Lydia/I
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I.
La piazza si riempiva di curiosi, e principalmente di curiose, per le quali la prospettiva di vedere una sposa appartenente all’alta società era un grande stimolo. Chi la conosceva personalmente, chi l’aveva intravista, chi ne aveva solo inteso parlare.
La famiglia era notissima. I vecchi si ricordavano di aver conosciuto Giovanni Colombo, commesso in un negozio di telerie; poi il figlio Giuseppe Colombo a capo d’una grande casa di commercio; finchè un bel giorno Giuseppe Colombo, diventato il signor Colombo, abbandonò i negozi e si diede a fare la vita in grande. Commercio, attività, furberia, fortunate combinazioni, un po’ di tutto questo aveva concorso nella formazione della sua rapida fortuna, che da qualche anno era diventata colossale al punto da attribuirle origini più misteriose.
In queste difficili evoluzioni il signor Colombo, dotato di un senso pratico e di una finezza a tutta prova, aveva saputo ormeggiare così bene, da non offendere alcuna suscettibilità. Buon ragazzo coi signori, ai quali sembrava chiedesse scusa dell’intromissione fra loro, largheggiava coi poveri; la sua borsa, accortamente offerta, gli procurava amicizie ed appoggi anche nei più alti strati sociali. Divenne una potenza, e molti discendenti dei crociati trattavano con lui da pari a pari, accettando quella tracotante aristocrazia del denaro, con una indulgenza serena, che mascherava l’umiliazione dei vinti. D’improvviso, sempre con quelle mosse rapide che sviavano le induzioni, il signor Colombo fu creato conte.
Nei crocchi intimi, nei colloqui confidenti, si rise un poco del conte Colombo, ma egli fu imperturbabile; crebbe nella distribuzione de’ suoi favori, ammogliò il figlio, l’unico maschio, con una nobilissima fanciulla senza dote, e penetrato così nel cuore dell’alta società, divenuto parente di conti autentici, vide aprirsi tutte le porte davanti a lui. Egli era poi troppo filosofo per fermarsi ad ascoltare se qualcuna di quelle porte stridesse sui cardini.
Ma l’abilità più fine, più diplomatica, l’aveva spiegata nel far tollerare sua moglie. La contessa Colombo era assai più stupefacente del marito. Venuta non si sapeva bene d’onde, con una bellezza fragile che le ardenti passioni avevano subito dispersa, ella era la più brutta signora che si potesse vedere sdraiata sui cuscini di un sontuoso landeau. Quando appariva in un salotto, le altre signore istintivamente se ne allontanavano, togliendo gli occhi da quel volto ignobile, presso al quale i diamanti e le trine producevano un contrasto grottesco.
Gli uomini la guardavano con una curiosità ironica, ripetendo a bassa voce le storielle scandalose del suo passato. Lei, forte del posto acquistato, sapendo la potenza del marito, sapendo per la pratica della vita quanta debolezza vi sia nel fondo di ogni anima umana, passava tranquilla. Non raccattava i frizzi, non s’avvedeva del vuoto fatto intorno a lei; sedeva, sciorinando i suoi abiti di velluto, e aspettava.
C’era sempre un’altra donna trascurata o spostata che veniva a raggiungerla: c’era una ingenua che la salutava, e tutti gli uomini seri o rispettosi si affrettavano a presentare i loro omaggi alla contessa, che non si vendicava. Accoglieva ognuno colla sua cordialità borghese, un po’ rumorosa, ma accaparrante. Non era mai riescita a farsi una nicchia in quella società; dava le sue battaglie di volta in volta, e le vinceva, accontentandosi di poco. Negli ultimi anni s’era abbandonata al demonio del giuoco; questa passione, chiudendo la serie delle passioni volgari di cui era stata preda, la dominava con veemenza.
Ella portava al tavolino del baccarat e del wist i medesimi ardori che avevano disseccata la sua bellezza di un giorno; e un certo non so che di insoddisfatto, di bruciante, che le fiammeggiava ancora nella pupilla, sembrava satollarsi in quel volgere o rivolgere le carte, nell’ansia del successo, giocando la partita sovra un punto, come già aveva giuocato la vita.
— E il matrimonio religioso quando si fa?
— È già fatto.
— No, si sposano in chiesa domani.
— Partono subito.
— Vanno a Parigi.
— Vanno in campagna.
I commenti e le supposizioni uscivano da tutte le bocche; ognuno voleva dire qualcosa.
— E il marito?
— Un forastiero.
— Tedesco?
— Americano.
— No, inglese.
— Russo.
— Nobile?
Questo non si sapeva.
