Lezioni sulla Divina Commedia/Secondo Corso tenuto a Torino nel 1855/II. Malebolge: il regno del vizio, della bassezza, della malizia

Secondo Corso tenuto a Torino nel 1855 - II. Malebolge: il regno del vizio, della bassezza, della malizia

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Lezione II (XXIV)

[MALEBOLGE: IL REGNO DEL VIZIO,
DELLA BASSEZZA, DELLA MALIZIA.
IL SUBLIME IN BERTRAM DAL BORNIO]


Il lettore ingenuo, che senza preoccupazione di scuola o di sistema si abbandona alle sue schiette impressioni dopo di aver con crescente interesse contemplato [le] eleganti figure che sonovi andato mostrando da Francesca da Rimini a Capaneo, quando dal cerchio ultimo de’ violenti, pieno ancora il capo di Capaneo e di ser Brunetto Latini, pone il piede in Malebolge, non può difendersi da un senso misto di maraviglia e di scontento. E i piú dei lettori, leggicchiato appena qua e colá, saltano dritto al conte Ugolino per ritrovare le prime impressioni. In effetti qual è lo spettacolo che loro si para dinanzi nel primo ingresso di Malebolge? Hanno lasciato appena le falde dilatate di foco, e la rena infiammantesi come esca sotto focile, e si trovano in una pozzanghera, che fa zuffa con gli occhi e col naso. Hanno lasciato appena i centauri e le arpie; ed hanno avanti demòni cornuti armati di fruste, come le facevano scoppiettare certi antichi pedagoghi per far paura a’ fanciulli; e come i fanciulli, i dannati scappano alle prime percosse senza aspettar le seconde né le terze. In luogo di Capaneo con la fronte levata, il primo in cui ti abbatti, tiene gli occhi bassi, vergognoso della sua colpa; e Dante, reverente o pietoso finora inverso i grandi colpevoli, maligno e sarcastico qui compone per la prima volta il labbro ad un riso sardonico. Egli chiama [p. 173 modifica]«salse pungenti» quel putridume, «che dagli uman privati parea mosso». In su questo andare è il rimanente del canto. Un altro lo sgrida:

                                                        Perché se’ tu si’ ingordo
Di riguardar piú me che gli altri brutti?
     

E Dante, che lo vede col capo lordo, tanto che «non parea se era laico o cherco», risponde:

                                                        Perché, se ben ricordo.
Giá t’ho veduto co’ capelli asciutti.
.    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .    .

     Ed egli allor, battendosi la zucca:
«Quagggiu m’hanno sommerso le lusinghe,
Di che io non ebbi mai la lingua stucca».
     

Quale crudele puntura è il ricordare a colui di averlo veduto in terra co’ capelli asciutti! E quanta differenza di linguaggio: «battendosi la zucca»! parole plebee ad esprimere nature plebee. La fine corona degnamente il principio. Vi è innanzi una «sozza e scapigliata fante» dagli atti inverecondi. Il vile, il laido spettacolo fa stomaco a’ due spettatori: — «E quinci sien le nostre viste sazie», conchiude Virgilio: abbiamo guardato abbastanza; lasciamo questo letamaio. — Non che pietá o ammirazione Dante non onora costoro neppur del suo sdegno: la musa che qui lo ispira è il disprezzo. Perché tanto mutamento? La scena è cangiata perché gli uomini sono cangiati: sono anime di fango che il poeta fa avvoltolare nel fango. Egli ha voluto qui congiugnere nello stesso castigo due specie di esseri: gli uni, gli adulatori che hanno le opinioni nei loro diversi padroni, che mutano di opinioni come di abiti, vili, ma inchinati, arricchiti, accolti e festeggiati dovunque; gli altri, miserabili esseri, vili ed avuti a vile. Ma innanzi al poeta non ci sono, o non ci dovrebbero essere differenze sociali, e Dante le cancella e pone gli uni accanto agli altri, perché, se l’uno vende il corpo, [p. 174 modifica]l’altro vende l’anima, di cui egli fa una prostituta: in terra tra le ricchezze e gli onori, nell’inferno tra lo stesso letamaio accanto a Taide.

