Lezioni sulla Divina Commedia/Primo Corso tenuto a Torino nel 1854/XIX. Fusione dei vari elementi nel Canto III

Primo Corso tenuto a Torino nel 1854 - XIX. Fusione dei vari elementi nel Canto III

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Lezione XIX

[FUSIONE DEI VARI ELEMENTI NEL CANTO III]


La natura soprastá immobile ed in differente al vario giuoco delle umane passioni: disaccordo che alcuni poeti sonosi sforzati di vincere chiamandola a parte delle umane miserie, come quando innanzi al convito delle membra tiestèe il poeta grida al sole: — S’arresti e si veli la faccia di lutto — ; disaccordo che altri accettano come espressione d’una disarmonia piú alta, della indifferenza del fato a’ dolori umani:

                                              Roma antica ruina;
Tu si placida sei?.....
               

Nell’inferno dantesco il disaccordo è cessato: la natura è un teatro, che il poeta ha accomodato alla rappresentazione che vuol darci, fatto a soggiorno ed a pena del peccatore ed immagine ella stessa del peccato. Simile del demonio. Il demonio dantesco non è il rivale di Dio, il principio del male che si pone di rincontro al bene; egli è caduto si basso che a prostrare la sua ira bestiale basta il solo annunzio del volere divino:

                                    Vuolsi cosí colá [dove si puote
Ciò che si vuole, e piú non dimandare.]
               

Egli non è neppure l’angelo caduto, grande ancora per la memoria della prisca grandezza, maestá nell’orrido, come lo ha concepito il Tasso: [p. 128 modifica]

                                         Orrida maestá [nel fero aspetto
Terrore accresce, e più superbo il rende;
Rosseggian gli occhi, e di veneno infetto,
Come infausta cometa, il guardo splende;
Gl’involge il mento, e su l’irsuto petto
Ispida e folta la gran barba scende;
E in guisa di voragine profonda
S’apre la bocca d’atro sangue immonda.]
               

Nessun vestigio in lui del divino, dell’angelico e neppur dell’umano; egli è il male vuoto di tutto ciò che lo nobilita nell’uomo, di carattere, di passione, ecc.

Ne’ gruppi umani comincia a comparir l’uomo non l’uomo intero, l’uomo individuo dotato delle più diverse qualitá; ma unitá collettiva onde è sbandita ogni parte individuale e sociale, comunanza del peccato, dove rimane solo il sentimento generale della colpa commessa espresso in un modo generale anche esso: un grido, un gesto, un movimento.

Questi elementi, che io vi sono andato mostrando, volete ora vederli fondersi, entrare gli uni negli altri come è la poesia nella sua veritá? Leggete il canto terzo di Dante.

Il canto terzo è quello in cui l’inferno si affaccia la prima volta alla fantasia del poeta. Dante sta innanzi ad una porta; l’inferno è ancora in lontananza; niente veggono i suoi occhi, tutto la sua immaginazione: condizione poetica favorevole come è giá detto, la quale congiunta con la freschezza della prima impressione ci spiega perché il poeta qui siasi levato a tanta altezza, che questo può ben chiamarsi il canto del sublime. Qui troverete raccolti tutt’i tratti del sublime che io vi sono andato sparsamente disaminando; qui la scritta, cioè a dire l’eternitá, Dio, la disperazione, quanto di sublime ha l’inferno; qui Caronte dal pelo antico e dagli occhi di bragia; qui gli uomini morti nell’ira di Dio bestemmianti ed imprecanti. Questi tratti non ve li ripeterò io giá; ben piacemi di fare un’osservazione sull’insieme del canto. Il canto terzo è il vero principio dell’inferno, non essendo gli altri due che precedono se non [p. 129 modifica]esposizione d’antecedenti. Vi sono certe nature d’ingegni i quali non si sanno scaldare d’un tratto; i quali veggono dapprima il loro argomento in una lontananza confusa ed oscura; la luce non è fatta ancora nella loro anima; ma come ei procedono oltre e sentono piú e piú un dolce calore, e si animano e si innamorano della loro concezione, e solo allora il lettore prende anch’egli interesse per quello che legge. Tali sono per lo piú i primi atti delle tragedie classiche, e molti romanzi, i quali dopo i primi capitoli smetteremmo dal leggere se non fosse la speranza d’esserne ristorati in appresso. Questa maniera speciale di procedere, innalzata a regola assoluta, ha dato origine alla pedantesca interpretazione della legge oraziana che ei si vuol cominciare rimessamente e che si dee procedere non dalla fiamma al fumo, ma dal fumo alla fiamma. Confesso che Dante e con lui tutti gl’ingegni di prim’ordine hanno ben poco sentito di questa modestia oraziana; anzi proprio de’ grandi ingegni è d’investir l’argomento nel bel mezzo e mostrar fin da’ primi tratti che esso sta giá tutto intero innanzi alla loro fantasia.