L’arrivo delle carrozze troncò i discorsi. Ci fu un pigia pigia sulla porta del Municipio; quelli rimasti indietro si rizzavano sulla punta dei piedi, allungando il collo; le ragazze, che davano il maggior contingente al capannello de’ curiosi, trepidavano, con una commozione strana; le più giovani rosse in volto cogli occhi accesi; le zitellone pallide e serie.
La carrozza della sposa, precedendo le altre, entrò nel cortile; un servitore aperse lo sportello, e due o tre signori scesi rapidamente dalle altre carrozze formarono siepe. Per un momento si vide come una nube di trine sopra uno scintillío di gomme, una visione che sparve subito.
E tutte quelle ragazze a precipitarsi in sala, finchè la sala ne potè contenere, passando, senza guardarli, in mezzo ai pochi uomini che sorridevano con maggiore o minor discrezione, con una scintilla di vanità fatua in fondo agli occhi; mormorando tra loro mezze parole côlte a volo, più indovinate che intese. Ma quelle parole sembravano fermarsi nell’aria spandendo una nota di scetticismo gaudente sullo stuolo delle ragazze, ridivenute mute nella solennità dell’aula.
Che cosa si aspettava?
Per un malinteso, a un’altra coppia di sposi si aveva fissata l’ora istessa, e la coppia era giunta, lagnandosi di dover ritardare la cerimonia. Appartenevano al contado, avevano il tempo limitato; il conte Colombo, fedele al principio che aveva formato la sua fortuna, non volle assolutamente godere la preferenza, ma la cedette ai poverelli, e insediato coi parenti e cogli amici nella sala attigua a quella dei matrimoni, aspettava il suo turno, come l’ultimo venuto. Discorreva giocondamente col sindaco, intanto che dall’uscio aperto si sentiva la voce del segretario che leggeva il verbale; e l’assessore, rigido, sembrava contare i minuti.
La sposina si avvicinò all’uscio per vedere la coppia che l’aveva preceduta sui due seggioloni di velluto cremisi.
— Che orrore!
Retrocesse, disgustata, portando alla bocca il mazzolino di fiori d’arancio, e corse a rifugiarsi presso la madre.
— Che c’è? — fece la contessa, rizzandosi sulla vita, guardando co’ suoi occhi ardenti cinti di rughe.
— Due mostri. Lui è gobbo, lei avrà quarantanni, e puzzano.
Gli occhi ardenti ebbero un lampo; le narici, dilatate, si agitarono; tutto il volto della contessa prese un’espressione violenta; le guancie, gialle e flosce, incorniciate nel cappello color rubino, arrossirono lievemente. Ma non parlò.
I parenti, gli uomini in piedi, le signore appena appoggiate sulle sedie burocratiche, ciarlavano a bassa voce, impazienti per l’attesa.
— Vi dovrebbero essere due sale per i matrimoni! — esclamò enfaticamente una duchessa discendente dai crociati.
Il conte Colombo, inchinandosi, col suo sorriso fine e furbo, rispose:
— Come nelle stazioni ferroviarie... giustissimo...; ma la legge è uguale per tutti.
— I gobbi portano fortuna — disse il sindaco allegramente.
— Infatti — saltò su una piccola signora magra — io ne tengo sempre uno appeso al braccialetto.
Lo sposo, un tedesco, bel giovane biondo, tutto d’un pezzo, che si trovava un po’ disorientato in mezzo a quel chiacchierio, si chinò all’orecchio della sua fidanzata:
— Che cosa tiene appeso al braccialetto quella piccola signora?...
— Un gobbo.
Vi furono due o tre sorrisi, discreti, repressi dietro le pezzuole di battista.
— A momenti...
Questa parola, pronunciata a bassa voce dal sindaco, corse come un elettrico nella nobile adunanza.
— È la prima volta in vita mia che aspetto — mormorò ancora la duchessa.
In fondo alla sala, la contessa Colombo discorreva animatamente con un vecchio signore ritinto. I suoi occhi gettavano fiamme.
— È un gioco americano; si chiama poker. Una di queste sere ve lo insegnerò.
Dimenticava, parlando di giuoco, il matrimonio della figlia.
In tutti i crocchi, qui, là, continuavano a correre mezze frasi distratte, sorrisi forzati di persone che pensano ad una cosa, volendo mostrare di interessarsi ad un’altra. Gli uomini, col contegno degli impertinenti educati, passando in rivista la sala; freddi e corretti colle signorine, si chinavano famigliarmente all’orecchio delle signore. Fra le signore, qualcuna pensosa, qualche altra triste; qualche altra esaltata, con un’aria di sfida, con qualche cosa di battagliero in fondo agli occhi, che pur sorridevano dolcissimi, tanto dolci da sembrare agli inesperti un’esca.