L’Inferno dantesco risplende di un’intera giovinezza per la veritá delle sue concezioni tolte dal profondo della coscienza. Diverso è il lor destino in terra, ma solo in apparenza; perché se un osservatore volgare vede di qua oro ed onori e di lá dispregio, un acuto osservatore che guarda non a quello che si esprime, ma a quello che sta nel fondo della coscienza, vede di sotto agli inchini e sorrisi degli adulati trapelare lo stesso disprezzo, una stessa formola diversamente applicata all’uno ed all’altro: — Io uso di te e ti disprezzo. —

Quale è questo canto, tale fate conto che sia Malebolge: è una situazione nuova da cui germina un mondo nuovo; dagl’incontinenti e da’ violenti noi passiamo a’ fraudolenti. E se volete intendere le nuove corde che qui fa vibrare il poeta, vi è mestieri di affisarvi con me nella situazione che lo ha ispirato.

Vi sono due mondi, o signori. Vi è un mondo in cui l’individuo si manifesta in tutto il rigoglio delle sue facoltá, senza che egli s’intoppi in un ordine sociale esterno, che lo moderi o lo costringa. Non che un ordine sociale vi manchi del tutto; anzi gli elementi interiori che lo costituiscono, religione, patria, libertá, onore, sono in quel tempo passioni gagliardissime, perché ciascuno le trova nella sua coscienza, come parte di sé, e non impostegli dal di fuori, non divenute ancora un ordine di cose esterne che si faccia ubbidire. È il mondo dell’epopea, il mondo di Omero e dell’Ariosto. E vi è un altro mondo in cui tutto è predeterminato e prevenuto, in cui l’individuo sparisce nell’essere collettivo, e dove l’epopea è impossibile; perché quell’insieme sociale che ella dee cantare, è meccanicamente ordinato con la precisione d’un codice, da cui non si può cavare alcuna poesia. Il poeta allora, lasciata la societá, prende per materia i singoli individui, ed esprime il contrasto che scoppia tra individui possenti di passioni e di caratteri e quell’ordine esterno in cui vanno a frangersi, divino o umano, fato o legge [p. 175 modifica]ch’ei sia: di qui il dramma ed il romanzo. E dramma e romanzo sarebbero anch’essi impossibili, se non rimanesse all’individuo un certo campo di libertá; e lo stesso don Chisciotte della Mancia, che esprime il contrapposto tra la prosa giá incominciata della vita ed un mondo poetico ito in dileguo, lo stesso don Chisciotte sarebbe stato impossibile se avesse dovuto errando di luogo in luogo mostrare ad ogni tratto una carta di sicurezza od un passaporto: in questo caso l’eroe alla prima sua prodezza sarebbe stato probabilmente arrestato, e la questura che non s’intende di poesia, avrebbe messo fine al romanzo.

