Malombra/Parte quarta/VI
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CAPITOLO VI.
Sereno.
— Ecco l’agave che volevo farle vedere — disse don Innocenzo a Steinegge. — Bella, eh?
Era lì a godersi il sole, superba e triste, nel mezzo di un gran pietrone grigio, fra due brevi quinte di bosco. In alto fra il ciglio del pietrone e il cielo azzurro, magri arbusti si divincolavano ridendo nel vento trionfante che saltava sopra il valloncello, sibilava giù pel frutteto di don Innocenzo, sul tetto della canonica, si spandeva nei prati a ondate. Ciuffi di rovi penzolavano dalle fessure del sasso, lunghe e torte frange d’edera ascendevano dalle sue radici affondate nell’erba che brillava ancora di pioggia. Quel mostruoso scoglio mezzo nudo, tanto amato dall’edere, tanto paziente dei rovi, era la vita, la parola, la passione del paesaggio. Don Innocenzo aveva fatto portar lì un sedile rustico e vi passava delle ore a leggere, a pensare.
— Ci ha un che di meridionale, quell’agave, non è vero? Vede, io ci vengo spesso qui, con un libro e con i miei pensieri, respiro in quest’aria una innocenza che purifica il cuore. Ne ho bisogno perchè sono astioso, rabbioso, forse anche maligno, ambizioso; no, ambizioso no, ma avaro forse: qualche volta mi par d’essere avaro, di affannarmi troppo per certe miserie d’interessi. Senta che mi confesso a Lei. Mi assolverà, poi? Io parlo intanto, perchè mi fa bene; e Lei poi faccia quel che crede. Dunque, quando vedo campi coltivati, sento tanta gente fra Dio e me; qui non ci sento più nessuno e parlo col Signore da solo a solo, più volontieri perchè si tratta di guai tutti miei propri. Ne avrà anche Lei, già, di questi momenti. Non ha mai niente che La inquieti?
Steinegge confisse d’un colpo il bastone in terra.
— Oh, che cieco!— diss’egli.— Che stupido sono stato! Non aver capito niente! Non aver sospettato di niente! Credete ch’ell’avesse molta inclinazione per lui?
— Oh no, non moltissima, spero, ma via!— disse don Innocenzo, mortificato della poca attenzione ottenuta dal suo discorso.— Si calmi. Non mi faccia pentire di averle raccontato tutto. Ho parlato per impedire che Lei domandasse spiegazioni alla signorina Edith di quel discorso del signor Silla. La signorina non deve conoscerlo: ne avrebbe troppo dispiacere. Del resto è forse meglio così, anzi diciamo addirittura; è meglio così. Ha visto che uomo era, questo signor Silla?
— Che uomo era? No; cosa volete, lo amavo tanto! Non posso ancora giudicarlo come Voi.
Si percosse la fronte come se volesse stritolarvisi dentro tante idee penose.
— Per me!— diss’egli — per me! Io bacerei di gratitudine il posto dove ella mette i piedi e dopo le direi: — calpestami perchè io non capisco. Non sapete, signor curato, che mi è troppo aver tutto il cuore di Edith, che io ne sento rimorso, qualche volta, come di un grande egoismo, e che sarei felice di un matrimonio così; perchè poi io sono vecchio e c’è anche altre cose da pensare!
— Venga — disse don Innocenzo, commosso, pigliando Steinegge pel braccio e conducendolo al sedile rustico — fermiamoci qui, pensiamo, cerchiamo quali ragioni può aver avuto Sua figlia.
Steinegge si fermò su’ due piedi, temendo qualche rivelazione impreveduta.
— Cosa? — diss’egli.
— Venga, venga, sieda qui.
Don Innocenzo non trovava la prima parola, stringeva convulsamente una mano con l’altra, suggeva l’aria, secondo il suo solito, per le labbra serrate.
— Si sarebbe mai accorto — cominciò finalmente — di qualche preoccupazione, di qualche angustia nell’animo di Sua figlia?
Steinegge trasalì.
— Denaro?— diss’egli.
— No, no.
Uno sgomento angoscioso contrasse il viso del povero uomo mentre diceva:
— Salute?
— No, no. Senta. Potrebbe darsi che Sua figlia volesse pensare a Lei solo, occuparsi di Lei solo, vivere insomma per lei solo, fino a che Ella, amico mio, ottimo e carissimo amico mio...
Don Innocenzo gli prese, parlando, una mano.
— ...intendesse quale sia quest’angustia segreta che c’è, lo so, nel cuore della signora Edith, povera signorina.
— Lo sa! — disse Steinegge, pallido, stringendo forte la mano del prete, guardandolo a bocca aperta.
— Metta che io non sia prete — continuò il curato.— Adesso non sono prete, sono un amico. Va bene? Mi ascolterà come un buon amico?
Steinegge accennò di sì con la testa, impetuosamente, senza poter parlare.
— Bene, via, bravo. Dica, Ella ha sofferto molto, non è vero, nella vita? È stato perseguitato, calunniato, non è vero? e specialmente da persone che portano quest’abito? Sì, lo dica pure francamente. Crede che non ne conosca, io, de’ preti furfanti? Dunque Lei ne ha concepito un grande aborrimento contro tutti... No, glielo credo, contro di me no; ma è un’eccezione. Ha concepito poi anche un gran dispregio per altra cosa infinitamente superiore a questi preti miserabili, per la Parola di cui dovrebbero essere custodi e ministri. Mi lasci dire, Lei parlerà dopo. Credo benissimo che dopo la venuta della signora Edith Ella si sia molto avvicinato alla Parola; come non sarebbe? Deve averne provato, stando con Sua figlia, il calore e la luce; ma finora, tra le opere della signorina Edith e le Sue in questo argomento della religione, quale somiglianza c’è? Nessuna, non è vero? Ella non può dire di essere un cattolico e forse neanche un cristiano. Ora la signorina Edith crede e deve credere che se Lei non si sottomette di cuore e di fatto alla Chiesa, Loro non potranno poi aver parte insieme nella Risurrezione e nella Vita. Ecco il segreto doloroso. Tutto il cuore, tutti i pensieri di Sua figlia sono qui. Vuol vivere per quest’opera sola; sono certo che cerca il sacrificio di se stessa; che vi assapora una contentezza particolare, una vena nuova di speranza. Lei può andar superbo d’essere amato così. La signorina confida in Dio per toccare il suo sogno; comprende? Non vuol dirle: se mi ami fa questo. Mai! Vuole che le loro due anime vivano chiuse una nell’altra, in comunicazione continua, onde poco a poco, inavvertitamente, ogni giorno, ogni momento, la Fede possa entrare in Lei, amico mio. Forse non dovevo dirle questo.