E qui un’osservazione: io amo le opinioni nette. L’Arte poetica di Orazio rimarrá sempre il codice del buon gusto; in essa e nella Poetica di [[Autore:Aristotele}|Aristotile]][[Categoria:Testi in cui è citato Aristotele}]] è una vita tenace che soprasterá a tutte le polemiche; vi è stato un tempo in cui la critica moderna per far trionfare le proprie idee credette di attaccare tutt’i grandi maestri dell’antichitá; questo tempo è passato; ed oggi i piú illustri pensatori sono unanimi nel riconoscere la bontá intrinseca della critica antica nel campo in cui si è collocata; e cosí fanno segno che la critica nuova ha giá vinto; poiché solo quando si è forti, si passa dalla vivace polemica al calmo dommatismo, e si è moderati ed equi con i proprii avversarii: malgrado l’apparenza contraria che impone al volgo, vi è una violenza che è debolezza, ed una moderazione che è forza.

Ma ritornando al terzo canto, in che modo dee cominciare un lavoro? Alcuni vi pongono per principio un indeterminato vuoto di contenuto, una di quelle badiali generalitá che certuni si preparano innanzi per ogni occasione; altri, correndo [p. 130 modifica]all’estremo opposto, consigliano che lo scrittore compia prima il suo lavoro e poi vi si appicchi il principio, come se lo scrittore debba avere il disegno innanzi colorito finito ne’ suoi minimi particolari. Il principio non deve essere né il pensiero vuoto né il vuoto particolare; e dico pensiero vuoto quello in cui non è alcun vestigio concreto del lavoro; e dico vuoto particolare quello che esprime solo se stesso senza relazione all’unitá dell’insieme; il principio deve essere un germe pieno di vita, impaziente di svilupparsi, dove si veggano trasparire tumultuose ed in abbozzo tutte le forme future che vi dará il poeta ed in cui quel germe dovrá divenire un corpo. Vedetelo in voi; ciascuno si è sentito poeta in qualche momento della vita. E quando innanzi a qualche straordinario spettacolo di bellezza la nostra fantasia si esalta e noi ci sentiamo gittati in una situazione ideale, che cosa avviene allora in noi? Tosto ci si para innanzi un mare tumultuoso di forme, ma abbozzate, nessuna finita, vagando la fantasia in quel primo rapimento d’una in altra senza posare in alcuna; e pure in quel mare mobile vi è alcun che di físso, che dá a tutte le forme lo stesso colore, e fa che tutte sieno malinconiche o gioviali, tragiche o comiche, secondo lo spettacolo che ci è innanzi e l’ideale onde siam caldi. Vedetelo nel canto terzo. Voi non vi troverete che lineamenti generali, poche linee solamente; ma in queste linee è tutto l’inferno; ma tutto quello che viene appresso altro non è se non queste stesse linee che si vanno a poco a poco determinando e prendendo questa e quella figura. Che cosa è l’inferno fisico? «Una cittá dolente». E il sentimento delle anime? «Eterno dolore». E i peccatori? «Perduta gente». E Dio, il fato che spanderá tanta solennitá sopra i supplizii, che cosa è egli mai? «Alto Fattore». E quanto d’eloquente [il poeta] porrá in bocca a’ suoi personaggi, che cosa è qui? «Sospiri, pianti, tumulto di suoni e di bestemmie». Guardatevi però dal credere che tutto questo non sia se non un vuoto indeterminato. Dicono che l’indeterminato sia una condizione