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i54 primo corso tenuto a torino: lez xxi


rimorso di aver potuto come capoparte esser molesto alla sua patria, alla sua «nobil patria». Breve momento. E quando si vede dappresso quell’uomo e lo ha squadrato e non lo ha conosciuto, lo guarda quasi sdegnoso, sospettando non forse appartenesse al partito contrario al suo. Sublime inconseguenza che contraddice alla logica, ma ritrae dal vero il cuore umano che è il centro di tutte le contraddizioni. Quell’uomo che poco innanzi sentia rimorso di avere con le sue passioni turbato Firenze, quest’uomo un momento appresso si sente invadere dalle stesse passioni: non basta piú a Dante d’esser toscano; per trovar grazia appresso a Farinata bisogna ch’egli sia ghibellino: «Chi fûr li maggior tui?». In que’ tempi di tanta energia il partito non era solo legame d’opinione, ma ereditá di famiglia: tale il padre, tale il figliuolo:

                                         .    .    .    .    .    .    Chi fûr li maggior tui?

     Io ch’era d’ubbidir desideroso,
[Non gliel celai, ma tutto gliel’apersi;
Ed ei levò le ciglia un poco in soso,

     Poi disse: Fieramente furo avversi
A me, ed a’ miei primi, ed a mia parte;
Ond’io per duo fiate gli dispersi.]
     

In che è posta qui la bellezza della poesia? Forse in quel brusco; «Chi fûr li maggior tui?» o in quell’atto cosí significativo di altero corruccio: levar le ciglia in su? o forse in quell’unificare ch’ei fa sé e i suoi primi e sua parte? o in quel verbo solitario e staccato, che nella sua sprezzante rapiditá ci ricorda il veni, vidi, vici di Cesare? In tutto questo o, per dir meglio, nel fondo stesso della concezione saputa afferrare di un getto, dalla quale scaturiscono tutte queste peculiari bellezze, in quel misto di passione e di forza in che è posto il carattere di Farinata. Onde la maravigliosa concordanza de’ gesti e delle parole, che si comentano a vicenda: i gesti brevi e risoluti; il dire rotto, brusco, imperativo di un uomo d’opera e di comando; è la forza