Malombra/Parte quarta/V
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CAPITOLO V.
Inetto a vivere.
L’alba nasceva sopra i grandi sassi malinconici dell’Alpe dei Fiori, circonfusi da ondate di nebbia; scopriva le alte cime grigie, sonnolente nei loro umidi mantelli di boschi, le ultime colline di ponente sfumate in un chiaror di piova, il lago plumbeo. Lì sul lago non pioveva ancora. Non si moveva fronda de’ fichi, de’ gelsi, degli olivi pendenti dai campicelli delle rive sull’acqua morta; le loro immagini e quelle dei muriccioli, delle rade casupole, dei sassi cespugliosi vi tacevano ferme, intere. Ma da ponente la piova veniva avanti come una vela obliqua dal cielo alla terra, sempre più grande. I pioppi delle praterie la sentivano vicina, ne avevano i brividi. Anche il lago cominciava laggiù a fremere, a picchiettarsi di brevi macchie scure. Queste corsero avanti spandendosi rapidamente, si confusero in una sola striscia rugosa, in una fila di ondicine tremole che si spiegavano a ventaglio, silenziose nell’alto, bisbigliando lungo le sponde. E in queste sponde solitarie, nel lago stesso diviso più che mai dal mondo, diviso, parea per sempre, dal sole, era un arcano raccoglimento pieno di pensieri gravi, d’intimi colloqui sommessi, una quiete di chiostro in cui l’aria e le pietre parlano di alti misteri e di occulte passioni.
Le colline sparvero del tutto dietro il bianco velo della piova su cui si disegnavano neri i pioppi delle praterie, che uno dopo l’altro, da’ più lontani a’ più vicini, grigi essi pure, si dileguavano come fantasmi fugati dal giorno. Intanto le ondicine venivano avanti, sempre avanti, movevano in file serrate al Palazzo. E vennero a battere gorgogliando le mura, entrarono a sussurrare curiose nella darsena. Nessuna voce rispose loro. L’ala di ponente aveva tutte le finestre chiuse, ma l’altra le aveva in gran parte spalancate. Pure nemmeno da questa veniva voce nè segno alcuno di vita, benchè vi parlasse un disordine di letti sfatti, di cassetti aperti, di sedie scioccamente ritte in mezzo alle stanze; benchè vi apparisse, a una finestra del secondo piano, una figura umana pietrificata, più pallida di quell’alba.
Appena lasciato il Vezza che gli aveva partecipate certe disposizioni del conte, Silla era venuto a cadere sul davanzale della finestra. Sapeva ora che Marina non era nemmeno nominata nel testamento e che a lui il conte aveva legate le suppellettili appartenute a sua madre, una cassetta di lettere e diecimila lire a titolo di compenso per il lavoro scientifico incominciato l’anno precedente e da proseguire come e quando Silla crederebbe meglio. Ma egli non pensava a questo; guardava venire avanti lentamente il giorno, la piova, le onde. Gli occhi vedevano male: si sentiva la testa grave più del piombo, il petto voto d’ogni sentimento. Si conosceva affondato nel disonore della sua azione sleale, in una cupa necessità: legarsi a Marina, pazza o no. Ed era tranquillo, freddo sino al cuore. Il cielo, il lago, la piova vicina gli consigliavano sonno. Chiuse la finestra, si gittò vestito sul letto. Lo trovò soffice, morbido più che mai, sentì dolce come una carezza la tela del guanciale, desiderò dormire, dimenticare; si assopì e vide uno sconosciuto che lo guardava.
Lo guardava placidamente, per qualche tempo; quindi alzando le spalle e le sopracciglia, porgendo le mani aperte, scoteva il capo quasi per dire: non c’è verso. Silla credette capire, come a cosa più naturale del mondo, che colui gesticolava sì, ma non poteva parlare, perchè era morto. Allora lo riconobbe tosto per un vecchio amico di famiglia suicidatosi quindici anni prima. Ne riconobbe la gran fronte calva, il mento raso, aguzzo fra due solini diritti, sopra una cravatta nera con la spilla di malachite. Meravigliò in pari tempo di non averlo riconosciuto subito; dovea saperlo che sarebbe venuto. Infatti il fantasma, leggendogli nel pensiero, gli sorrise. Quel sorriso fu per Silla un’altra rivelazione. Vide in sè stesso tutta la occulta via di un pensiero, dai giorni dell’adolescenza sino a quel momento. Aveva cominciato da una dolce malinconia, dal desiderio vago di una patria lontana: era diventato poscia presentimento fugace, quindi sospetto sempre combattuto, sempre più gagliardo, sempre coperto di segreto come qualche lento male orribile che ci rode, di cui si vede il nome col pensiero e non vogliamo confessarlo mai; prevaleva finalmente, alla volontà, diventava un ragionamento irrefutabile, una sentenza opprimente in tre parole: inetto a vivere. Silla se le vedeva dentro chiare queste tre parole, e il fantasma sorrideva sempre, si avvicinava, gli procedeva pesante su per la persona, con gli occhi sbarrati, mettendogli un gelo nelle ossa, fermandogli il respiro. Quando giunse al cuore, Silla non vide nè intese più nulla.
