schiassi.
- ↑ [p. 41 modifica]Spicilegio Numismatico, ossia Osservazioni sopra le monete antiche di Città, Popoli e Re. Modena, Soliani, 1838.
- ↑ [p. 41 modifica]Alcuni dotti nostri concittadini resero un degnissimo omaggio alla memoria del Cavedoni, coll’opera intitolata: Notizie intorno alla vita ed alle opere di Monsignor Celestino Cavedoni con appendice di sue lettere ed altre cose inedite. Modena, Tipi dell’Imm. Concezione edit. MDCCCLXVI. In quest’opera egregia oltre all’Elogio recitato nei solenni funerali dal Prof. Don Masinelli e ad un elenco degli scritti del Cavedoni, fatto dall’Avv. Pietro Bortolotti con accuratezza mirabile, si trovano lettere di parecchi dotti, fra le quali quella del Coen a pag. 274, dalla quale è stato preso il giudizio citato in questo ragionamento.
- ↑ [p. 41 modifica]Il Cavedoni ha scritto i « Cenni autentici intorno alla vita e agli studj del Conte Bartolomeo Borghesi » (Tomo IX degli Opuscoli Religiosi, letterarj e morali.) Principe degli Archeologi dei giorni nostri, come egli lo chiama. Stette con lui in corrispondenza per circa 40 anni, e le sue lettere, alcune delle quali sono piuttosto dissertazioni, formano un intero volume della corrispondenza manoscritta del Cavedoni che si trova nella nostra Biblioteca. Così racconta egli in che maniera entrasse in relazione con quell’uomo insigne. « Il Borghesi mostravasi dolente di non aver potuto vedere la dissertazione, assai rara in Italia, del dotto inglese Giovanni Swinton de quinario gentis Metiliae (Oxonii 1750: v. Borgh. Decad. VI. oss. 4). Avendola io alle mani gliene trasmisi un sunto; e gli proposi alcuni quesiti numismatici per averne schiarimento. Qualche tempo dopo mi onorò della prima cortese sua risposta in data dei 16 Febbrajo 1823. »
- ↑ [p. 41 modifica]Saggio di osservazioni sulle medaglie di famiglie Romane ritrovate in tre antichi ripostigli dell’acro Modenese negli anni[p. 42 modifica]1812, 1815, 1828 Modena, Soliani, 1829. È dedicato al Prof. Girolamo Bianconi.
- ↑ [p. 42 modifica]Ragguaglio Storico Archeologico dei precipui ripostigli antichi di Medaglie Consolari e di Famiglie Romane d’argento. Modena, Soliani, 1854. È dedicato al Borghesi.
- ↑ [p. 42 modifica]Annotazioni al Corpus Inscriptionum Graecarum, che si pubblica dalla R. Accademia di Berlino. Nei Tomi III. IV. V. VI. della Serie Terza delle Memorie di Religione di morale e di letteratura stampate in Modena.
- ↑ [p. 42 modifica]Si vegga l’opera suddetta sotto il titolo Addenda et corrigenda.
- ↑ [p. 42 modifica]Natale Des Vergers membro dell’Istituto di Francia dopo essersi procacciato bella fama nella filologia orientale e negli studi dell’antichità, compreso d’ammirazione pel Borghesi volle divenirne discepolo, stabilì la sua dimora in San Marino presso la casa dell’illustre suo amico e maestro, e per i di lui eccitamenti compose il libro intitolato “Essais sur Marc Aurèle d’après les monuments épigraphiques. Paris, Didot. 1860.„
- ↑ [p. 42 modifica]Di alcune monete antiche degli ultimi re di Tracia. Memorie di Religione etc. Serie Terza, Vol. IV.
- ↑ [p. 42 modifica]Observations sur les anciennes Monnaies de la Lycie par M. Cavedoni. Paris Imprimerie royale 1845. Fu tradotto in francese da Raoul Rochette, e si trova nel T. H. Serie I. delle « Mémoires présentés par divers Savants a l’Accadèmie des Inscriptions, » che fu publicato solamente nel 1852.