— Oh! — esclamò Steinegge con voce soffocata, protestando.
— Forse non dovevo, no; ma adesso quando Lei ha detto — non capisco — mi si è mosso dentro qualche cosa che ha mandato sossopra la mia prudenza; ho pensato: qui bisogna parlare, bisogna fargli sapere, un sacrificio così ha da essere apprezzato, non gli parlerò come prete, ma come amico. E come prete non Le parlo; Le dico solo che io non avrei mai consigliato questo sacrificio, e che ho venerazione per Sua figlia.
Steinegge si buttò indietro il cappello sulla nuca e giunse le mani, le scosse nervosamente guardando il cielo; poi se ne coperse il viso, appoggiò i gomiti alle ginocchia.
— Avevo capito — mormorò — la prima sera... ma poi adesso... credevo che fosse contenta...
Don Innocenzo si chinò a raccogliere le parole inintelligibili.
— Cosa? — diss’egli affettuosamente.
— Credevo che fosse contenta — ripetè l’altro senza toglier le mani dal viso.— Adesso prego con lei... vado anche in chiesa... ho perdonato a tutti, credevo che bastasse.
Il curato fu per buttargli le braccia al collo e dirgli — sì, va in pace, per te, povero tribolato, per te, semplice e umile cuore, basta. Tu sei come un figliuolo mandato da suo padre nel mondo a lavorare, che, ferito, perseguitato da’ suoi compagni, torna senza aver appreso nè guadagnato nulla verso la casa paterna, batte piangendo alla porta che i servi gli han chiusa in faccia come a un indegno. Suo padre ha veduto, ha saputo tutto; ma non vuoi, santo Dio, che lo raccolga e lo consoli? — Fu per dirgli così, ma si guardò l’abito e si trattenne, mordendosi le labbra; si strinse le parole nel cuore gonfio.
Steinegge, improvvisamente, scattò in piedi.
— Andiamo da lei, amico mio — diss’egli — andiamo da lei subito. Io farò tutto; andiamo subito.
— No no no — rispose don Innocenzo. — Non accetterebbe un atto compiuto per amor suo e non per convinzione. Ci pensi, non parli alla signorina del nostro colloquio d’oggi. Poichè mi dice che prega, preghi, domandi a Dio una parola nel cuore, e se questa parola viene, allora sì, allora dica pure a Sua figlia: — sappi, ho pensato, ho pregato e credo. — Prima no. E adesso mi permetta di tornare prete, di dirle: son qua tutto per Lei; parleremo, leggeremo, discuteremo... diremo male dei preti, se vuole!
Don Innocenzo aggiunse sorridendo queste parole, perchè gli pareva di veder Steinegge incerto.
— Scusate — disse questi — scusate molto, amico mio; noi non leggeremo e non discuteremo. So che i Vostri ragionamenti mi farebbero male, perchè io ho uditi e letti nella mia vita troppi ragionamenti su queste cose della religione, benchè io non sono filosofo nè letterato. Io temerei udire da Voi argomenti uditi ancora, mi capite? argomenti che io ho inteso mettere in polvere altre volte e che mi farebbero cadere il cuore come, scusate molto la mia franchezza, se vi vedessi armato di carta pesta. Io credo che avrei migliore impressione da una critica come ho letto pochi giorni sono in un libro tedesco recentissimo, un libro di un tale Hartmann, molto empio per Voi, dove si dice che il cristianesimo finirà come ha cominciato, der reste Trost, l’ultimo conforto dei poveri e degli afflitti. Questo mi ha colpito come una gran luce sulla Vostra fede. Notate che secondo lo scrittore tutto il genere umano dovrà un giorno trovarsi afflitto dalla vanità delle cose e della vita. D’altra parte Voi non potete avere ragionamenti che prendano gli uomini come tenaglie. Voi terreste il mondo in pugno, Voi avreste il pensiero per Voi e le passioni contro di Voi. Ma è il contrario che succede; Voi avete molto più gente di passione che gente di pensiero, molto più donne che uomini, più popolo che intelligenze. No, quello che potete prendere è il cuore, credo: quando avete preso il cuore e lo tirate a Voi, bisogna bene che tutto l’uomo venga. Così sta per accadere a me perchè il mio cuore non è pieno di potere. Anche Voi, amico mio, ne avete una parte; anzi, posso dirvi una cosa? La Vostra faccia, che io amo, così buona, sopra il Vostro abito, è un molto più forte argomento per me che tutta la Vostra teologia.
Pronunciando la parola — teologia — Steinegge arricciò il naso come se fiutasse qualche putredine.
— Che spropositi! — disse don Innocenzo con le sopracciglia aggrottate e la bocca ridente.
— Non spropositi, no!
— Spropositi, spropositi. Non è vero che non abbiamo argomenti. Naturalmente una fede religiosa fondata sul mistero, non si può dimostrare con argomenti logici che stringano come tenaglie. Non si può trattar questo problema come i problemi di geometria; ma vi ha pure un procedimento che porta avanti verso il mistero, un procedimento assai più rapido e potente del Vostro gottoso procedimento logico che dopo tutto, caro Steinegge, non ha mai trovato da sè solo niente di molto grande. Vede, prendiamo pure la distinzione triviale della mente e del cuore; diciamo invece se vuole, l’intelligenza e l’amore, e ricordiamoci che non son mica due parti dello spirito. Vi è forse un pezzo di sole che scalda ed un altro che splende? Bene. Loro signori filosofi, quando cercano la verità, dicono: noi abbiamo queste due gambe, una delle quali fa passi e slanci smisurati e sarebbe anche capace di saltare qualche ampia fenditura della via. Noi non vogliamo correre questo pericolo, noi vogliamo sentirci sempre la terra sotto i piedi. Noi non la terremo in freno questa gamba sinistra, questa gamba sentimentale, non la riporteremo al bisogno indietro appoggiandoci sull’altra, no, ma ce la taglieremo via senz’altro e andremo con una gamba sola, adagino, sin dove potremo. E così fanno, caro amico; vanno a conquistar il cielo e la terra con una gamba sola, e lo chiamano positivismo. E questa gente guiderà il mondo? Male lo guiderà. Don Innocenzo si alzò in piedi, infuocato in viso, con gli occhi pieni di luce, bello.
