Lydia/XII
Questo testo è stato riletto e controllato. |
◄ | XI | XIII | ► |
XII.
Novembre sfrondava i boschi: le lunghe colonne d’edera che si erano imporporate agli ultimi calori dell’estate riprendevano i toni del verde morente; nelle rade chiome dei castagni sibilava il vento, i pioppi si torcevano con flessuosità convulse. Sembrava che una mano brutale strappasse agli alberi le foglie, l’erba ai prati, i fiori allo stelo.
La nudità sofferente della natura appariva dovunque; un velo grigio cadeva dal cielo e dai monti, un vapore grigio sorgeva dalla terra e dal lago, manto pietoso, lenzuolo funebre a quella suprema agonia.
Lydia gustò per quindici giorni questa profonda voluttà: la malinconia dell’anima e delle cose. Le sue ultime gite a cavallo sui sentieri desolati, le procurarono indicibili istanti di piacere. Le fiammate allegre, prese in piedi colla punta dello stivaletto appoggiato agli alari, coi capelli ancora impregnati dell’aria dei boschi, la vivificavano.
— Se restassimo qui tutto l’inverno? — disse un giorno; ma all’indomani aveva cambiato parere.
Una visita al suo appartamento di città, dopo tanti mesi di assenza, la persuase che occorrevano grandi cambiamenti. Andò dal tappezziere, dallo stipettaio; e fra i mobili intarsiati, fra le stoffe antiche, fu ripresa dai gusti mondani.
Durante queste corse incontrò Eva, in moto essa pure per l’allestimento del suo nido, — modesto — si affrettò a soggiungere la signora Avella, per definire subito la sua nuova posizione nel mondo. E Lydia sentì un improvviso stringimento, come se quel modesto, pronunciato con una infinità di retropensieri, le avesse mostrato un bene che ella non poteva acquistare.
— Siete felici, nevvero?
Eva non disse di sì. Sorrise e guardò Lydia con mal celata compassione.
— Orbene — esclamò Lydia con un piccolo riso maligno — so quel che mi resta a fare. Metterò in un cappello il nome de’ miei spasimanti e sposerò il primo che esce, poiché è il matrimonio che rende felici.
Quel giorno stesso, agitata da pensieri amorosi, si lasciò vendere dal suo tappezziere una coperta tessuta su disegni del quattrocento, con tede accese e nodi d’amore. La coperta era di raso, di una intonazione perlacea pallidissima; le tede di una viola dolcemente incarnato, con piccoli labbri corallini; i nodi, azzurri, dominanti tutto il disegno colla sinfonia delicata del loro color di cielo.
La coperta le fece sorgere l’idea di rifare da cima a fondo la sua camera, anzi di cambiarla addirittura, prendendo la camera che era stata di sua madre; una stanza d’angolo, ampia, quadrata, colle finestre che davano sopra un vecchio giardino, caro alle rondini, le quali vi nidificavano da anni ed anni nella più assoluta tranquillità.
Per prima cosa Lydia fece levare i mobili di mogano austeri e fuori di moda; le sedie tutte eguali, coperte di velluto verde; il tappeto a mazzi di rose su fondo bianco; la tappezzeria di carta bigia con fiorami dorati; la psiche irruginita sul suo perno, le tende e le tendine di guipure bianche e rigide nella stiratura immacolata. Lasciò stare una madonna, una testina ispirata del Murillo, che assomigliava un pochino a lei negli occhi.
Quando si trovò padrona dello spazio, padrona di plasmare a suo capriccio quel piccolo mondo, di creare qualche cosa dal nulla, tornò a provare la gioia intensa, l’infantile orgoglio che già l’avevano animata e di carità verso Eva e di entusiasmo per i poeti e di inconscia ebbrezza davanti ai miracoli della natura.
Si pose all’opera febbrilmente, dimenticando in quei giorni le cure dell’abbigliamento; fermandosi, spettinata, in mezzo al caos delle stoffe e dei tappeti; sollevando appena la gonna per attraversare i pentolini delle vernici, posati a terra: e guardava tutto; si interessava di tutti i particolari, del cordone, della bulletta; dava ordini e contr’ordini.
Dapprima le era venuta l’idea di nascondere il letto sotto una specie di tenda araba, formata da tappeti e sorretta da canne di bambù, riducendo il letto stesso a un mucchio di guanciali. La stranezza di questo progetto la tentava assai, vedendo già la faccia meravigliata e sgomentata delle signore di sua conoscenza; ma come impiegare allora la coperta medioevale?
Rinunciò al genere arabo; ma neppure il medio evo, preso alla lettera, la soddisfaceva, perchè troppo rigido e angoloso. Pensò allora di sciogliersi dal rigorismo di uno stile puro, prendendo ispirazione da tutti i generi.