- ↑ [p. 42 modifica]Ricerche critiche intorno alle medaglie di Costantino Magno e de’ suoi figliuoli insignite di tipi e di simboli Cristiani. Opuscoli Religiosi Letterarj e Morali Tomo III.
- ↑ [p. 42 modifica]Osservazioni sopra le monete antiche della Cirenaica. Continuazione delle Memorie di Religione etc. Tomo XVI.
- ↑ [p. 42 modifica]Osservazioni sopra alcune antiche monete Bizantine. Opuscoli Religiosi etc. T. II. e III.
- ↑ [p. 42 modifica]Numero delle battaglie campali di Giulio Cesare espresso in tre monete di Lui. Nel « Bulletino dell’Istituto di Corrispondenza Archeologica, 1840 » e nel Conservatore di Bologna Ser. 1 Vol. 1 Dichiarazione di tre Monete di Giulio Cesare ecc. Il Cavedoni in una sua lettera al Cav. Giulio Minervini traduttore della[p. 43 modifica]Histoire de Iules César, diceva: « Vorrei che scartasse (L’Imperatore Napoleone) anche la di lui (del Mommsen) spiegazione delle note numeriche ⊥II e accettasse la mia, riferendole alle 52 battaglie campali vinte da Cesare. » Veggasi la suddetta lettera a pag. 555 delle Notizie intorno alla vita, ecc.
- ↑ [p. 43 modifica]L’opera sulle tavole del Carelli è stampata a Lipsia sotto il titolo « Francisci Carellii Numorum Italiae Veteris Tabulas CCII edidit Caelestinus Cavedonius: accesserunt Francisci Carellii Numorum quos ipse collegit descriptio; F. M. Avellini in eam adnotationes. Lipsiae MDCCCL. Sumptus fecit Gregorius Wigand. » — L’altra opera è intitolata: Numismatica Biblica o sia Dichiarazione delle monete antiche memorate nelle sante Scritture, di D. Celestino Cavedoni. — Modena, Soliani, 1850.
Le Tavole del Carelli rappresentano la più insigne collezione che nel suo genere si conosca, ed è superata soltanto dalla Collezione Santangelo, che è più ragguardevole tanto pel numero come per la rarità delle monete. Di quest’ultima favellando il Raoul-Rochette, nel Journal des Savants, Giugno 1852, dice « finora è rimasta inedita, oltre di che è di difficile accesso né è stato permesso a verun archeologo, e nemmeno a me scrittore, prendere appunti e memorie sulle medesime; quantunque da più di 20 anni abbia l’onore di essere legato in amicizia coi nobili possessori di questa inestimabile collezione.
Nel Rapporto dell’Accademia che decretava il premio al Cavedoni si diceva:
« Le texte des planches de Carelli et surtout la Numismatique Biblique, ne peuvent qu’accroître la reconaissance que tous les Numatistes ont vouée au savant de Modène. En couronnant ces deux ouvrages, l’Académie regrettera de n’avoir à sa disposition qu’une récompense disproportionnée à tant de services et à des talents aussi distingués ». Revue Numismatique 1851. - ↑ [p. 43 modifica]Journal des Savants, Ann. 1852 e 1854.
- ↑ [p. 43 modifica]Ernest Renan. Histoire des Langues Sémitiques. Livre III. Chap. IV.
- ↑ [p. 43 modifica]Veggasi quanto ne dice il Werlhof nella sua lettera stampata nelle Notizie intorno alla Vita etc.
- ↑ [p. 43 modifica]Ernesto Desjardins. Moniteur Universel de l’Empire Français, 34 Mars 1860.