— Io poi Le dico — proseguì più calmo — che il pensiero umano non può, non deve occuparsi di ricerche religiose senza una preparazione morale. Senza cuor puro nessuna visione delle profondità di Dio. Bisogna che lo strumento di ricerca, il pensiero, sia ben predisposto; che abbia, stia attento, tutta la sua originale potenza di tendere al bene, ai principii del bene che sono poi anche i principii del vero. Ogni passione, a cominciare dall’orgoglio, determina un movimento diverso, altera quella tendenza; e allora, dove si va? Lo vediamo dove si va. Ecco perchè l’insegnamento morale ha preceduto nella nostra religione l’insegnamento dogmatico. Ed ecco il primo grande aiuto del cuore nella indagine religiosa: ne determina la direzione dal punto di partenza. Partite con l’orgoglio, con la sensualità; andrete logicamente verso la negazione, il nulla, il male, perchè vi è una terribile strada logica che conduce là. Partite con il cuore puro e anche, dirò, con le opere pure, accordo necessario, e andrete verso il vero. Ma come? Con la logica sola? No. Con il cuore, con il sentimento solo? Ma neppure, no certo; con tutte le facoltà dell’anima, con la ragione, con la immaginazione, con l’amore. Parlo, sa, ora, dei mezzi umani di ricerca, lascio da parte la grazia. Non si tratta d’indurre nè di dedurre, ma di slanciare grandi ipotesi davanti a noi. Ci vuole fantasia per questo, calore e purezza di sentimento, ci vuole sopratutto la facoltà più sublime dell’anima nostra, che non so come venga spiegata dai razionalisti, la facoltà d’intravvedere per subitanei chiarori interni...
— Io non ho questa cosa — disse Steinegge.
— D’intravvedere idee superiori alla potenza ordinaria della mente in cui sorgono, sorprendenti per lei stessa. Allora comincia intorno a questa ipotesi il paziente lavoro logico della ragione per veder se combaciano con le verità note e tra loro, per modificarle, abbandonarle ove occorra. Certo neppur con questo procedimento si spiegano i misteri, ma si ottiene però qualche volta il risultato mirabile d’indicarli dove la Rivelazione ci dice che realmente sono, presso a poco come quel pianeta indicato da un astronomo là dove poi fu visto. E allora sopravviene la fede, se non è giunta prima. So cosa rispondono i suoi razionalisti.
— Ooh! — disse Steinegge come per iscusarsi.
Un veemente soffio calò stridendo sui rovi del sasso, mise nel bosco una follìa frenetica, uno strepito che impediva di udire le parole. Don Innocenzo sempre acceso in viso, non potendo parlare, scoteva l’indice teso verso Steinegge, intendendo di dire che la risposta dei razionalisti non valeva nulla; poi alzò la testa, quasi a guardar in faccia quel diavolo di vento saltato senza riguardo in mezzo alla discussione per soffocarvi le buone ragioni, come un gran chiasso e un voto di volgo sovrano. Appena potè, proseguì a parlare.
— I razionalisti rispondono che questo modo di argomentare può essere buono per chi lo adopera, ma non prova nulla, non può servire, a stabilire la verità. Stoltezza. Per essi non può servire, che sono induriti nel loro gretto sistema impotente; per altri sì. Noi parleremo e leggeremo, caro amico. Io spero di arrivare a persuaderla, con l’aiuto di Dio, che vi è una bellezza nella verità in cui si commuove e si appaga non il cuore solo, ma tutta l’anima umana; una bellezza che noi possiamo vedere solamente in ombra e per immagine, ma con qual divino piacere! Vedere sia pure in confuso, gli occulti accordi, le convergenze fra il creato e l’increato, per esempio fra i misteri più eccelsi della Divinità e i misteri più reconditi delle anime! Meditiamo e contempliamo insieme, sì. E adesso basta; non Le dico altro.
— Caro amico — rispose Steinegge — sospirando — può essere che Voi parlate molto bene, ma Voi non conoscete me. Questo che mi proponete sarebbe assai buono per un giovane, il quale sente bisogno di muovere il suo pensiero, ha una grande curiosità di mente e si compiace più di aver fatto da sè una piccola scoperta con travaglio, che di aver comodamente preso molto sapere preparato sul suo tavolo. Oh, io ho conosciuto e un poco sono stato anch’io così una volta. Adesso io sono un vecchio stanco; io ho la testa piena di opinioni contro di Voi, che forse non sono giuste perchè gli uomini e i libri dai quali le ho prese non valevano forse molto, ma che non potrei mandar fuori con ragionamenti perchè non ho la forza. Io devo dire il vero, che alcune sono già partite da quando mia figlia è con me; io non so come sono partite; per ragionamenti non certo. Potrò dividermi amichevolmente anche dalle altre, potrò dir loro: tacete, perchè mia figlia vuole; tacete in quest’altro, perchè non vi posso scacciare, ma sono risoluto a non ascoltarvi. Forse allora col tempo, partiranno anche sole. Permettete, amico mio; io credo che avrò molta maggiore compiacenza facendo così, che se Voi mi persuadeste con dimostrazioni. Cosa posso io dare a Edith se non do questo? Cosa posso io lasciare a mia figlia quando muoio, se non le lascio una memoria interamente dolce, interamente cara? Guardate, non mi è mai passato per la mente, quando vedeva Edith andare a confessarsi, che sarei diviso da Lei nell’altra vita, perchè non andava anch’io a inginocchiarmi davanti a un prete; è quello che più mi ripugna, ma se Edith lo desidera...! Oh, ma come, come mi ha nascosto questo!