I poeti talora si abbattono in un mondo paetico, e talaltra nella piú vii prosa; e forse non minor ingegno si richiede a descrivere questa abbiezione, che quella grandezza. Dante ha per materia non questa o quella faccia del mondo, ma l’universo intero, non solo ha saputo crear tre mondi essenzialmente distinti, ma in ciascun mondo creare altri mondi, ma di ciascun mondo fare un sole che tiene intorno a sé altri mondi. L’inferno degl’incontinenti e de’ violenti è un mondo poetico, in cui tutto avviene per impeto di passione o per violenza di carattere e noi ammiriamo e ci commoviamo. L’inferno de’ fraudolenti è il mondo scaduto all’ultima prosa; è la passione che si muta in vizio; è il carattere che dechina a bassezza; è la forza che scende a malizia. E che cosa ha in sé di poetico la passione? Perché il vizio è prosaico? La passione ha virtú di muovere, concitare tutte le potenze dell’anima, si ch’elle prorompono al di fuori irresistibilmente; il vizio è la passione risoluta in una abitudine prosaica, una ripetizione uniforme degli stessi atti, un fare perché si è fatto; è l’artista meccanizzato che si chiama artefice; è l’arte profanata che si chiama mestiere. L’uomo mosso da passione spiritualizza quel ch’ei fa, e la sua azione è informata della sua anima, de’ suoi sentimenti; nell’uomo mosso da vizio l’anima dorme, e la sua azione è stupida materia, un atto meccanico, a cui rimane straniera la mente ed il cuore. Da questa mala radice germina tutto il resto. La passione produce i forti caratteri, non essendo altro la forte volontá, il volli e sempre volli e fortissimamente volli, che una passione in continuazione; il vizio [p. 176 modifica]ha per compagna inseparabile la fiacchezza e la bassezza dell’anima, non essendo altro la bassezza che un gettito quotidiano della umana dignitá, una abdicazione di quello che uno ha in sé di uomo, un’apostasia della propria anima. I forti caratteri sicuri di sé hanno per loro istrumento la forza, impetuosi fino all’imprudenza, semplici fino alla credulitá; gli animi fiacchi hanno per loro istrumento la malizia, in cui si rivela la coscienza della loro debolezza, e pipistrelli notturni spesso alle spalle sopraffanno i generosi che non osano di guardare in viso. Il vizio la bassezza e la malizia sono le tre corde, le tre armonie di Malebolge: e qual meraviglia è ora che l’inferno in Malebolge abbia mutato aspetto? Ciascuna poesia ha una superficie mobile, la sua apparenza, il fatto esterno; la superficie dell’inferno dantesco è il luogo la pena i demòni i dannati che è quello solo che apparisce al di fuori; ma di sotto la superficie deve esserci sempre un fondo, che dia a quella la sua figura e il suo colore, le forze interiori, istinti sentimenti passioni idee, onde muovono quelle apparenze e che le spiegano. Tale il fondo, tale la superficie; e qui il di fuori è mutato perché il di dentro è mutato; perché nel fondo non trovi passioni o caratteri, ma vizio bassezza malizia, la depravazione dell’anima, il tripudio della carne. Vedete il luogo. A que’ cerchi indeterminati degl’incontinenti, alla cittá rosseggiante di Dite, nomi e figure terrene, succede un non so che, una cosa senza nome, che il poeta chiama bizzarramente «Malebolge»; una natura piccola e in dissoluzione: ripe scoscese, scogli mobili che fanno da ponticelli, e giú valloni impaludati di tutte le acque infernali, che ivi stagnano putrefatte, valloni angusti, bolge, valigie, borse, che restringendosi piú e piú vanno a metter capo nell’angustia di un pozzo. Vedete i demòni. Alle figure classiche e severe di Caronte, Cerbero, Minos, Pluto, delle furie, dei centauri, delle arpie, vigili esseri irosi e passionati, succedono diavoli abbietti, che si mescolano in ignobili parlari con la gente abbietta simile a sé, e canzonano e sono canzonati, maliziosi, bugiardi, plebei, osceni, e non fo citazioni, e voi sapete il perché. Vedete le pene. Al vivo movimento delle bufere, delle grandini, a’ sepolcri in [p. 177 modifica]fiammati, alle malinconiche selve, succedono quanti strazii di carne umana vi mostra un campo di battaglia, quante schifose malattie trovate in uno spedale. Vedete l’uomo. La faccia umana finora è rimasa inviolata; innanzi alla nostra fantasia la passione invermiglia il volto di Francesca, e la grandezza dell’anima si rivela nell’uomo che si leva diritto dalla cintola in su. Qui la faccia umana sparisce: sono caricature e sconciature di corpi. Uomini imbucati, capo in giú, piedi in aria; volti travolti in sulle spalle, sí che il pianto scenda giú per le reni; visi, occhi e corpi imbaccuccati ed incappucciati; musi umani fuor della pegola a modo di ranocchi; corpi smozzicati e accismati, altri marciti e putridi, scabbiosi, tisici, idropici; si comincia con la frusta e si finisce con lo spedale. Quando ci si fa innanzi un uomo plebeo, nella cui stupida faccia sono impressi i suoi istinti bestiali, talora domandiamo a noi stessi: — È costui un uomo o una bestia? — Costoro non sono ancor bestie, e l’uomo giá muore in loro:

                                    Che non è nero ancora e ’l bianco muore.      