- ↑ [p. 44 modifica]L’archeologo francese Enrico Coen, nella lettera che abbiamo citato più sopra, dice del Cavedoni: « On est forcé de s’incliner devant ce jugement si sûr, devant cette profonde érudition,... Je n’ai jamais été si heureux pour voir le célèbre antiquaire que nous regrettons,... mais j’ai eu l’honneur de correspondre avec lui non seulement lorsque je lui faisais parvenir les volumes de mes deux ouvrages sur la numismatique romaine, mais toutes le fois que je trouvais quelque difficulté dont je désirais avoir la solution. Ses réponses, d’une briéveté extrème, pour ne pas dire un peu sèches, renfermaient autant d’éclaircissements que de mots; et ce qui me mettait dans l’admiration, c’est que souvent il répondait à trois ou quatre de mes questions le plus disparates par retour de courier, preuve que la science de l’antiquité toute entière etait renfermée dans sa tête. »
Quanta poi fosse la stima in cui tutti i dotti tenevano le sue risposte, apparisce ampiamente dalla sua vasta corrispondenza, che ora trovasi in possesso della nostra Biblioteca, ed è distribuita in parecchi volumi. - ↑ [p. 44 modifica]Cenni sul vantaggio che dal riscontro dei Monumenti Egiziani si ritrae per lo studio della Sacra Scrittura. Continuazione delle Memorie di Religione ecc. Tom. 1.
- ↑ [p. 44 modifica]Ultimi decisivi risultamenti delle ricerche scientifiche ed Archeologiche intorno alli Zodiaci scolpiti ne’ monumenti dell’Egitto. Continuazione delle Memorie etc. Tom. XVIII.
- ↑ [p. 44 modifica]I libri Santi illustrati e difesi co’ riscontri delle medaglie antiche. Opuscoli Religiosi etc Tom. I. e II.
- ↑ [p. 44 modifica]Osservazioni sopra gli Antichi Monumenti Fenicii recentemente illustrati da Guglielmo Gesenius. Continuazione delle Memorie etc. Tom. VII.
- ↑ [p. 44 modifica]Esposizione di un argomento inosservato a conferma della somma antichità della versione Siriaca Pescito delle Sante Scritture. Opuscoli Religiosi etc. Tom. I.
- ↑ [p. 44 modifica]Notizia di codici Orientali e Greci della R. Biblioteca Estense che già furono di Alberto Pio. Memorie di Religione etc. Serie terza. Tom. XVII.
- ↑ [p. 44 modifica]Saggio Critico degli studi della letteratura Greca presso gli antichi Israeliti. Opuscoli Religiosi etc. Tom. VII.
- ↑ [p. 45 modifica]Saggio sulla latinità biblica dell’antica Vulgata Italiana. Opuscoli Religiosi etc. Tom. VII.
- ↑ [p. 45 modifica]Saggio di Osservazioni sopra gli studi biblici di Dante Alighieri. Opuscoli Relig. etc. Tom. I.
- ↑ [p. 45 modifica]L’opera è in due volumi corredati di tavole egregiamente eseguite, e s’intitola: «Description du Musée du feu le Prince Basile Kotschoubey, d’après son catalogue manuscrit, et recherches sur l’histoire et la numismatique des colonies Grecques en Russie, ainsi que des Royaumes du Pont et du Bosphore Cimmérien par B. de Kochne. St. Petersbourg 1857.» Il Cavedoni donò poi questo libro alla Biblioteca.
- ↑ [p. 45 modifica]Il Grimm nel 1843 si recò a Napoli dove conobbe il dottissimo Carlo Troya, ed ebbe agio d’intrattenersi lungamente con lui. Desiderando egli di conoscere tutta la serie delle prove colle quali credeva di poter dimostrare la medesimezza del popolo Gotico coi Geti di Erodoto, fu soddisfatto colla maggior cortesia. Ritornato poscia in Germania fece suoi tutti i ricevuti insegnamenti e li publicò in una sua memoria intitolata Ueber Jornandes und die Geten, Berlin 1846, senza punto accennare da qual fonte li avesse attinti.
- ↑ [p. 45 modifica]Il Lepsius che nella Primavera del 1856 si recò a Pisa a fine di perfezionarsi nello studio delle Antichità Egiziane, nell'anno appresso intitolava al Rosellini un dotto suo scritto intorno all'Alfabeto Geroglifico, nel quale, fra l’altre espressioni della più viva riconoscenza e stima, gli dice: « Le accoglienze più che amichevoli, che in allora voi mi faceste, la gioja profonda e sincera ohe voi mi esprimeste di trovare pur altri che con vivo amore per la scienza prendesse parte ai vostri studi, mi lasceranno per sempre una rimembranza dolcissima nello stesso tempo che gli ammaestramenti vostri preziosi e senza riserva, del pari che il perfetto e generoso disinteresse col quale poneste a mia disposizione non solo i ricchi portafogli da voi riportati d’Egitto, ma i vostri lavori manoscritti altresì, segnatamente i vasti e preziosi materiali da voi raccolti nel vostro Dizionario Geroglifico, m’imporranno il ben dolce dovere di rammentare ad ogni passo ch’io faccia in questi studi, che ne vado io debitore più a voi, di quello che a me medesimo. » Cavedoni, Biografia dal Prof. Ippolito Rosellini,[p. 46 modifica]con alcune osservazioni intorno alla consonanza de’ monumenti dell’Egitto con le Sante Scritture. Memorie di Religione ecc. Serie terza T. 1.