Alzò le mani giunte al cielo, le scosse nervosamente.
— La prima sera, sì, m’era venuto in mente e anche il mattino dopo, quando l’ho accompagnata a Messa, qui nella Vostra chiesa: ma poi ella era sempre così affettuosa, così tenera con me! Mi parlava spesso di religione, ma solo raccontando i suoi pensieri, i suoi sentimenti, come se questa cosa riguardasse lei e non me. Io ascoltava con gran piacere, come Voi che siete italiano e volete restare italiano ascoltereste mia figlia se vi parlasse del nostro mondo tedesco, della nostra poesia e della nostra musica. Quando ho cominciato a venire in chiesa, a pregare con lei, godeva sì, ma pareva quasi temere che io mi tediassi, che io facessi per compiacere a lei. Solo di una cosa mi pregava con compassione: ch’io perdonassi.
— E ha perdonato? — disse don Innocenzo.
— Io ho fatto i più grandi sforzi — rispose Steinegge commovendosi. — Io ho, non perdonato, dimenticato quelli che hanno fatto del male a me; e anche per gli altri... — La voce gli morì in gola soffocata. — Ho fatto quel che ho potuto — diss’egli.
Don Innocenzo, pure commosso, tacque. Forse la coscienza lo accusava di ricordare con soverchio sdegno, egli prete, certe offese troppo men gravi di quelle patite dal povero Steinegge, cristiano senza saperlo, più cristiano di lui.
Il vento parlava per le macchie, per i capi frondosi degli alberi: lo si vedeva correre sul velluto dell’erba, cangiarne il verde.
— Bel tempo! — disse Steinegge, lottando ancora con l’emozione.
— Bello — rispose il curato.
Steinegge stette un po’ silenzioso, poi abbracciò appassionatamente don Innocenzo, lo baciò sulla spalla, gli disse con voce inintelliggibile:
— Andiamo da Edith.
— Bene, ma non gliene parli per adesso, aspetti e poi mostri che la Sua risoluzione è spontanea.
Steinegge, per tutta risposta, prese il braccio del suo interlocutore, glielo strinse forte e si pose in cammino.
Fatti pochi passi, udirono Marta che gridava in su dall’orto della canonica. — Oh, signor curato! Oh, signor curato! — C’era della gente nell’orto, uomini e donne. Don Innocenzo sorpreso, affrettò il passo.
V’erano la Giunta, il presidente della Congregazione di Carità e il capitano della guardia nazionale venuti per parlare al curato delle esequie del conte che dovevano seguire l’indomani mattina. Era corsa voce di grossi legati ai poveri del paese. Il capitano, un ex garibaldino barbuto, aveva prese informazioni dirette al Palazzo. C’erano infatti 70.000 lire per un asilo d’infanzia e 30.000 lire per tre doti annue alle ragazze povere del paese. Il capitano aveva subito fatto il suo programma di onoranze funebri al generoso testatore e intontitone il sindaco e il presidente della Congregazione di Carità, chiamandoli con amichevole compatimento «gran villanacci p..."» perchè essi imbarazzati e non avendo la menoma idea di «quel che si fa adesso» come diceva lui, esitavano, si guardavano in faccia, brontolavano che non erano pratici che la era «pazzia» buttar via dei denari per un morto che finalmente, diceva il sindaco, al Comune, propriamente al Comune, non aveva lasciato nulla. Per movere quei due fossili il capitano avea dato fuoco all’opinione pubblica, li avea portati con un gruppo di amici suoi dal curato, a domandarne l’autorevole parere. Costoro attorniavano don Innocenzo, parlandogli tutti in una volta, gridandosi l’un l’altro di tacere, discutendo un guazzabuglio di progetti e di emendamenti. Guardia nazionale, piccola tenuta, alta tenuta, una salva, tre salve, musica del tal paese, musica del tal altro, discorso in chiesa, discorso al cimitero. Don Innocenzo ottenne a stento che si chetassero e lo seguissero in casa. Allora si fecero avanti cinque o sei ragazze, le più briose civettuole del paese, che avevano prima assalita Marta e ora affrontarono il signor curato, rosse, rosse, con gli occhi ancor lucidi di riso. Venivano a nome delle ragazze del paese, a domandar fiori da farne ghirlande pel feretro del loro benefattore. Marta aveva dato loro un rabbuffo, aveva detto ch’erano «sfacciatone» di venir lì dal curato a portar via fiori, magari per metterseli in testa o per donarli a quel mucchio di amorosi che avean sempre alle sottane. Una delle ragazze le aveva risposto per le rime tra le risate della compagnia. Il curato non badò alle occhiatacce nè ai borbottamenti di Marta, abbandonò senza difesa i suoi poveri fiori.
Steinegge era impaziente di vedere Edith, non per parlarle, ma per leggere attraverso quel viso, per assaporare meglio la compiacenza segreta di aver in cuore una buona, insperata notizia da confidarle alla prima occasione; presto, senza dubbio. Ella non era nell’orto. Steinegge si congedò con profonde scappellate dalle autorità e corse su nella camera di sua figlia.