La continua, ingegnosissima guerra che si fanno uomini e donne, questi nemici che si amano qualche volta per poter tornare a odiarsi con maggior furore, fremeva nell’aula legalmente severa, sotto la maschera delle convenienze.
Ognuno ricordava i disinganni sofferti.
Nei corpetti di raso, piccoli sussulti di seni feriti si smorzavano dolorando; volavano nell’aria i sospiri; antiche ferite gocciavano di sotto i sorrisi; anime perdute, profanate, si dissolvevano spandendo, come albero scosso dalla bufera, i semi d’altre lotte, d’altri disinganni. Sulle fronti d’uomo, travagliate laboriosamente dal pensiero, dove la sfinge della vita aveva impresse le sue orme granitiche, l’incredulità — pianto di coloro che non hanno lagrime — ghignava non meno dolorosamente, e, coll’egoismo dei dannati, faceva festa alle nuove vittime.
Due correnti contrarie si urtavano, sotto una apparente armonia: duetto d’amore in cui le parole erano sentimentali e l’accompagnamento ironico: rito augusto, solenne, dove gli áuguri si guardavano ammiccando.
Teresa Colombo, che in famiglia chiamavano Thea, e Federico von Stern, sedevano ora seri e composti sui due seggioloni di velluto cremisi, ascoltando gli articoli del Codice, vagamente impressionati dalla coppia deforme che prima di loro aveva occupato quel posto.
Da una parte e dall’altra, le signore amiche si mostravano più belle che potevano, nella posa attenta, calma, nel contegno sicuro. Emergevano trionfanti, colle testine altere, da una confusione dolcissima di blonde e di nastri, mescendo le gonne sui divanini stretti, rizzando di quando in quando la fronte per far scintillare il pennacchietto del cappellino o gli orecchini di brillanti.
Due giovinette non avevano voluto prendere posto insieme cogli altri nello scompartimento esposto al pubblico, e se ne stavano mezzo nascoste tra i cortinaggi, sull’uscio della sala d’aspetto. Erano Costanza Jeronima, figlia della marchesa Arimonti, e la sua intima amica, miss Eva Seymour.
Eva, la bellissima, vestita di bianco, teneva il capo appoggiato alla parete, come per languore, per un molle abbandono che accresceva il fascino della persona scultoria; Costanza, un po’ fredda, nella regolarità del volto aristocratico, nel severo abito grigio, le stava al fianco, preoccupata a guisa di persona che non si trova nel suo ambiente.
— Thea è felice oggi.
— Lo credi?
La giovinetta seria girò attorno lo sguardo, abbracciando con una sola occhiata le piume ondeggianti, lo scintillío delle gemme, i sorrisi misteriosi, i sospiri, i susurri, le parole frenate.
— Per te — disse Eva colla sua voce vellutata — la felicità non deve esser facile.
— No. Ho un motto, lo sai?
— Il motto degli Arimonti?
— Quello di Costanza Jeronima: O tutto o nulla.
Disse ciò alteramente, eppur dolcemente, mentre un raggio di luce pura le passò dentro gli occhi.
— Anch’io — continuò Eva a voce bassa — ho un motto: Essere amata.
Costanza riflettè un istante, scosse il capo, e disse rapidamente, con sicurezza:
— Non basta.
Eva tacque. Si era mossa per parlare coll’amica: tornò ad appoggiare la testa alla parete, fissando davanti a sè, nel vuoto, gli occhioni umidi e molli.
Quantunque l’attenzione generale fosse rivolta alla sposa, due o tre uomini si distrassero a guardarla. Sembrava, così immobile a ridosso del muro, un quadro di Giorgione. Aveva i capelli di un biondo intenso, rutilanti di luce, e gli occhi grandissimi, neri, pieni di languore. Pallida la guancia, tornita con quella delicata trasparenza di fiore che è speciale alle persone linfatiche. Una linea ondulata univa la testa al busto, con una continuità di morbidezza, che dava all’attacco delle spalle il rilievo di un disegno perfetto. Dalla fisionomia, da tutto l’insieme, spirava una serenità di persona felice, di nervi calmi, di temperamento bene equilibrato, che era come il compendio e il coronamento della sua plastica bellezza.
Il nome di miss Eva Seymour serpeggiò fra i due o tre uomini, ma venne subito soffocato da un sentimento di convenienza per la solennità della cerimonia.
Le due amiche non avevano detto più nulla, quando all’apparizione di un fantastico cappello color di rosa, esclamarono insieme: Lydia! E di sotto la tesa, audacemente inalzata di quel cappello, rispose a loro un sorriso biricchino.