- ↑ [p. 46 modifica]Diamo qui l’Elenco delle onorificenze toccate a Mons. Cavedoni, prendendolo dal già citato libro di Notizie ecc. ove si trova a pag. 38 in una Nota dell’Elogio recitato dal Prof. D. Masinelli nel giorno de’ solenni funerali.
1821 R. Accademia di Scienze, Lettere ed Arti di Modena.
1835 Era Socio corrispondente della Pontificia Accademia romana d’Archeologia.
1837 Società Spagnuola di Numismatica.
1842 Socio corrispondente dell’Istituto di Francia.
1844 R. Accademia Spagnuola di Archeologia e Geografia.
1845 Socio dell’Accademia R. delle Scienze di Berlino.
» I. R. Accademia di Scienze, Lettere ed Arti di Padova.
1846 Membro corrispondente della Società Letteraria di Lione.
1849 Simpemenia Rubiconia dei Filopatridi di Savignano.
1854 Socio onorario dell’Ateneo di Scienze, Lettere ed Arti in Bassano.
„ Accademia Pontaniana di Napoli,
1855 Accademia degli Ottusi di Spoleto,
1854 R. Accademia di Scienze di Gottinga.
1855 Etrusca Accademia di Cortona.
1858 Accademia dei Quiriti di Roma,
1861 Socio Corrispondente del R. Istituto Lombardo di Scienze, Lettere ed Arti.
1862 Accademia di Torino, di cui era già Socio corrispondente nel 1834.
1842 Medaglia d’oro Austriaca.
1852 Nobiltà modenese.
1856 Cavaliere del R. Ordine dell’Aquila Estense.
1857 Cameriere secreto di S. Santità.
1860 Cavaliere dell’Ordine Civile di Savoja.
» Presidente della Deputazione di Storia Patria.
186l Cavaliere della Legion d’onore.
1862 Ufficiale dell’Ordirle de’ SS. Maurizio e Lazzaro. - ↑ [p. 46 modifica]La più ingenua modestia traspare dal modo con cui favella[p. 47 modifica]de’suoi sommi maestri e di tutti i suoi dotti corrispondenti. Lo si vede inteso con gelosa cura a far spiccare il merito delle erudite comunicazioni dai medesimi a lui fatte, al segno da attenuare il pregio delle osservazioni sue proprie. Chi ha conosciuto la schietta semplicità del suo cuore può affermare che non adoperava un linguaggio di pura formalità, quando diceva di essere « povero assai d’ingegno e di dottrina » (Biografia del Zannoni Continuazione delle Memorie di Religione etc. T. IV. 1835.) Facilmente onorava col titolo di Maestro chi gli forniva qualche nuova cognizione, e nella citata Biografia, dopo aver chiamato il Zannoni amico e maestro, soggiunge in una nota. « Mi piacque poi di chiamare mio maestro l’Ab. Zannoni, non per essere stato alla scuola di lui, ma perchè molte cose m’insegnò con le sue dotte lettere che mi scriveva ogni qual volta gli proponessi qualche quesito e dubbio archeologico e letterario, e più altre ne potei apprendere nel leggere e studiare le erudite sue opere. » Dalla stessa Biografia apparisce ancora quanto poco sull’animo del Cavedoni potesse l’amor della gloria. Egli racconta come il Micali si appropriò una felice scoperta dell’Archeologo Fiorentino, dopo che questi ebbe letta nella Società Colombaria l’illustrazione di un’Urna Etrusca, resa publica per le stampe cinque anni dopo. A tale proposito soggiunge: « Così cominciava l’Ab. Zannoni anche in mezzo alla soave cura de’ suoi studi, a sentirsene amareggiata la dolcezza, da quelle traversie che doveva poi viemaggiori incontrare in appresso; siccome accade ad ogni uomo di studio anche il più riposato; per la misera condizione delle cose di quaggiù, e per disposizione provvida di Dio Benedetto, che in ogni momento e circostanza richiama chi voglia ascoltare la paterna sua voce, perchè non ponga troppo d’affetto in contentezza o gloria caduca, ma sollevi la mente e il cuore a beni migliori ed eterni. »