Non era neppur lì. C’erano però sul letto il suo cappellino, i guanti e un piccolo album. Steinegge l’aperse, vide uno schizzo preso dalla riva del lago, sotto i pioppi. Riconobbe subito i denti pittoreschi dell’Alpe dei Fiori, quelle stesse cime che otto mesi prima, coperte di nuvoloni minacciosi, avevan fatto dire a Edith: andiamo nella tragedia. La disegnatrice avea scritto in un angolo «Am Aarensee». A Steinegge venne subito in mente la canzone malinconica:
Ach tief im Herzen da sitzt ihr Weh, |
Il paesaggio morto, freddo, a luci di neve e ombre di piombo, ricordava più lo spirito afflitto che il bosco verde. Steinegge si accorò, sentì confusamente che il male doveva essere più profondo di quanto gli avesse detto don Innocenzo. Dov’era dunque Edith? Perchè non poteva egli porgerle subito almeno una consolazione, almeno il premio del sacrificio ch’ella aveva compiuto? Il chiasso che si faceva in salotto e nell’orto, le voci rozze dei contadini, le risa spensierate delle ragazze lo irritavano. Se Edith udisse tutto quello strepito, come si sentirebbe amaramente sola! Gli parve di udir camminare nell’orto, e andò alla finestra. Era Edith, uscita dal salotto dove stava apparecchiando la tavola prima che entrasse il curato con le autorità. Steinegge la rimproverò amorosamente di stare al sole senza ombrellino, volle portarglielo malgrado le sue proteste; ma sceso nell’orto, non la vide più. La cercò in casa, non v’era; finalmente la scoperse presso il cancello dell’orto che parlava con le ragazze affaccendate a spogliare i rosai. Non la chiamò ne le portò l’ombrellino, temendo riuscire inopportuno, figurandosi che non amasse ora trovarsi con lui.
Si ritirò dietro l’angolo della casa per non farsi nemmeno vedere da sua figlia. Gli parve, guardando l’orizzonte lontano, che sarebbe andato via per sempre, avrebbe rinunciato a Edith pur di tornare indietro a quel momento in cui Silla avea portato il suo libro. Sì, sì, come ricordava adesso le proteste appassionate di lei! E dire che tanto male, tanto dolore veniva dalla cecità sua, dal non aver egli mai capito l’angustia segreta di sua figlia!
Intanto nel salotto si giunse a un accordo. Le voci si chetarono, si abbassarono, il curato e gli altri uscirono nell’orto discorrendo tranquillamente.
— Niente di meglio — diceva don Innocenzo, soddisfatto, guardando Steinegge.
— Ma! — rispose il capitano — a me l’ha proprio detto il signor commendatore Vezza. Io non gli domandavo niente; mi disse lui che stasera il signor Silla va via e che non bisogna credere a tutte le chiacchiere.
— Oh! — esclamò Steinegge con due occhi scintillanti di lieta sorpresa.— Perdonate se io entro nei vostri discorsi. Come vi ha detto veramente il signor Vezza?
Il capitano ripetè quanto aveva detto prima, soggiunse poi quel che sapeva dello stato di Marina. Seguirono i commenti degli uditori, ciascuno dei quali aveva un’ipotesi diversa.
Edith avea messo un po’ di soggezione alle ragazze turbolente. Le raccontarono che il signor capitano aveva suggerito di far venire la ghirlanda da Como o da Milano, ma che loro avean voluto fiori del paese. L’armatura della ghirlanda si stava già preparando; quanto a’ fiori, non avevano ancora pensato come li disporrebbero. Edith consigliò un intreccio di frondi d’ulivo e di rose bianche con una croce di viole. Volle coglier le rose ella stessa perchè le povere piante non fossero straziate e i bottoni sciupati senza necessità. Udiva gli altri parlare, e, immaginando che parlassero del Palazzo, si pungeva le mani senza avvedersene, tagliava gli steli o troppo lunghi o troppo corti. Era tanto pallida che le ragazze credettero si sentisse male e la pregarono di smettere. Ella confessò d’avere un po’ di mal di capo, ma non volle smettere temendo esser chiamata da suo padre, avere a restar sola con lui e non sapergli nascondere il suo turbamento. Sopraggiunsero gli uomini, la salutarono, si fermarono a guardare i fiori, a chiacchierare con le ragazze della loro fortuna, dei tanti matrimoni che si farebbero quind’innanzi in paese. Steinegge era rimasto indietro. Edith lo vide. Egli pareva impaziente che il crocchio si sciogliesse. Camminava in su e in giù, dava un’occhiata ogni tanto alla gente che aveva preso radice, fra i rosai. Anche Marta venne a guardar dall’angolo della casa, facendosi schermo agli occhi con la sinistra. Ella disse poi qualche cosa a Steinegge, il quale accennò a Edith di venire, e le andò incontro porgendole l’ombrellino aperto. La rimproverò di volersi pigliare per forza un mal di capo e le disse scherzosamente ch’era in collera con lei perchè quella mattina lo aveva abbandonato ed era corsa via come una farfallina capricciosa. Dove mai avea svolazzato la signorina? Già si saran fatte delle imprudenze, si sarà andati in qualche luogo pericoloso, vicino a qualche acqua infida, piena di malinconie, per raccogliervi canzonette gittate via mesi addietro.
— Oh, papà — disse Edith — non va bene, prima di tutto, andar a guardare nel mio album, e poi non va bene far certe supposizioni. Le ho lasciate dove sono, io, le malinconie; nel lago, nell’Aarensee. E della canzonetta, lì sulla riva, non ho trovato che il titolo. Quello non fa male. E poi non ti ricordi come abbiamo riso l’anno scorso? Lo finirò quello schizzo e ci metterò Lei, signore, che corre poco rispettosamente dietro sua figlia, con l’ombrello sotto il braccio. Vorrei poterci mettere anche quelle risate.
— Ne metteremo delle altre — disse Steinegge.— Vedi questo sole, questo verde, questo vento se non è tutta una grande risata! Pensa se noi fossimo a Milano! È giovinezza che si beve qui. Non vogliamo camminare, oggi? Sei stanca?
— No, papà; ma dove vuoi andare?
— Così, a passeggio. Signora Marta! Signora Marta! Posso io domandare quando si pranza?
— Alle tre — gridò Marta dalla cucina.
— Allora possiamo andare, per esempio, fino alla cartiera.
— Bravi, bravi! Vengo anch’io — disse don Innocenzo, che aveva congedato allora allora tutta la brigata. — Devo parlare all’ingegnere direttore dei lavori.
Edith salì alla sua camera per il cappellino e i guanti. Quando ridiscese, suo padre ed il curato, che parlavano insieme, s’interruppero. Ella vide loro in viso una contentezza nuova, si fermò, interrogandoli con lo sguardo.
— Andiamo! Presto! — disse Steinegge, e dimentico questa volta delle solite cerimonie, s’incamminò per il primo.