del sublime. Intendiamoci bene. L’indeterminato per sé non è che una vana astrazione; l’indeterminato sublime è gravido di contenuto, e dee svegliare [p. 131 modifica]in noi mille determinazioni confuse; il sublime consiste meno in quello che è espresso che in quello che è sottinteso. E se cosí non fosse, perché qui tanta solennitá di forma? perché tanta elevatezza e dignitá di stile, una nobiltá che è improntata fin sulle rughe del vecchio Caronte? Perché lo scrittore è giá pieno e caldo del suo subbietto; perché egli vede piú di quello che esprime; perché quando dice «cittá dolente», certo egli non vede ancora tutte le determinazioni che dovrá darle, ma giá in confuso gli fermentano avanti quelle selve, que’ laghi e quelle rovine; perché quando dice «perduta gente», giá gli stanno innanzi i Bertrami, i Brunetti, i Filippi, i Bonifazii, che egli non sa ancora dove collocare e come punire, ma che gli stanno giá a’ piedi, trepidi aspettanti il marchio che loro porrá sulla fronte. E ne volete un’altra prova? Egli descrive il guaire de’ negligenti. A che tanto lusso d’immagini e tanta vivacitá di descrizioni, egli che ne è cosí parco nel ritrarci le grida ben altrimenti feroci, ben altrimenti lamentevoli de’ grandi peccatori? Me ne appello alla vostra impressione: chi di voi in quel primo apparir dell’inferno innanzi alla vostra immaginazione, leggendo: «Diverse lingue, orribili favelle» ha pensato mai a’ negligenti? No, no; non sono i negligenti che gridano in quel momento: è tutto l’inferno che manda il suo primo grido all’orecchio attonito del poeta e nostro. Ed onde tanta formidabile uniformitá in questo canto? Si è ciò detto de’ primi tre versi in cui l’uniformitá è meccanica; l’osservazione si dee allargare: tutto il terzo canto non è che una sola nota musicale, la quale ci giunge all’orecchio diversamente graduata. Perché questa uniformitá? Perché i diversi tratti di sublime non sono che diverse facce d’uno stesso ideale che fluttua dinanzi al poeta, il quale in quel primo separarsi dalla vita e porre il piede nella regione infernale vede nell’inferno il regno della morte, «della morta gente». È l’albero della vita che il poeta ti sfronda a foglia a foglia ad ogni passo che muove innanzi; e ne toglie la speranza:

                                    Lasciate [ogni speranza, voi ch’entrate.]                
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E ne toglie le stelle:

                                    Risonavan [per l’aer senza stelle.]                

E ne toglie [il tempo]:

                                    [Facevano un tumulto, il qual s’aggira]
Sempre in quell’aere senza tempo tinto.
               

E ne toglie il cielo:

                                    [Non isperate mai veder lo cielo.]]                

E ne toglie l’intelligenza:

                                    [C’hanno perduto’l ben dell’intelletto.]                

Poesia a grandi tratti, che nel suo indeterminato terribile contiene assai piú che non le determinate, e quindi prosaiche descrizioni funebri di Young nelle sue Notti e nel suo Giudizio universale.

Questi tre elementi, qui fusi in un solo ideale, sono il piedi stallo, immenso piedistallo, sul quale il poeta pone la statua.