Gli parve svegliarsi solo, provare una dolcezza infinita e dire fra sè «adesso non sogno». Era in un altro mondo, quasi senza luce, tutto silenzio e riposo. Guardava, steso bocconi, in un’acqua immobile, vedeva passarvi dentro lentamente la immagine di un globo alto nel cielo, color d’alba piovosa: e ripeteva seco stesso: «eccolo, ne son fuori, son pur fuori di un gran mondo tristo». Era una consolazione profonda e tenera la sua, come si prova in un sogno d’amore. Ma gli parve a un tratto che quel globo color d’alba piovosa non procedesse più pel suo cammino, si avvide che ingrandiva rapidamente, smisuratamente: côlto da indicibile terrore, si svegliò.
Si vide davanti, per la finestra aperta, un largo chiarore bianco, alzò la testa inorridito, sognando ancora. Quando, raccapezzatosi, si rizzò a sedere sul letto, sentì, poco a poco, che il cuore gli doleva, la testa pesava tuttavia come il piombo, le membra erano tutte intirizzite dalla fredda aria umida della finestra; e disse a mezza voce rispondendo al proprio sogno: «È vero, morire, non c’è altro; dormire ancora. Dormire, dormire.» Sopra il capezzale l’angelo appassionato del Guercino pregava per lui con ardor veemente, gridava a Dio: «Chi lo ha gittato sulla terra? Chi gli negò il sospiro dell’anima sua? Chi lo mise inconscio, lo trattenne, lo ricondusse sulla via di quest’ora angosciosa?».
Silla si guardò involontariamente nello specchio scuro di fronte al letto. Vide appena un viso pallido, due occhi spenti. Pensò che pareva già morto e ch’era stato così pallido altre volte dopo un’ebbrezza tetra di sensi, nel doloroso sdegno dell’anima. Ora non v’era più sdegno in lui nè forza alcuna; lo stesso proposito di morire che lo invadeva era come un infiacchimento, uno sfacelo dello spirito. Scese dal letto, andò barcollando a sedersi al tavolo, si appoggiò i gomiti, reggendosi con le mani il capo addolorato pieno di confusione. Comprendeva in nube, che bisognava pure scrivere qualche cosa a’ suoi parenti, alla sua padrona di casa, e non se ne sentiva la forza. Lottò ad occhi chiusi per raccogliere le idee, ne represse con violenza il disordine, stese la mano alla penna e solo allora vide la lettera portata su da Rico. La guardò, non ne riconobbe il carattere, la depose senza aprirla e cominciò a scrivere al cav. Pernetti Anzati, suo zio, invitandolo a sospendere l’invio dei soliti interessi, poichè lui, Silla, era fortunatamente in grado di far dono del capitale alla famiglia Pernetti, statagli tanto amorosa. Prima di voltar pagina riprese quella lettera e l’aperse.
V’erano scritte queste poche linee senza intestazione e senza data:
«Edith S. risponde allo scrittore oscuro ch’egli può diventar grande e forte, contro la fortuna, malgrado l’ingiustizia degli uomini. Edith ha promesso non appartenere ad altri che al suo vecchio padre, il quale ha gran bisogno di lei; ma è libera di portare nell’intimo del suo cuore un nome che le è caro, un’anima che non affonderà mai se ama come lo dice."
Silla sorrise. «Adesso, adesso!» diss’egli. Rilesse il biglietto e si sentì morire.