Don Innocenzo colse il destro di sussurrare a Edith: — Non c’è più niente tra quei due; egli parte stasera.
— Edith aperse la bocca per domandare qualche cosa, ma suo padre si voltò a chiamarla e anche Marta gridava dalla cucina:— Facciano presto che non hanno mica tanto tempo!
Edith non ebbe più modo di domandare spiegazioni. Solo all’uscir dal cancello il curato le gittò nell’orecchio altre due parole. — Forse il Suo biglietto! — Il mio?... — rispose Edith. Don Innocenzo fe’ cenno di sì e andò a prendere il braccio di Steinegge.
Edith, trasalì. Il curato non le aveva detto che il suo biglietto era stato consegnato. Come mai, dopo quei fatti? Anche questa partenza di Silla era ella una fortuna così grande? Non veniva dopo mali irreparabili? Sì, ma però era un bene, senza dubbio. Pazienza, pensava, se il suo biglietto aveva fatto del bene, pazienza essersi posta, senza saperlo, fra così turpi intrighi, aver parlato meglio che amichevolmente a chi se n’era reso indegno. Vi si rassegnava, ringraziava Dio, che si fosse servito di lei per un atto di misericordia. Ma sentiva in pari tempo che il sacrificio proprio sarebbe diventato in avvenire più difficile e tormentoso, che quest’uomo avrebbe tentato riavvicinarsi a lei, discolparsi de’ suoi errori. E allora? Allora la lotta sarebbe ricominciata nell’animo suo, quanto fiera! Perchè se a Milano aveva sperato esser tocca nella immaginazione soltanto e s’era studiata di convincersene con un attento e forse imprudente esame di sè stessa, adesso non s’illudeva più; era il cuore che mandava sangue.
— Edith! — chiamò suo padre perch’ella era rimasta qualche passo addietro.
Ella alzò gli occhi, lo vide a braccio del curato, un lampo di speranza le attraversò l’anima. Balzò a fianco di suo padre.
— Eccomi — disse.
Entravano allora nella strada nuova che spiccandosi dal villaggio recideva i prati sino al fiume; una brutta cicatrice a vederla dall’alto, come di qualche gran fendente calato sul verde; bianca, dritta, fra due righe di pioppi nani, sottili. Piacevole passeggio, però. Era voluttuoso mettersi per quell’ampio mar verde, morbido, magnifico nel suo disordine di fiori, potente nell’odor di vita che ne saliva, nelle ondate d’erba che slanciava da destra e da manca ad assalir l’argine della strada, ad ascenderlo per ricongiungere un giorno sopra di esso la sua pompa, i suoi amori eterni. I piccoli pioppi si movevano al vento; qualche grossa nube bianca vagava nel cielo, e l’ombre ne correano sui prati, sulla celeste lama scintillante del lago, la tingeano di viola.
— È magnifico tutto questo verde — disse Steinegge guardandosi in giro, — pare di essere in fondo a una tazza di Reno.
— Vuota — osservò don Innocenzo.
— Oh, questa è un’idea triste, non affatto necessaria. Vi è pure in questa tazza, che voi dite vuota, una fragranza, uno spirito che exhilarat cor, che rischiara il cervello, non è vero? Io mi meraviglio di voi: io sono molto spiritualista adesso, amico mio, sono capace di trovare che l’acqua del fiume dove andiamo, bevuta lì sulla riva sotto quei grandi pioppi, contiene sole, ha un sapore di primavera ilare che inebbria meglio del Johannisberg.
— Si voltino — disse don Innocenzo— guardino la mia casetta come sta bene.
Stava bene infatti la piccola casetta, al di sopra delle altre e in disparte, bianca sotto il suo tetto inclinato.
— Pare che ci guardi anche lei — osservò Edith — e ci sorrida come una buona nonnina che non si può muovere.
— Oh — esclamò Steinegge — io sarei felice di viver qui.
— E io, papa? Pare di sentirsi voler bene da tutto, qui. A Lei, signor curato, ci trovi un nido.
— C’è il mio — diss’egli. — Bravi, vengano a stare col vecchio prete. Perchè no? Non sarebbe una bella cosa? Non starebbero bene in casa mia? Mi par che Marta s’ingegni abbastanza, non è vero?
Edith sorrideva, suo padre si confondeva in esclamazioni e proteste di gratitudine.
— No, no — disse Edith. — Prima, è una cosa impossibile per noi lasciar Milano, e poi così non andrebbe. Ci vorrebbe un’altra casettina.
— Veramente? Lei starebbe qui, per sempre, in questa solitudine?
Edith rispose con gli occhi gravi, meravigliati. Don Innocenzo ammutolì.
— Non sarebbe il solo tesoro sepolto in questo paese — disse Steinegge volgendosi al curato con un gesto ossequioso.
Don Innocenzo si schermì, arrossendo e ridendo, dell’incensata.
— Anche Lei ci sarebbe, non è vero? — diss’egli.
— Oh no, io sarei qui un tegame preistorico. Io vi starei molto bene, ma mia figlia non deve, oh no!
— Perchè mai, papà?
Egli rispose impetuosamente in tedesco, come faceva sempre nel bollore dell’affetto o dello sdegno. Si voltò quindi a don Innocenzo senz’aspettare la replica di Edith.
— Non è vero — diss’egli — che questo paese non è per una giovane signorina, a meno che non fosse una Nixe?
— Una Nixe? Chi sa? — disse Edith. — Amo le acque limpide, i prati, i boschi...
— Oh sì, ma io non credo che le Nixen amino anche dei brutti vecchi gialli come me e vadano a spasso col signor curato. Sai cosa vedo io adesso nella mia fantasia?
Il bizzarro uomo si fermò, allargando le braccia e chiudendo gli occhi.
— Vedo il molto onorevole signor Andreas Gotthold Steinegge che ha i capelli un poco più bianchi di adesso e sta in casa del suo carissimo amico qui vicino, il quale non ha affatto più capelli. Io vedo questo signore tedesco che tiene un giornale in mano e sta fortemente discutendo sulla questione dello Schleswig-Holstein con il suo amico il quale gli fa portare... un dito, un solo di Valtellina per mandar giù il duca di Augustemburg. Eh? Non è questo?
