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i88 secondo corso tenuto a torino: lez. iii


era troppo nobile e sdegnoso e non sapea indugiare con pazienza lo sguardo sulle umane fralezze: il suo sorriso è amaro; di sotto alla facezia spunta il disdegno, e spesso nella mano la sferza gli si cambia in pugnale. Quando il difetto gli comparisce dinanzi alla fantasia, non vi riposa su lo sguardo, ma ne lo torce sdegnoso; sicché il comico gli esce abbozzato e crudo, e non idealizzato fino alla caricatura. Quando leggiamo nell’Ariosto una descrizione seria, non ci arrischiamo a comporci in serietá, perché ci par di vedere l’autore con quel suo riso in bocca, che esca in una facezia. Quando leggiamo in Dante alcuna cosa ridicola, non ci avventuriamo a ridere, perché ci par di vedere l’autore con quella sua faccia severa che ci sgridi di questa debolezza. Noi abbiamo riso alle parole di maestro Adamo; ma guai se Dante fosse presente! Poiché egli si fa correggere da Virgilio, non dico di aver riso, ma di aver potuto ascoltare quelle ignobili parole. In mezzo a queste scene plebee egli sta a malincuore, e gli fa mille anni di uscirne. Ma quando il difetto si trasmuta in vizio, e provoca la collera ed il disprezzo, noi troveremo Dante nel vero suo campo. Del che nell’altra lezione.