Fece rizzare in un angolo della camera, fuori di squadra e d’ogni regola conosciuta, un enorme baldacchino che protendendosi molto innanzi formava quasi alcova, dalla quale pendevano lunghe e floscie cortine di velluto viola foderate di raso color perla, strappate indietro con audacia bizzarra e aggruppate intorno alla testina del Murillo. La bella coperta spiccava sopra un letto largo e basso, di una morbidezza impudica. I tappezzieri erano persuasi che quello fosse il letto nuziale della signorina.
— Ma ti perderai in quel letto! — osservò don Leopoldo a sua nipote.
— No — disse Lydia semplicemente — starò comoda.
— Mi pare sfacciato — osservò ancora titubando, don Leopoldo.
— E perchè?
Il perchè era difficile a dirsi; né i grandi occhi di Lydia aperti e sereni mostravano di indovinarlo menomamente. Dopo una breve pausa, impiegata a riflettere, ella soggiunse con una crollatina di spalle:
— Del resto non mi vedrà nessuno quando sono a letto.
Riempì l’altra parte della camera di mobilucci eleganti e strani, di piccole poltrone, di divanini dove la sua minuscola persona appena poteva capire; alternando i colori viola, perla ed azzurro, con una fusione armonica che era tutta una dolcezza per gli occhi.
Sulle finestre, le cortine di velo delicatamente dipinte, lasciavano appena trasparire lo sfondo romantico del giardino; e le ampie tende di velluto viola, sovrapposte a una leggera sfumatura di seta color perla, costringevano la luce ad assumere gradazioni misteriose e simpatiche.
Stendendo un paravento presso una delle finestre, improvvisò una specie di studiolo, un gabinettino a parte; e quello divenne subito il cantuccio prediletto. Il paravento era di lacca verniciato in color acqua, dalla tinta aristocratica che fu tanto di moda nel secolo decimosettimo, lo copriva un ricamo imitante l’arazzo, con scene pastorali eccessivamente tenere, dove, frammezzo ai guardinfanti color di rosa e alle testine incipriate, si sentivano volare i baci.
Parve a Lydia che in quel cantuccio intimo dovesse pure trovar posto un panierino da lavoro; ne aveva visti parecchi in casa delle sue amiche, e si affrettò a provvederlo tutto elegante, tutto a fiocchi azzurri, imbottito di raso; vi pose un ditalino d’oro, grande come una capsula; un astuccio d’avorio con aghi inglesi, suggellati nelle loro cartine; un paio di forbici cesellate, intarsiate, a trafori, inservibili; quattro matassine di seta lilla, dei confetti e delle sigarette.
— Nei giorni piovosi — pensò Lydia ordinando seriamente questi oggetti dentro il panierino, — lavorerò.
Le fotografie di attrici celebri, di bellezze alla moda, facevano capolino fra le pieghe della tappezzeria, e un enorme ventaglio giapponese, sospeso a mezz’aria come un uccellaccio, terminava di mobiliare il cantuccio preferito; eppure, dopo alcuni giorni, Lydia vi fece stare ancora un tavolino di peluche color muschio e una esile palma che dovette schiacciare contro i vetri, per non sentirsela nella nuca, quando si sdraiava sulla sua poltroncina.
Tutte queste faccende la condussero alla fine dell’anno senza che quasi se n’avvedesse, e per qualche settimana ancora gustò il piacere di far ammirare la sua camera agli amici. Sulle prime la mostrò loro come una curiosità, fermandosi sulla soglia; poi venne un giorno di pigrizia, in cui trovandosi tanto bene dietro il paravento, Lydia non volle muoversi e ricevette Calmi, — un vecchio conoscente, — sprofondata nella poltroncina.
Ricevuto Calmi, non vi era ragione di muoversi per gli altri. Il suo circolo d’uomini trovò posto accanto al paravento, o bene o male; o dentro o fuori. Si stava un po’ pigiati, i piedi contro i piedi, urtandosi di quando in quando, ma si rideva molto.
Lydia, la fanciulla dall’immaginazione viziata, che aveva visto, letto, udito, pensato tutto, che della sua verginità conservava appena quel tanto che non aveva potuto gettar via, arrischiava talvolta spudoratezza da cortigiana.
I suoi ricevimenti suscitarono scandalo nell’alta società. Una vecchia marchesa, che s’era data a Dio dopo di avere appartenuto al diavolo, venne in pompa magna e a nome delle signore oneste a tentare di convertire Lydia, mostrandole che non era questo il contegno di una fanciulla per bene. Lydia irritatissima, senza lasciarle finire il sermone, le rispose che poichè quelle signore oneste ricevevano i loro amici in letto, ella poteva ricevere i suoi in camera.
Fu il colpo di grazia. Nessuna donna volle più confessare di esserle amica; si vide a poco a poco evitata; salutata forzatamente, poi lasciata sola affatto. Non vi era persona al mondo che potesse difenderla, poichè don Leopoldo, quasi rimbambito, non contava più che per il nome.
