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cercato di procacciarsi dai viaggi una più ricca suppellettile di dottrina. L’Eckhel veniva a perfezionarsi al cospetto dei monumenti italici, e grandemente si giovò della dimestichezza contratta col Lanzi, col Marini, coll’Oderici e col Cocchi. E qual è fra gli Archeologi a cui la vista di Roma imperatrice delle genti, non sorrida al pensiero come il sogno più bello della vita, come la meta più sospirata d’ogni desiderio? Ei conosceva in ispirito la città del Tebro, e ne favellava col linguaggio dell’Allighieri, allorchè diceva nel suo convito: E certo io sono di ferma opinione che le pietre che dentro le sue mura stanno sieno degne di riverenza: e il suolo ove ella siede, sia degno oltre quello che per gli uomini è predicato e provato. Pure ei passava i suoi giorni entro l’angusta cerchia della città natia, amante del vivere appartato e cogitabondo, e forse la tempera di un fisico delicato, e spesso cagionevole, gli rese cara una perfetta uniformità d’abitudini, e parve che i sereni diletti dello studio l’appagassero compiutamente. A lui sarebbe stato giovevole l’osservar monumenti in maggior copia, ma, riflette il Francese Nummografo Coen, s’egli avesse visto di più, chi sa che non avesse divinato meno?
Così, con questi modi disadorni, cercai di rammentare i meriti precipui del Cavedoni, e ben lungi dal sapermi sollevare all’altezza del subbjetto, di molti non vi tenni parola. Io non vi favellai dell’Epigrafista profondo conoscitore della lingua del Lazio, degno discepolo del Morcelli e dello Schiassi, degno condiscepolo dei chiarissimi fratelli Ferrucci. Chiunque a lui si volgeva per avere un’iscrizione, era appagalo tantosto, e ne dettò in gran copia, d’argomento religioso e profano, a ricordanza di pubblici fasti e di private contingenze, in lode d’esimii personaggi e di semplici cittadini. Ei fece spiccare la sua perizia in questo ge-