Trasse il portafogli per chiudervelo, stette sospeso, considerando i caratteri netti e slanciati, pensando alla mano, alla mente pura; e pentitosi della prima idea, compreso della propria indegnità, ripose il portafogli, accese una candela, vi arse lo scritto, ne sparse dalla finestra i brandellini neri al vento e alla pioggia. Mentre li guardava svolazzar via lungo la muraglia, un domestico entrò a dirgli che il commendatore gli voleva parlare e lo attendeva nella sua camera. Silla ripose la lettera incominciata, e uscì come stava, con i capelli arruffati, con le vesti in disordine. L’orologio della scala suonò, mentr’egli passava, le nove.
— Qui — disse il commendatore — una sorpresa non aspetta l’altra.
Silla non fece domande; attendeva che colui parlasse, che anche questa noia fosse passata per sempre. Ma il panciuto soldatino di gomma, invece di parlare, lo guardò fisso con le mani in tasca e la testa piegata sul petto.
— Cosa vuole — diss’egli, lasciando improvvisamente quella attitudine scrutatrice, — sono in una condizione penosissima. Si soffoca poi anche, qui dentro.
Aperse una finestra e andò a cadere in una poltrona di fronte a Silla.
— Penosissima — ripetè.
Silla non aperse bocca.
— E pure — soggiunse il commendatore, sospirando — bisogna starci. Io sono un ambasciatore sa. Un’ora fa donna Marina mi ha mandato a chiamare.
Silla trasalì.
— Lei si meraviglia. E io dunque? Ma! È così. Potevano essere le otto e un quarto; la moglie del giardiniere viene a svegliarmi e a dirmi che la marchesina mi aspetta. Io sono rimasto di sasso. Come mai? dico. Mi dice che ha dormito senza avere preso medicine di sorta e che si è svegliata circa alle sette, tranquilla, perfettamente in sè. Solo non ha voluto che si aprissero le persiane; ha preferito tenere accesa la candela, anzi farne accendere altre due o tre. Ha domandato, la prima cosa, se Lei è ancora qui, al Palazzo. E poi si fece ripetere i discorsi del suo delirio, tutto l’accaduto dopo...
Il commendatore si fermò esitando.
— Parli pure — disse.
— Dopo che Lei l’ebbe portata via dalla camera del povero Cesare. E specialmente... scusi, Lei l’ha rimproverata, per quello che ha detto là?
— A parole non l’ho rimproverata veramente: ma deve aver compreso che mi faceva orrore, perchè mi ha vituperato nel suo delirio.
— Bene, è su questo orrore manifestato da Lei, mi diceva la donna, che la marchesina fece più insistenti domande. Poi si alzò e mi mandò a chiamare. Adesso, senta. Premetto: per me è malata ancora: malatissima! Sta peggio ora di stanotte, per me. Lo si vede quasi più nella bocca che negli occhi; la bocca è alla gran tempesta. Ma è un fatto che mi ha parlato con una freddezza, con una calma da fare sbalordire. Era pallida, se vuole, come un cadavere; ma non importa. Mi domanda perdono di avermi incomodato, con un’affabilità insolita in lei, poi mi dice che nella posizione stranissima in cui si trova, non ha nessuna guida, nessun aiuto; che io sono il migliore amico del suo povero zio e che stima doversi rivolgere a me per consiglio. Io, naturalmente, mi metto a sua disposizione. Ella mi domanda allora... scusi, signor Silla, Lei è disgraziatamente immischiato nelle cose che sono successe qui stanotte. Abbia pazienza, io non voglio farmi suo giudice. Non si offenda se son costretto di ricordarle queste cose e forse anche di dirne altre che potranno spiacerle.
— Parli, parli — disse Silla.
— Bene. Mi domanda dunque dei Salvador: perchè sono partiti? Io la guardo. Eh, dico, per questo e per questo. Perchè dopo gli avvenimenti di stanotte hanno creduto di non avere più niente da fare, qui. Allora ella mostra di turbarsi un poco, mi dice che comprende e scusa questo procedere, che pur troppo ha tutte le apparenze contro di sè, ma che non è colpevole affatto. E qui, poveretta, mi fa un racconto dal quale mi son ben persuaso che c’è ancora follìa e follìa più pericolosa, forse, del delirio violento. Per otto giorni, dice, non sono stata responsabile delle mie azioni. Ho avuto da una persona morta comunicazioni che mi hanno scombuiato il cervello. Queste comunicazioni, dice, il signor Silla le conosce.
— È vero — disse Silla.
— Euh! — esclamò il commendatore stupefatto. Non si aspettava questa conferma; gli sconvolgeva le idee, gli suggeriva il sospetto che neppur quell’uomo pallido dai capelli arruffati, dalle vesti scomposte, avesse il cervello interamente sano.