Delle sue coetane qualcuna, maritandosi, aveva preso un altro indirizzo; le nubili, o per gelosia o per pettegolezzi o semplicemente per lo sconforto della vita, si erano chiuse in sè stesse. È difficile fare amicizie nuove passati i trent’anni; e quand’anche, un uomo che cammini colla testa in giù e le gambe per aria trova dei curiosi, dei motteggiatori, forse degli ammiratori, ma non degli amici. Così la donna sola. Fra gli strati bassi dell’intelligenza e del sentire assomiglia ai crostacei; nella condizione di Lydia è un ermafrodita.
Lydia comprendeva, qualche volta, la sua falsa posizione, ma non vedeva nessuna uscita; si trovava avviluppata in una rete di malintesi, di calunnie, di malignità, e non sapeva come romperla. Sentendosi in fondo più nobile e più pura dei suoi accusatori, sdegnava una riforma che umiliava troppo il suo orgoglio. — Non faccio niente di male — era la sua scusa a tutto, la sua risposta a tutti.
Ogni giorno cresceva in audacia, in disprezzo delle convenienze; in fondo aveva paura, e i bambini quando hanno paura, gridano forte.
In qual modo avrebbe impegnato il tempo? Era la sua domanda di tutti i giorni, il terribile, angoscioso problema. Spesse volte non rispondeva affatto, abbandonata sulla poltrona, senza desiderî, senza curiosità, senza affetti, in preda a una noia che la divorava.
A una lotteria di beneficenza aveva vinto un grazioso revolver, un ninnolo elegante che ella pose subito sopra il suo tavolino, piacendole far pompa di originalità e mostrandolo con orgoglio a’ suoi amici, i quali, per celia, si affrettarono a regalarle dei pugnali, dei fioretti arabescati, ch’ella appese accanto al ventaglio, cercando il nuovo ad ogni costo.
Ma il nuovo dell’oggi era vecchio domani. Incominciava a provare lo scoraggiamento dei viaggiatori nel deserto; quella stanchezza umiliante davanti alla meta che sfugge, in mezzo al nulla che circonda da ogni lato.
In principio d’inverno si era messa a far visite frequenti alla signora Avella. Le voleva bene davvero; dopo l’esilio volontario di Costanza, era quella la sua unica amica, ed anche Eva la contraccambiava di amicizia sincera.
Pure, dopo il matrimonio di Eva, Lydia si accorse che non c’era più fra lor due l’intimità di prima. Agli abbracci di Lydia, la sposina rispondeva distratta, con uno sforzo gentile, ma evidente. I loro discorsi erano scuciti; dicevano una cosa pensando ad un’altra.
Era capitato molte volte a Lydia di trovarsi con Mario Avella, e quando sorprendeva così i due sposi insieme, le sembrava sempre di veder sorgere sulle loro fronti un’ombra di contrarietà. Eva sorrideva, e Mario faceva un profondo inchino; sedevano tutti e tre, ma la parola moriva.
Una mattina Lydia capitò come una bomba nel salotto dei signori Avella. Era stata la bersaglio, dove si esercitava con Lante alla pistola, trovando ancora una larva di piacere in questi esercizi violenti che le frustavano il sangue. Entrò senza farsi annunciare, mormorando un — permesso? — intanto che sollevava la portiera.
— Ah! — fece Eva balzando in piedi, passando davanti a suo marito che si trovava in ginocchio sul tappeto.
Lydia rimase immobile, colpita dall’espressione di quel volto che non aveva più nulla di umano, irradiato da una luce meravigliosamente ideale.
— Dio, come sei bella!
Queste parole le sfuggirono suo malgrado, mentre la guardava, ancora agitata. La giovane sposa era in abito da mattina, sciolto, colle maniche larghe, aperte dall’alto al basso che lasciavano il braccio interamente nudo — un braccio tornito, di un candore di neve, di una morbidezza di raso, sul quale Lydia scorse, e guardò con insistenza, due o tre piccole punteggiature rosse, come di pressione recente.
— Ti disturbo?
Lydia soggiunse anche questo, sentendo di dire una sciocchezza, ma incapace di frenarla; le pareva che un filtro acuto le salisse al cervello, dandole dei leggeri fumi d’ebbrezza.
Eva, sorridendo, impacciata, si toccava colle mani le trine dell’abito, abbottonandolo al collo, avanzando un posapiedi, cercando coll’occhio inquieto intorno a sè; come persona destata improvvisamente da un sogno.
Mario Avella, serio, si ritirò dopo d’avere salutato Lydia e baciata la mano a sua moglie; ma Lydia non si fermò più di cinque minuti. Le scottava la terra sotto ai piedi.
— Addio, addio, ho fretta.
Intanto che si accomiatava vide, sul divano, una forcina di tartaruga, di quelle che Eva portava nei capelli. La guardava ancora, mentre Eva si scusava del disordine della stanza; e quando Lydia si decise a risponderle, era Eva che non ascoltava più; distratta, preoccupata, tendendo l’orecchio a un rumore di passi nella camera attigua.
Si baciarono sull’orecchio.
— A rivederci.
— A rivederci; vieni a trovarmi.
— Sì, vieni anche tu.
Non si videro per tre mesi.