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non erano pratici che la era «pazzia» buttar via dei denari per un morto che finalmente, diceva il sindaco, al Comune, propriamente al Comune, non aveva lasciato nulla. Per movere quei due fossili il capitano avea dato fuoco all’opinione pubblica, li avea portati con un gruppo di amici suoi dal curato, a domandarne l’autorevole parere. Costoro attorniavano don Innocenzo, parlandogli tutti in una volta, gridandosi l’un l’altro di tacere, discutendo un guazzabuglio di progetti e di emendamenti. Guardia nazionale, piccola tenuta, alta tenuta, una salva, tre salve, musica del tal paese, musica del tal altro, discorso in chiesa, discorso al cimitero. Don Innocenzo ottenne a stento che si chetassero e lo seguissero in casa. Allora si fecero avanti cinque o sei ragazze, le più briose civettuole del paese, che avevano prima assalita Marta e ora affrontarono il signor curato, rosse, rosse, con gli occhi ancor lucidi di riso. Venivano a nome delle ragazze del paese, a domandar fiori da farne ghirlande pel feretro del loro benefattore. Marta aveva dato loro un rabbuffo, aveva detto ch’erano «sfacciatone» di venir lì dal curato a portar via fiori, magari per metterseli in testa o per donarli a quel mucchio di amorosi che avean sempre alle sottane. Una delle ragazze le aveva risposto per le rime tra le risate della compagnia. Il curato non badò alle occhiatacce nè ai borbottamenti di Marta, abbandonò senza difesa i suoi poveri fiori.
Steinegge era impaziente di vedere Edith, non per parlarle, ma per leggere attraverso quel viso, per assaporare meglio la compiacenza segreta di aver in cuore una buona, insperata notizia da confidarle alla prima occasione; presto, senza dubbio. Ella non era nell’orto. Steinegge si congedò con profonde scappellate dalle autorità e corse su nella camera di sua figlia.
Non era neppur lì. C’erano però sul letto il suo cappellino, i guanti e un piccolo album. Steinegge l’aperse, vide uno schizzo preso dalla riva del lago, sotto i pioppi.