- ↑ [p. 47 modifica]Riportiamo il seguente tratto di una lettera, che l’illustre Ernesto Desjardins scriveva al Cavedoni il giorno 18 Maggio 1861. « Tous les amis de la science et de la justice se réjouiront avec nous, Monseigneur, de la distinction si meritée que sa Majesté a voulu, de son propre mouvement, vous décerner (la nomina di Cavaliere della Legion d’Onore). Il est bon que vous sachiez que ce n’est point par l’entrémise, ni sur la présentation d’un[p. 48 modifica]ministre que cet honneur vous a été conféré, mais par la seule et personnelle initiative de l’Empereur, bon appréciateur des mérites éminents et du profond savoir. C’est le plus illustre numismate de l’Europe qu’il a tenu à honneur lui-même de distinguer... » Notizie intorno alla vita etc. pag. 272.
- ↑ [p. 48 modifica]Talora il Cavedoni, nel corso de’ suoi ragionamenti col Principe, deplorava la mancanza d’opere importanti e dispendiose, che la Biblioteca, per la tenuità degli assegni, non poteva acquistare. Partiva il Principe, e qualche tempo dopo si vedeva giungere per le poste l’opera desiderata, il che bastava senz’altro per farlo avvertito che un augusto donatore aveva voluto procacciargli quella sorpresa.
- ↑ [p. 48 modifica]Gravi dolori amareggiarono gli ultimi anni della sua vita, perchè anche a lui venne applicata la Legge 23 luglio 1862 relativa al cumulo degli impieghi, e dovè subire la perdita della Cattedra. Allorché fu promulgata quella legge, egli era Professore d’Ermeneutica Biblica e lingua Ebraica, Presidente della Facoltà Teologica e Bibliotecario. Per adempierne esattamente le prescrizioni, e conoscere con precisione come doveva diportarsi, spedì al Ministero col mezzo del Prefetto un ragguaglio de’ suoi incarichi ed emolumenti. Dopo del quale il Ministero gli dichiarò che a suo credere poteva conservare la Cattedra e la Biblioteca, ove avesse rinunciato alla Presidenza, per la quale fruiva il modico assegno di 600 lire annue; e quell’autorevole interpretazione della legge gli valse dapprima per conservare i due uffici di Professore e Bibiliotecario. Ma alla fine d’Ottobre dell’anno medesimo quando stava per riscuotere l’emolumento di Professore, sentì dirsi che il suo nome e titolo erano stati esclusi dai mandati riguardanti i Cattedratici della nostra Università. Posto nella necessità d’indagare i motivi di quell’inaspettata determinazione, fece conoscere di essere in piena regola coll’interpretazione data alla legge dallo stesso Ministero, e gli fu fatta ragione. Quindi fino dai primi giorni del 1863 di nuovo ei si trovava sul suo scanno di Professore Universitario, di nuovo a favor suo fu posto in corso l’emolumento. Ma la letizia d’aver ricuperato una Cattedra a lui caramente diletta, doveva essere passeggiera, come lampo di luce che guizza e scompare. Non erano per anche scorsi[p. 49 modifica]quattro mesi, quando una nuova interpretazione ben diversa dalla prima, pioveva a suo danno dalle alte sfere della Commissione Consultiva sui cumuli degli impieghi. Invitato a scegliere fra la Cattedra e la Biblioteca, dava a questa la preferenza per avere miglior agio di attendere ai suoi studj, e nel 18 Aprile cessava definitivamente dall’ufficio di Professore. Rinunciata la cattedra e privato per conseguenza dello stipendio, venne nominato Professore onorario. Tuttavia continuò nell’insegnamento finchè glielo consentirono le forze logore ed affralite. Dopo un servigio di 33 anni egli credeva d’aver diritto alla pensione di Professore, ma non potè ottenerla. Poscia gli venne intimato di restituire gli emolumenti indebitamente percepiti nei