— È vero — ripetè Silla
— Spiritismo? — chiese il commendatore.
— No. Ma, La prego, continui.
Il Vezza aveva perduto la bussola e il filo del discorso; ci volle del buono perchè potesse raccapezzarsi.
— Dunque — diss’egli — ella sostiene, continuando, di aver vissuto otto giorni in una specie di sonnambulismo, durante il quale ha fatto cose inesplicabili di cui ora è dolentissima. Protesta della sua indifferenza, anzi della sua ripugnanza per Lei, comunque si sia comportata durante questo periodo di allucinazione. Soggiunge che spera di persuadere di tutto questo il conte Salvador, e mi prega, in due parole, di aiutarla. Cosa vuole, che le rispondessi? Che per parte mia credevo tutto, ma che non vedevo probabile di far credere nulla al conte Salvador. E poi, le dico, capisce bene. Fanny non ha taciuto...
Silla lo interruppe impetuosamente.
— Quanto a questo — diss’egli — posso dare la mia parola d’onore...
— Benissimo, benissimo, si calmi. Capisce bene che in ogni modo per allontanare Salvador ce n’è più che abbastanza. Tornando alla marchesina, mi domandò allora con un sorriso sarcastico se si conosceva il testamento. Io glielo riferii ed ella non si turbò affatto. Se io sono esclusa, dice, questa è una ragione, per un gentiluomo come mio cugino, di non abbandonarmi. Dopo di che mi fa un discorso riguardo a Lei: debbo confessarlo. Un discorso sensatissimo. Vi sono proprio delle convenienze imperiose che danno ragione a donna Marina, e Lei vorrà non dolersi, credo, se ho accettato di esporle il suo messaggio. Le assicuro che sono convinto di fare un’opera buona verso tutt’e due.
— Ch’io parta? — disse Silla, concitato.
Il commendatore tacque.
— Ma cosa crede Lei, che il conte Salvador possa tornare, che voglia prendere una moglie, non foss’altro, inferma di mente e diseredata? Come si posson pigliar sul serio i discorsi di una donna in quello stato? Ma si metta una mano sul cuore e mi dica se io, che purtroppo sono stato immischiato nelle vicende di questa notte, mi dica se adesso che donna Marina è lasciata dal suo fidanzato, anche per causa mia, adesso che cade dalla ricchezza nella povertà perchè di suo deve aver poco o nulla, adesso che è malata di una malattia terribile, mi dica, ripeto, se posso abbandonarla di cuor leggero e tornar nel mondo come se niente fosse stato, solo perchè questa donna inferma si sveglia dal delirio e mi dice: andate pure? Andar via, lasciarla sola con la sua sventura spaventosa? Lei, commendatore, mi consiglia questa viltà?
— Piano, piano, piano, — disse il commendatore piccato.— Non adoperiamo parolone e riflettiamo un po’ di più. Lei crede in coscienza doversi costituir protettore della marchesina di Malombra! Non voglio esser severo con Lei perchè in affari di cuore non lo sono mai, e perchè dopo una notte simile, chi può avere la testa a segno? Ma mi spieghi un poco, scusi sa, che sorta di protezione può offrire alla marchesina? Ci pensi bene; una protezione poco efficace e poco onorevole, una protezione che le allontanerà tutte le altre. Perchè la marchesina ha dei parenti che l’assisteranno se non per affezione, almeno per un sentimento di decoro. Ma bisogna che Lei esca di scena. Vede, non è neanche il caso, parlando chiaro, del matrimonio per riparazione; con una donna che vi respinge? Con una donna, sopra tutto, che non ha la sua ragione intera? Dunque, cosa vuol far Lei qui? Lei non ha che a partire.
Silla lottava fieramente per serbarsi freddo, per soffocare un lume indistinto di speranza che gli entrava nel cuore, e poteva turbargli, in quel frangente, il giudizio.
— Sul Suo onore, signor Vezza — diss’egli — crede buono questo consiglio?
— Sul mio onore, lo credo l’unico. Ella potrà accertarsi delle disposizioni di donna Marina, parlando con lei stessa. Così giudicherà anche del suo stato di mente.
— Io? Nemmeno per sogno. Se partissi, non vorrei rivederla.