Ci ha imitazioni vecchie e nuove della Divina Commedia: i Trionfi del Petrarca, l’Amorosa Visione del Boccaccio, la Bassvilliana, le Notti romane. Delle quali difetto principale è la mancanza del piedistallo: ben ci trovi un non so qual regno d’amore, un angelo che guida Bassville, delle tombe che si aprono; ma tutto questo non ha alcuna serietá; sono balocchi a’ quali gli autori non credono e co’ quali si trastullano; niente vi è di quel serio che fa tremare la mano dell’artista, niente di quel serio che rende «magro» il volto del poeta, seppellitosi tutta intera una vita in un mondo invisibile che egli ci ha reso vivo e presente come la terra che calpestiamo co’ piedi. Manca il piedistallo: vi è almeno la statua? La statua è necessitá in un lavoro d’arte; il personaggio principale è quello nel quale l’ideale — nella natura materia, nel demonio istinto, ne’ gruppi sentimento generale — acquista personalitá, libertá, passione; [p. 133 modifica]è l’ideale fatto uomo l’ultimo giorno della creazione. La statua ha il suo corteggio obbligato, esseri secondarii che fanno cerchio al protagonista, e de’ quali alcuni esprimono a frammenti quella idea che intera esprime il personaggio principale. Guardisi il pittore di dare attitudini troppo scolpite, guardisi il poeta di dar rilievo e colore a queste figure secondarie; dar rilievo a tutto, come fanno i cattivi declamatori, è dar rilievo a niente; e spesso non vi è cosa che abbia maggior significato quanto il sapervi mostrare una figura insignificante. Il che va detto a’ superstiziosi di Dante che vanno pescando in ciascuna sua sillaba un senso riposto, come coloro che nelle liste d’eroi posti in Limbo fantasticano non so quale sistema di stirpi antiche. Il significato di queste liste è di non aver nessun significato; serie di nomi, come se ne trova in buon dato presso tutt’i poeti epici, a cominciare dal vecchio Omero; serie di nomi che sono come i contorni, il fondo e le ombre di un quadro, o come nella natura l’indeterminato spazio celeste, in mezzo alla cui indifferenza spiccano la luna e le stelle. Nondimeno il poeta può e dee, veggendosi passare davanti queste facce insonnate, segnarne qualcuna in fronte che tutti la riconoscano; tocca e passa; il permanente colto in una sola pennellata. Di questi tratti ce ne ha molti in Dante, ed alcuni proverbiali. (Esempii):

                                    Cesare armato [con gli occhi grifagni.]

[Vidi] il maestro [di color che sanno.]

Il signor dell’altissimo [canto]

[Eli’ è] Semiramis, [di cui si legge
Che succedette a Nino e fu sua sposa.]

E per dolor non par lagrima spanda.

Vedi come si storce e non fa motto.]
               

Tratti talora sublimi, quando in un gesto trasparisce tutto un carattere, tutta una vita; e cosí quando il poeta dice: [p. 134 modifica]

                                    Vedi [come si storce e non fa motto]                

noi immaginiamo l’animo eroico di Bruto che serba la sua incrollabile fierezza anche nella bocca di Lucifero; e quando dice:

                                    E per dolor non par [lagrima spanda],                

ben ravvisiamo l’aspetto reale d’un magnanimo, di Giasone, che sappiamo distinguere dalla vii turba in mezzo a cui si trova, di mezzani e di seduttori, di frustati e di frustatori. Questo che in Dante è un momento appena osservato è il tutto nelle sue imitazioni, serie d’individui che appariscono e spariscono, di cui non sopravvivono che alcuni tratti felici, come:

                                    Primo pittor delle memorie antiche.
Un gran delirio che chiamò sistema.]
               

Né eccettuo le Notti romane; ma le muse furono avare de’ loro doni coll’economista, col cittadino, con l’uomo dabbene; ed il Verri non sapendo cogliere la veritá spesso l’ha caricata ed esagerata: non sapendo farla bella l’ha fatta ricca.

La preminenza della poesia dantesca è ne’ personaggi principali di cui raro è che alcun canto sia del tutto senza. Ne’ cerchi degl’incontinenti è punita la lussuria, la gola, l’avarizia, l’ira e l’accidia: di questi peccati ce ne ha alcuni cosí abbietti, che ei non si può concepire come si possano rappresentare altro che comicamente; e certo il goloso, l’avaro, l’accidioso sono tipi comici conosciuti, da’ quali Molière, Goldoni ed altri hanno saputo cavare eccellenti effetti. Dante non lo ha fatto; sapeva egli farlo? Vedetelo nel Purgatorio: ivi troverete Belacqua poltrone, dagli atti pigri e dalle corte parole, che guarda capo in giú tra le gambe, piú negligente «che se pigrizia fosse sua sirocchia»: ivi troverete tra i golosi un papa, che sconta col digiuno le saporite anguille di Bolsena, delle quali si mostrò ghiotto in vita. Ma qui tutto è serio; il comico giace nel fondo [p. 135 modifica]per dover risalire su in Malebolge. In effetti Ciacco non è un goloso ma un personaggio storico: bene egli parla del suo vizio; ma in che modo?