Aperse gli occhi un momento per guardar don Innocenzo che rideva e tornò a chiuderli.
— E adesso vedo... Oh, cosa vedo? Una giovane Nixe vestita da viaggio che entra in salotto come una stella cadente, abbraccia il vecchio gufo tedesco e dice che è venuta a passare due giorni fra le acque limpide, i prati, i boschi. "Sola?" dice il gufo. Allora questa Nixe fa un piccolo gesto con un piccolo dito che io conosco...
Steinegge aperse gli occhi, prese la mano di Edith per baciarla; ma Edith la ritrasse in fretta ed egli, lasciatala, fece quattro gran passi avanti ridendo, e si voltò a guardarla.
— Non è una bella visione? — diss’egli.
Edith tardò un momento a rispondere. Non sapeva che pensare. C’era in quel discorso di suo padre una occulta intenzione, un proposito deliberato?
— Dunque sei stanco di me? — diss’ella. — Vuoi viver solo?
— Come solo? — esclamò don Innocenzo. — Non sente che vivrebbe con me?
— Io sono stanco, molto stanco di te— rispose Steinegge — ma non vorrei vivere solo. Verrei a riposarmi della tua compagnia, qui con il signor curato, per qualche mese dell’anno. Vedi, io non scherzo più adesso, io avrei bisogno di stare molto, molto tempo qui con il signor curato.
Edith guardò quest’ultimo. Era egli entrato nel grande argomento? Si avviavan bene le cose? Il curato guardava con attenzione un baroccio che veniva dalla cartiera, faticosamente, sulla strada male assodata.
— Noi vogliamo cercare una pietra filosofale, — continuò Steinegge, — una pietra che cangi in oro tutto quello che è brutto, scuro fuori di noi, e molto più scuro dentro di noi.
— E la si trova qui, questa pietra preziosa?— disse Edith, palpitando.
— Io non so, io spero.
— E perchè non la cercherei anch’io con voi?
— Perchè non ne hai bisogno, perchè non vogliamo.
— Ma cosa ne farai di me, papà?
— Oh, non si sa ancora...
A questo punto sopraggiunse il baroccio e divise Edith da’ suoi due compagni. Don Innocenzo si accostò rapidamente a Steinegge e gli disse all’orecchio:
— Non vada troppo avanti.
— Non posso — rispose l’altro.
Il baroccio passò.
Eran giunti presso al fiume dove la strada faceva un gomito, scendeva per la sponda destra, lungo i grandi pioppi, fino alla cartiera.
— Lei va — disse Steinegge al curato. — Noi lo aspetteremo qui.
Scese con sua figlia dal ciglio della strada sul pendìo erboso, sino all’ombra d’un macigno enorme ch’entrava dritto nel fiume. Erano un delizioso poema le acque verdi e pure, un poema popolare antico, di quelli che l’ingenuo cuore umano, troppo pieno di amore e di fantasie, versava. Passavano tra i margini sassosi o fioriti, saltando, ridendo, cantando, serene sino al fondo scabro. Blandivan l’erbe, mordevano i sassi; anche dal filo della corrente venivan su tratto tratto de’ fremiti appassionati, si spandevano in leggere spume. A tante voci rispondeva dall’alto il gaio stormire de’ pioppi appuntati al cielo di zaffiro.
— Ah — disse Steinegge.
So viel der Mai auch Blümlein beut
Zu Trost und Augenweide...
Edith lo interruppe:
— Perchè, papà, mi hai detto quella cosa?
— Quale?
— Che vorresti un giorno esser diviso da me.
— Oh no, non diviso. Solamente io verrei a passare qualche tempo qui. Mai diviso. In niente diviso. Capisci? In niente.
Disse quest’ultime parole sottovoce, prendendole ambedue le mani.
— Sì, io penso ora per la prima volta che non dobbiamo più esser divisi in qualche cosa qui dentro.
Si strinse quelle mani sul cuore.
Le labbra, le nari di Edith si contrassero; le si strinse la gola. Egli la trasse giù senza parlare a sedere sull’erba, sedette accanto a lei.
— Io non posso — diss’egli, quasi parlando a se stesso. — Ho il petto pieno di questa cosa. È vero, Edith, noi non siamo stati bene uniti mai. Ti ricordi la sera che sei venuta, quando io entrai in camera e tu pregavi alla finestra? Che angoscia fu per me allora! Io pensai che non mi avresti amato perchè non credevo come te. E il giorno dopo, mentre tu eri a Messa, ti ricordi che io sono uscito? Sai cosa ho fatto durante la messa?
Egli parlava come uno che non sa se deve ridere o piangere.
— Ho parlato a Dio, l’ho pregato di non mettersi fra te e me, di non togliermi il tuo amore.
Edith gli strinse convulsamente la mano, serrando le labbra, sorridendogli con gli occhi umidi.
— E tu sei poi sempre stata così tenera, così buona con me che mi hai fatto il paradiso intorno e io ho inteso che Dio mi aveva ascoltato. Questo mi ha commosso perchè sapevo di non meritar niente. Oh no, credi. Mi ha commosso, dunque, di vedere che Dio ti permetteva di essere tanto amorosa con me. Ero felice, ma non sempre. Quando noi andavamo in chiesa insieme, io pregavo, ringraziavo Dio, vicino a te; ma pure vi era qualche cosa nel mio cuore, qualche cosa di freddo e di penoso, come se io fossi fuori della porta e tu avanti a tutti, presso l’altare. Insomma mi pareva esser tanto lontano da te. Mi odiavo in quel momento ed ero così stupido di amar meno anche te. Quando poi...