— Un momento. La marchesina mi ha pregato di riferirle questo nostro colloquio, ciò che farò con la debita discrezione; e mi ha pure espresso il desiderio di parlare, a ogni modo, con Lei.
— Perchè?
— Ma! Bisognerebbe domandarlo a lei. Vada, si faccia coraggio. Io ho il diritto, per la mia età, di parlarle come un padre, signor Silla. Mi spieghi questa cosa che non posso comprendere, ricordando una certa scena dell’anno passato. Ha Lei una vera affezione per donna Marina?
— Perdoni, non si tratta de’ sentimenti miei, adesso.
— Basta, basta. Dunque le dico che Lei è persuaso di partire?
— No, le dica solo che mi faccia saper l’ora in cui dovrò recarmi da lei.
— Sì. Per dirle la verità, il mio interesse personale sarebbe ch’Ella restasse qui ancora qualche ora. La pregherei di aiutarmi. Ho tante cose da fare. C’è da chiedere al pretore l’apposizione dei sigilli. Capirà, qui c’è tanta gente! C’è da scrivere alla Direzione dell’Ospitale di Novara. Ho già spedito un telegramma, ma non basta. Anche sul funerale avremo a discorrere. La cappella di famiglia è a Oleggio. Il conte dev’essere trasportato là? Dev’essere sepolto qui? Mi han promesso che prima delle due arriveranno gli annunzi stampati da diramare: un bel lavoro anche quello! Era più o meno cugino di mezzo Piemonte, il povero Cesare, e di mezza Toscana, anche. Insomma, quanto a me, se Lei restasse fino a stasera, ne avrei certo piacere.
Un forte soffio di vento entrò dalla finestra aperta, gonfiò le cortine.
— Oh, il vento cambia, meno male — disse il commendatore. — Anche questo tempaccio è una cosa orribile.
Silla non rispose, salutò in silenzio e tornò nella propria camera, meditabondo.
Cos’era adesso quest’altro enigma? Cos’era quest’altra commedia del destino? Egli ripensava certi esempi di maniaci risanati da un momento all’altro, nello svegliarsi. E forse il delirio di donna Marina non era stato che un eccesso passeggero, una esaltazione nervosa prodotta da circostanze veramente strane.
Se il Vezza s’ingannasse? Se fosse veramente guarita? Essa lo sdegnava adesso, lo respingeva: la catena dura sarebbe spezzata senza dubbio.
Restavano i rimorsi, la vergogna d’esser tornato al Palazzo in onta alla propria dignità con un coperto proposito di colpa, per farvisi complice di una mortale nemica del conte, mentre quest’uomo che lo aveva amato e beneficato giaceva oppresso dalla infermità. Ma pure, se rimanesse libero, non vi sarebb’egli modo di rialzarsi ancora, di purificarsi questa lunga espiazione amara? Una voce occulta gli sussurrava nel cuore qualche speranza, gli ripeteva le parole di Edith: — non affonderà mai, se ama come lo dice. — Non era più il Silla di prima che fantasticava così, seduto sul letto, mentre l’angelo del Guercino pregava sempre. Adesso l’idea del suicidio si era allontanata dalla sua mente. Non voleva ancora pigliare alcuna risoluzione per l’avvenire: aspetterebbe di aver visto donna Marina, di averle parlato. Oh, se Dio volesse essergli pietoso, rialzarlo una volta ancora! Il suo sentimento religioso, la sua fede in un segreto contatto di Dio con l’anima e nella salutare potenza del dolore, rinascevano. Si coperse il viso colle mani e si sovvenne di un’ora triste in cui, aperta la Bibbia a caso, vi aveva letto — Infirmatus est usque ad mortem, sed Deus misertus est ejus. Quanta consolazione, quanta energia di vita in questo pensiero! Immagini di un futuro migliore gli sorgevano spontanee nella mente ed egli le combatteva, temendo illudersi, prepararsi disinganni più amari. Entrare, per punirsi, nella manifattura de’ suoi parenti, dare il giorno al lavoro più ingrato, la notte agli studi, poter dire a quella persona — sono ancor degno ch’ella mi porti nell’intimo del suo cuore!
Queste immagini suscitavano dentro di lui una burrasca simile a quella che flagellava i tetti e le mura del palazzo. Lì pioveva ancora, ma le scogliere dell’Alpe dei Fiori nereggiavano sul cielo bianco, nitide, spazzate dal vento del nord che copriva pure le altre cime di fragore, infuriava, volendo sereno.