Sono figure miste in una faccia tra bestiale e umana; e la piú profonda concezione di Malebolge è la trasformazione dell’uomo in bestia e della bestia in uomo; e l’eroe di Malebolge è Vanni Fucci che non solo è bestia ma si sente bestia, e con la coscienza congiunge la sfacciatezza. Ma, mi direte, che cosa vi è dunque di serio e di grande in Malebolge?

Due sole cose, o signori, il fatto esterno ed una persona. Il fatto esterno è la colpa. Vi sono uomini vili, onde nascono grandi delitti. Vedete lá un popolo glorioso giá di libertá e di potenza, incurvo e carezzevole a chi lo calca; e rovine fumanti di sangue ed avvolte nelle fiamme: la vista di quel popolo è straziante, la vista di quell’incendio è sublime. Ma se volete che questo spettacolo rimanga sublime e pietoso, arrestatevi alla superficie; non mi domandate piú oltre. Perché, se io vi dicessi quanto piccolo è l’uomo, che sparse quel sangue e destò quelle fiamme; se io vi dicessi che quell’uomo è Nerone, la [p. 178 modifica]vergogna della razza umana, ciò che la plebe ha di piú feroce e abbietto fatto uomo e vestito di porpora; una subita reazione succederebbe in voi, e la pietá e il sublime resterebbero sepolti sotto il disprezzo e lo schifo. Vi sono grandi mali fatti da piccoli uomini; e se voi volete raggiugnere la grandezza, voi dovete mostrarmi l’incendio e mostrarmi la mano, unica specie di sublime che rimane a Malebolge. È il sublime di Bertram dal Bornio; o piuttosto è il sublime di un busto senza testa. Nelle parole che il poeta gli pone in bocca, vi è la colpa e il castigo; niente vi è che riveli il suo carattere, le vili passioni che lo spinsero al delitto, i piú vili mezzi che pose in opera. Vi è la colpa, vi manca il colpevole. Il sublime preparato dal poeta, che ha innanzi agli occhi quello spettacolo e non si assicura di dirlo al lettore, è posto in quel busto che cammina come un uomo vivo, e che si fa lanterna di un capo tronco che tiene per le chiome; è posto in quel capo mozzo, vivo, che guarda e dice: «Ohimè»; è posto nell’insieme che si spiega successivamente allo sguardo. Un busto ed un capo sono le due parti in cui naturalmente si divide il corpo umano, di cui l’una richiama l’altra; se vedi in un quadro una testa, la fantasia appicca il busto a quella testa; se vedi una statua senza capo, la fantasia appicca il capo a quella statua. Prima ci è innanzi il busto che tiene un capo «pesol per mano», e quel busto ci pare un essere distinto dal capo; poi quel capo mozzo ci è innanzi, e quel capo ci pare un essere distinto dal busto. Il sublime è nella idea stessa della divisione, che è nella colpa, e che è resa visibile nella umana persona, si che il buon senso ti dice: — È una — e l’occhio ti risponde: — Son due. — Aggiungete a questo spettacolo le cervella, il sangue ed i nervi, ed il sublime traligna nel disgustoso. Dante se ne è ben guardato. Questo canto degli scismatici è uno spettacolo disgustoso, ma di modo che dalle minugia e dalla corata, passandosi per la figura non ignobile di Mosca Lamberti, il disgusto si purifica e si idealizza fino al sublime dell’orrore: è una materia putrida che si organizza a poco a poco, insino a che ne scintilla una sublime creazione. Vi è una scuola moderna, la quale, reagendo alle freddure arcadiche, ci mostra [p. 179 modifica]Taide nel suo regno, e il sangue e la marcia di ogni ferita e tutte le convulsioni della morte: è il sublime di Farinata scaduto nel sublime di Bertramo, è il sublime di Bertramo calato giú fino alle minugia e alla corata; non è il disgusto che si purifica nel sublime, ma è il sublime che si sporca nel disgusto; è la poesia trasportata nelle piú basse regioni di Malebolge. Due cose serie sono in Malebolge: la colpa ed una persona. Quale sia questa lo vedremo nell’altra lezione.