Esitò un istante, quindi accostò la bocca all’orecchio di Edith, le sussurrò parole cui ella non rispose e ripigliò forte:
— Quanto soffrivo! Una cosa che mi ripugnava tanto! Forse per le memorie irritanti ch’erano nel mio cuore, forse perchè ero geloso di quell’uomo nascosto a cui tu confidavi i tuoi pensieri. Non solo, geloso; pauroso anche. Sentivo che anche restando invisibile, sconosciuto, poteva ferirmi, togliermi un poco della tua stima, del tuo amore. Sai che qualche notte non ho dormito per questo? Dopo ti vedevo sempre uguale con me, dimenticavo, tornavo ilare. Ieri, trovandomi ancora con don Innocenzo, stando nella sua chiesa, ho sentito quanto lunga strada avevo fatto in pochi mesi, quasi senza saperlo. Ho avuto l’impressione, come di essere sulla porta aperta di un paese sospirato e non poter entrare. Adesso... senti. Edith, figlia mia.
Ella, silenziosa, piegò il viso verso di lui, stringendogli sempre una mano fra le sue.
— Sono entrato — diss’egli, a voce bassa e vibrata. Edith abbassò la testa su quella mano, vi fisse le labbra.
— Sono entrato. Non domandarmi come. So che il mondo mi pare inesprimibilmente diverso da quello di prima, ora che ho nell’anima il proposito di abbandonarmi interamente alla tua fede. Come si può dir questo, che io riposo sopra tutto quello che io vedo? Eppure è così; io non ho mai provato una sensazione di riposo simile a questa che mi viene per gli occhi nel cuore. Tu riderai se io ti dico che sento un grande amore per qualche cosa che è nella natura intorno a me. Cosa ne dici, Edith, di tutto questo?
Ella alzò il viso bagnato di lagrime.
— Mi domandi, papà? Mi domandi?— Non potè dir altro. Il suo sacrificio era stato accettato da Dio, ricompensato subito. L’anima sua traboccava di questa fede mista allo sgomento, allo sdegno di non sentirsi felice.
— Contenta? — disse Steinegge. Scese a intingere il fazzoletto nell’acqua e lo porse a Edith che sorrise, se ne deterse gli occhi.
— Sai — diss’egli — sono contento per un’altra cosa, anche.
Ella non parlò.
— So del nostro amico Silla che va via dal Palazzo. Pare che non ci è stato affatto il male che si credeva.
— Papà — disse Edith alzandosi — lo sa don Innocenzo quello che mi hai detto prima?
— Un poco, solo un poco.
Ella guardò un momento il grosso macigno a cui era quasi appoggiata e si rizzò sulla punta de’ piedi per cogliere un fiorellino che usciva da un crepaccio. Lo chiuse nel medaglione d’onice e disse quindi a suo padre:
— Un ricordo di questo luogo e di questo momento. Dimmelo ancora — soggiunse teneramente — dimmi che sei felice e che questi pensieri sono proprio nati nel tuo cuore. Tornamelo a dire, papà.
— Guarda dove sono! — disse una voce dalla strada. Edith non la udì, si ripose a sedere sull’erba presso a suo padre, che riconobbe la voce di don Innocenzo, ed esclamò volgendosi a lui raggiante:
— Così presto?
Don Innocenzo vide, comprese, non rispose.
— Signor curato — disse Edith risalita con suo padre sulla strada.— Ella ritrova un’altra Edith.
Don Innocenzo si provò a far l’ingenuo, ma ci riusciva solo quando non lo faceva apposta.
— Possibile? — disse, con tale accento di meraviglia da far credere che prendesse alla lettera queste parole: un’altra.
Ma poi non vi ebbero più domande nè spiegazioni. Edith camminava a braccio di suo padre, appoggiandogli quasi il capo alla spalla. Don Innocenzo teneva lor dietro soffiando perchè il capitano aveva preso un passo di carica. Attraversarono così i prati senza parlare. Don Innocenzo non ne poteva più; si fermò trafelato.
— Bella — diss’egli — quella striscia di lago, non è vero?
Forse non la vedeva neppure. Gli Steinegge si fermarono.
— Povero conte Cesare — disse il padre dopo un momento di contemplazione. — A proposito, signor curato, avete inteso anche voi che il signor Silla parte questa sera dal Palazzo?
Edith si staccò da lui, si girò a guardar i prati da un’altra parte.
Oh, furia amorosa di fiori protesi al sole onnipotente, erbe tripudianti, ubbriache di vento, qual ristoro esser voi, viver la vostra vita d’un giorno, sentirsi tacere la memoria, il cuore, quel tumulto faticoso di pensieri assidui a lottar insieme, a fare e disfare l’avvenire; non essere che polvere e sole, non aver nel sangue che primavera!
— Andiamo Edith — disse Steinegge. Quella cara voce la scosse, la tolse al pensiero non degno.
Salendo alla canonica, Edith precedeva d’un passo a capo chino, il curato e suo padre, vedeva le loro due ombre spuntarle a fianco sulla via. Steinegge incominciò ancora a parlare del Palazzo, ed ella vide l’ombra del curato accennar con la testa; dopo di che Steinegge lasciò cadere il discorso.
Quando rientrarono in casa, Marta li avvertì che il pranzo sarebbe pronto fra pochi minuti. Edith si fece dare da lei la chiave della chiesa, corse via, sorridendo a suo padre.
Tutto era vivo per la campagna, tutto si moveva e parlava nel vento; tutto era morte nella vôta chiesa fredda, tranne la lampada dell’altar maggiore. Una luce debole si spandeva dagli alti finestroni laterali sugli angeli e i santi vinosi del soffitto, estatici nelle loro nuvole di bambagia. Edith si inginocchiò sul primo banco, ringraziò Dio, gli offerse tutto il suo cuore, tutto, tutto, tutto; e più ripeteva il suo slancio di volontà devota, più la fredda chiesa muta e persino la fiamma austera della lampada le dicevano: no, non lo puoi, non è tuo; tu speri che quegli ti ami ancora e torni degno di te, sino a che tu possa appoggiarti per sempre al suo petto virile, affrontare con esso e attraversar la vita. Ma ella non voleva che fosse così, e pareva ritogliere quello che aveva liberamente offerto, e si sentiva invadere il cuore da un arido disgusto di se stessa.
Marta venne a chiamarla.
— Signora! Oh signora! Presto ch’è in tavola! Oramai il Signore lo sa cosa ci vuole per Lei.
Edith sorrise.