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salutarono, si fermarono a guardare i fiori, a chiacchierare con le ragazze della loro fortuna, dei tanti matrimoni che si farebbero quind’innanzi in paese. Steinegge era rimasto indietro. Edith lo vide. Egli pareva impaziente che il crocchio si sciogliesse. Camminava in su e in giù, dava un’occhiata ogni tanto alla gente che aveva preso radice, fra i rosai. Anche Marta venne a guardar dall’angolo della casa, facendosi schermo agli occhi con la sinistra. Ella disse poi qualche cosa a Steinegge, il quale accennò a Edith di venire, e le andò incontro porgendole l’ombrellino aperto. La rimproverò di volersi pigliare per forza un mal di capo e le disse scherzosamente ch’era in collera con lei perchè quella mattina lo aveva abbandonato ed era corsa via come una farfallina capricciosa. Dove mai avea svolazzato la signorina? Già si saran fatte delle imprudenze, si sarà andati in qualche luogo pericoloso, vicino a qualche acqua infida, piena di malinconie, per raccogliervi canzonette gittate via mesi addietro.

— Oh, papà — disse Edith — non va bene, prima di tutto, andar a guardare nel mio album, e poi non va bene far certe supposizioni. Le ho lasciate dove sono, io, le malinconie; nel lago, nell’Aarensee. E della canzonetta, lì sulla riva, non ho trovato che il titolo. Quello non fa male. E poi non ti ricordi come abbiamo riso l’anno scorso? Lo finirò quello schizzo e ci metterò Lei, signore, che corre poco rispettosamente dietro sua figlia, con l’ombrello sotto il braccio. Vorrei poterci mettere anche quelle risate.

— Ne metteremo delle altre — disse Steinegge.— Vedi questo sole, questo verde, questo vento se non è tutta una grande risata! Pensa se noi fossimo a Milano! È giovinezza che si beve qui. Non vogliamo camminare, oggi? Sei stanca?

— No, papà; ma dove vuoi andare?

— Così, a passeggio. Signora Marta! Signora Marta! Posso io domandare quando si pranza?