                                         Voi, cittadini, mi chiamaste Ciacco:
[Per la dannosa colpa della gola,
Come tu vedi alla pioggia mi fiacco.]
               

Qui il vizio è narrato non rappresentato; ed in poesia ciò che è narrato è indifferente; solo ciò che è rappresentato ha un significato: il significato di questi versi è d’egsere insignificanti. E cosí, quando [Dante] ci pone davanti gli accidiosi, egli non degna di nominarne neppur uno; e come sapete, il riso ha luogo solo quando si scende nel particolare: il generale può esser talora sublime, ridicolo non mai. Lasciando dunque da parte tutto il comico, quantunque il soggetto ve lo allettasse, egli si innalza per contrario a quanto il tragico ha di piú alto e lo spirito di piú elevato. E quale figura gli si afEaccia la prima dinanzi! Percorrete tutto il Paradiso dantesco, e voi non troverete un’anima cosí bella, cosí gentile, cosí pura, come Francesca da Rimini: è una visione di paradiso che troviamo all’ingresso dell’Inferno. La passione ha virtú di rendere un infinito, un Dio l’obbietto del desiderio: tutto l’universo va a concentrarsi nelle labili forme d’un individuo. L’universo dell’amante è l’amato, del goloso il cibo, dell’avaro è l’oro. Rifate ora il cammino. Stracciate la benda che vi vela gli occhi; spogliate quell’obbietto de’ vaghi colori che la vostra fantasia gli ha prestati; ed esso non vi basta piú; e l’orizzonte vi si allarga, e voi salite alla patria, all’umanitá, all’universo, a Dio. Si è disputato se il fondo della poesia debba essere l’individuo in cui si raccolga l’universo, o Dio, il fato che soprastia a tutte le cose. Inutili dispute! La poesia come l’umanitá dee percorrere tutt’i circoli della esistenza, dal piú umile individuo infino all’altezza di Dio; onda perenne d’inganni e di disinganni; l’inganno costituisce tutta una epoca di poesia; il disinganno produce la morte dell’una e porta in sé il germe della [p. 136 modifica]vita d’un’altra. Dante in Francesca da Rimini ha deificata la passione; nel canto degli avari l’ha annullata. La passione dell’avaro è l’oro; una briciola d’oro è l’universo dell’avaro; ed ora?

                                    ... Tutto l’oro ch’è sotto la luna,
[E che giá fu, di quest’anime stanche
Non poterebbe farne posar una.]
               

In questo momento di disinganno, che si presenta a Virgilio e a Dante allo spettacolo dell’inferno, dove la passione è spogliata di tutta quella brillante sofistica, che la rende si seducente in terra, l’individuo sparisce e germoglia una nuova specie di poesia, la quale potrei chiamare la poesia de’ tempi moderni, in cui l’individuo non è se non espressione e simbolo dell’eterno che chiude nel seno. Voi vedete famiglie, genti, imperi agitarsi, perseguirsi, succedersi sotto il calmo riso della Fortuna, che non gli ode e «lieta volve sua spera».

Nel cerchio degl’irosi Dante coglie la passione nel suo interno organismo: ciascuna passione ha in sé un dualismo costante, il bene e il male; concetto profondo che E. Sue ha rappresentato giovenilmente ne’ suoi Sette peccati mortali. Avete due irosi di rincontro: Filippo Argenti e Dante; l’ira nell’uno è furore bestiale, l’ira per l’ira, espressa co’ violenti medi d’un cane in rabbia: «Via costá con gli altri cani»; nell’altro è il santo sdegno che accende l’uomo onesto allo spettacolo della malvagitá; l’uno il poeta chiama «bizzarro», l’altro «alma sdegnosa»; è l’antagonismo interno della passione rappresentato al di fuori in due personaggi distinti.

Tali sono le tre figure principali ne’ cerchi degl’incontinenti: Francesca da Rimini, la Fortuna, Filippo Argenti.

Cominceremo da Francesca da Rimini.