— Arrivi tardi; è già finito tutto.
— Lo zio non voleva... ho dovuto pregare tanto, tanto.
— Ah! monelluccia — disse Costanza, alzando un dito. — Pensare che tu potevi stare a casa, e che io invece dovetti venire, come parente.
— La gran penitenza! — esclamò Lydia ridendo, cacciandosi in mezzo alle due amiche per guardare nella sala dei matrimoni.
— Non lasciarti vedere, almeno; con quel cappello, farai volgere tutti.
— Se non volete che guardi, ditemi allora che cosa fate qui, sepolte dietro una portiera.
Eva rispose, con una dolcezza misteriosa:
— Ci siamo palesate il nostro motto.
— Avete un motto?
— Fu Costanza.
— E qual è il motto di Costanza?
— O tutto o nulla. Il mio è: Essere amata. Quale preferisci?
Il sorriso biricchino tornò a spuntare sotto il cappello color di rosa, la tesa del quale ondeggiò lievemente dall’alto al basso.
— Ma... non saprei. Il primo è troppo serio, il secondo troppo sentimentale.
— Tu che motto sceglieresti?
— Oh! nessuno.
— Tuttavia?
— Bisognerebbe pensarci.
— Un motto che sintetizzi le tue idee, le tue aspirazioni, capisci?
— Ebbene, se non è altro che questo: Divertirsi! Che ne dite?
Costanza, scandalizzata, ferita quasi, si ritrasse di un passo. Eva, maternamente, le picchiò un colpetto sulle dita:
— Fortuna che nessuno ti sente.
— E se mi sentissero? — replicò Lydia con vivacità. — Non è quello che vogliono tutti?
La cerimonia era terminata. Il sindaco distribuiva sorrisi, augurii e strette di mano, intanto che il pubblico grosso si allontanava, lasciando la sala vuota. Poi anche gli sposi si mossero, ma ricascarono nella folla che stava aspettandoli, schierata nel cortile.
Costanza andò a raggiungere la madre, sedendole a fianco in un landeau chiuso.
— Sei venuta in carrozza tu? — chiese Eva a Lydia.
— No.
— Allora sali nella mia? Noi non facciamo parte del corteggio, non abbiam l’obbligo della parentela come quella povera Costanza. N’è vero, babbo? Ricondurremo Lydia a casa, se lo permetti.
Il baronetto Seymour era molto innanzi cogli anni, tale che sembrava il nonno di sua figlia, ma a vederli insieme si completavano stupendamente; egli, colla bellezza austera di una canizie che serbava ancora qualche cosa dell’antico vigore; ella, splendente come una giovine dea, nell’irradiamento dei capelli d’oro. Avevano entrambi l’espressione robusta e calma della razza anglo-sassone; solo negli occhi della figlia ondeggiava una morbidezza di razza latina, retaggio di sua madre.
A trentanove anni sir Eduardo Seymour non avea ancora amato. I viaggi più arrischiati, le conquiste della scienza, le emozioni della natura vergine studiata nei paesi più belli del mondo, erano bastati a riempire tutta quanta la sua giovinezza. Il mare, questa tenace amante, questa Armida che non lascia più chi fu suo prigioniero, lo attirava costantemente. Sulla tolda di un bastimento, nelle notti stellate del tropico, il baronetto non aveva mai sognata la donna. Fu un inverno, a Napoli, che si innamorò di una povera istitutrice, ed essendo solo al mondo, senza pregiudizi di casta, la fece sua moglie. Un anno dopo dovette perderla. Nei primi tempi aveva creduto di impazzire; ma il suo dolore prese gradatamente la forma di una malinconia perenne. Senza lasciare l’Italia, portò di città in città, dovunque, il lutto della sua povera morta. Un angelo di bambina, sempre vestita di bianco, lo accompagnava; e quando sul volto della figlia egli vide disegnarsi vieppiù spiccate le sembianze della adorata donna, un amore nuovo sorse nell’animo del baronetto — amore e dolore fusi insieme — amore privo di desiderio, dolore confortato da una ineffabile tenerezza — e pellegrinò ancora, attraversando la folla senza guardarla, assorto nella sua tristezza.
Dovunque sir Eduardo passava colla figlia — questo bel vecchio dall’espressione nobile e triste, questa fanciulla divinamente bella — lasciavano una traccia di simpatia, quasi di ammirazione. C’era qualche cosa di fantastico nella realtà della loro esistenza che seduceva. Aleggiava intorno a loro come un’aria d’altri mondi; lo spirito della povera istitutrice, così teneramente amata, così a lungo rimpianta, metteva sulle loro fronti il suggello di una sofferenza segreta e misteriosa.