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coscienza lo accusava di ricordare con soverchio sdegno, egli prete, certe offese troppo men gravi di quelle patite dal povero Steinegge, cristiano senza saperlo, più cristiano di lui.

Il vento parlava per le macchie, per i capi frondosi degli alberi: lo si vedeva correre sul velluto dell’erba, cangiarne il verde.

— Bel tempo! — disse Steinegge, lottando ancora con l’emozione.

— Bello — rispose il curato.

Steinegge stette un po’ silenzioso, poi abbracciò appassionatamente don Innocenzo, lo baciò sulla spalla, gli disse con voce inintelliggibile:

— Andiamo da Edith.

— Bene, ma non gliene parli per adesso, aspetti e poi mostri che la Sua risoluzione è spontanea.

Steinegge, per tutta risposta, prese il braccio del suo interlocutore, glielo strinse forte e si pose in cammino.

Fatti pochi passi, udirono Marta che gridava in su dall’orto della canonica. — Oh, signor curato! Oh, signor curato! — C’era della gente nell’orto, uomini e donne. Don Innocenzo sorpreso, affrettò il passo.

V’erano la Giunta, il presidente della Congregazione di Carità e il capitano della guardia nazionale venuti per parlare al curato delle esequie del conte che dovevano seguire l’indomani mattina. Era corsa voce di grossi legati ai poveri del paese. Il capitano, un ex garibaldino barbuto, aveva prese informazioni dirette al Palazzo. C’erano infatti 70.000 lire per un asilo d’infanzia e 30.000 lire per tre doti annue alle ragazze povere del paese. Il capitano aveva subito fatto il suo programma di onoranze funebri al generoso testatore e intontitone il sindaco e il presidente della Congregazione di Carità, chiamandoli con amichevole compatimento «gran villanacci p..."» perchè essi imbarazzati e non avendo la menoma idea di «quel che si fa adesso» come diceva lui, esitavano, si guardavano in faccia, brontolavano che