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Riconobbe subito i denti pittoreschi dell’Alpe dei Fiori, quelle stesse cime che otto mesi prima, coperte di nuvoloni minacciosi, avevan fatto dire a Edith: andiamo nella tragedia. La disegnatrice avea scritto in un angolo «Am Aarensee». A Steinegge venne subito in mente la canzone malinconica:


Ach tief im Herzen da sitzt ihr Weh,
Das weiss nur der vielgrüne Wald.


Il paesaggio morto, freddo, a luci di neve e ombre di piombo, ricordava più lo spirito afflitto che il bosco verde. Steinegge si accorò, sentì confusamente che il male doveva essere più profondo di quanto gli avesse detto don Innocenzo. Dov’era dunque Edith? Perchè non poteva egli porgerle subito almeno una consolazione, almeno il premio del sacrificio ch’ella aveva compiuto? Il chiasso che si faceva in salotto e nell’orto, le voci rozze dei contadini, le risa spensierate delle ragazze lo irritavano. Se Edith udisse tutto quello strepito, come si sentirebbe amaramente sola! Gli parve di udir camminare nell’orto, e andò alla finestra. Era Edith, uscita dal salotto dove stava apparecchiando la tavola prima che entrasse il curato con le autorità. Steinegge la rimproverò amorosamente di stare al sole senza ombrellino, volle portarglielo malgrado le sue proteste; ma sceso nell’orto, non la vide più. La cercò in casa, non v’era; finalmente la scoperse presso il cancello dell’orto che parlava con le ragazze affaccendate a spogliare i rosai. Non la chiamò ne le portò l’ombrellino, temendo riuscire inopportuno, figurandosi che non amasse ora trovarsi con lui.

Si ritirò dietro l’angolo della casa per non farsi nemmeno vedere da sua figlia. Gli parve, guardando l’orizzonte lontano, che sarebbe andato via per sempre, avrebbe rinunciato a Edith pur di tornare indietro a quel momento in cui Silla avea portato il suo libro. Sì, sì, come ricordava adesso le proteste appassionate