primi quattro mesi del 1863, e tra per la crudezza di quel frasario burocratico, tra perchè sapeva d’aver continuato nell’Ufficio di Cattedrante in perfetto accordo col Ministero, si credè di essere trattato con modi d’abjetto sfregio, d’ignobile vilipendio, e ne sentì sino al fondo dell’anima amarezza e cordoglio. Del resto fu per lui di gran ventura l’aver preferito l’ufficio di Bibliotecario a quello di Professore. I tempi cominciavano a volger foschi e procellosi per le Facoltà Teologiche, e prima di tante altre, quella di Modena doveva essere travolta dall’impeto della bufera. Se il Cavedoni avesse conservato la carica di Professore, a breve andare, doveva anch’egli esser gittato sul lastrico cogli altri Cattedratici condannati a durissima sorte. Infatti il Ministero della Pubblica Istruzione, pigliando pretesto da un decreto del Dittatore Farini in data 21 Ottobre 1859 sull’ordinamento dell’Istruzione pubblica nella nostra città, e torcendo in un senso tutto diverso da quello che aveva, una disposizione relativa alla Facoltà Teologica, con un suo dispaccio del Luglio 1863 la distrusse, e non solo tolse lo stipendio ai Professori della Facolta stessa invitandoli a far valere i diritti alla pensione, ma dichiarò che nel liquidarla si sarebbe tenuto conto delle somme da essi riscosse sulla Cassa dell’Erario, per tutto il periodo di tempo successivo alla promulgazione del Decreto Fariniano.
Qualche periodico Italiano ha affermato che il Governo del Regno in omaggio alla scienza dispensasse il Cavedoni dall’obbligo del giuramento imposto a tutti gl’impiegati, imitando così igloriosi[p. 50 modifica]esempi dati con altri scienzati dal primo e dal terzo Napoleone. Poichè giova serbar memoria d’ogni più lieve particolarità spettante alla vita degli uomini insigni, come diceva il nostro Muratori scrivendo al Zeno, torna opportuno rammentare per filo e per segno come procedettero le cose. Nessun decreto noto al pubblico stabilì a favor suo una deroga alla legge comune. Ei sopravisse di pochi mesi alla promulgazione od applicazione della legge, e non fu invitato a prestare giuramento, ma soggiacque alla penosa ansietà dell’incerto suo destino; non ebbe parole atte a rassicurarlo, e quelli che conoscevano la delicatezza di sua coscienza, ed erano ben molti, si sentivano turbati da dolorose apprensioni. La spada di Damocle gli stava sospesa sul capo, ed egli stesso lo diceva. Un forestiero recatosi un giorno a visitarlo nella Biblioteca, gli manifestò il compiacimento che ne provava, veggendolo tuttora al suo posto. Al quale soggiunse: «sì, io mi trovo ancora quì, ma da un momento all’altro ne posso essere balzato; perchè se mi venisse chiesto il giuramento crederei di non doverlo prestare. Chi avrebbe mai detto che negli ultimi giorni della mia vita potrei essere ridotto ad invocare l’assistenza de’ miei parenti?» Perciò convien dirlo, il Governo usò riguardi al Cavedoni, ma la prova indubitata se ne ebbe solo quando fu colpito dalla morte; in seguito s’intese poi a dire che il Prefetto avesse avuto l’ingiunzione di non pretendere da lui il giuramento.
La Deputazione di Storia Patria residente nella nostra città, nel giorno 15 Dicembre 1865, deliberò di fare scolpire in marmo il Busto del Cavedoni, affidandone la commissione all’illustre statuario Giuseppe Obici Professore a Roma, ed invitando i cittadini a contribuire colle loro offerte. Il lavoro venne eseguito, ed ora nella sala maggiore della nostra Biblioteca si veggono le sembianze del sommo archeologo fra quelle del Muratori e del Tiraboschi.