Lezioni sulla Divina Commedia/Primo Corso tenuto a Torino nel 1854/XIV. Gradi della depravazione

Primo Corso tenuto a Torino nel 1854 - XIV. Gradi della depravazione

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Primo Corso tenuto a Torino nel 1854 - XIII. Come Dante ha trasformato il brutto? Primo Corso tenuto a Torino nel 1854 - XV. La passione tra l'indifferente e il brutto
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Lezione XIV

[GRADI DELLA DEPRAVAZIONE]


Vi ho esposto il concetto generale dell’inferno, la depravazione dell’anima: oggi vi mostrerò il concetto ne’ suoi momenti successivi: la progressiva e graduata depravazione dell’anima. Qual è l’ordine con cui l’inferno procede? e vi è ordine nell’inferno?

Quando noi ci poniamo a leggere un romanzo, un poema, per es. la Gerusalemme liberata, il Paradiso perduto di Milton, la Messiade di Klopstok, non possiamo deporre il libro prima di esser giunti alla fine, sentiamo un bisogno di percorrerlo tutto perché l’azione procedendo in mezzo a contrasti genera curiositá, e sospensione crescente. Al contrario è ben difficile che anche un uomo molto paziente legga molti canti di seguito della Divina Commedia, perché non vi è azione, ma quadri staccati, di cui ciascuno è compiuto per sé: quando prendiamo interesse per un personaggio, sparisce per dar luogo ad un altro: è come una rapida fantasmagoria in cui paesi succedono a paesi, figure a figure. Questo difetto di azione, di interesse, di curiositá, di sospensione è un rimprovero che un traduttore francese di Dante ha fatto alla Divina Commedia, senza comprendere che questo procede da necessitá di suo argomento. Nel regno dell’immobile e dell’immutabile l’azione sarebbe un controsenso: egli non ha voluto sforzare il suo argomento introducendo un’azione che non potea patire. Che anzi quell’azione stessa, o meglio apparenza di azione che vi è, il viaggio di Dante, l’ostacolo che vi trova [p. 91 modifica]da parte dei demòni, il favore che gli presta il cielo, è da lui gettato nell’ombra: perché egli sentiva quanto ridicolo sarebbe stato se avesse messa la sua storia particolare innanzi a quella del genere umano, avesse fatto sé protagonista innanzi all’infinito. L’azione non esiste in lui. Come ha supplito a questo difetto?

Questo concetto che non si spiega per azioni umane, non è immobile, non ripete se stesso dal primo all’ultimo canto: ma ha un prima ed un poi: è lo spirito che si va sempre piú e piú materializzando. Ma quale è il fondamento di questa successione: quale la legge di questo poco a poco? Che ordine Dante ha introdotto negandosi quello dell’azione? Egli ha incontrato qui una difficoltá grandissima. Immaginare un’azione e contornarla d’episodii è cosa a cui basta l’ingegno ordinario. Un giorno alcuni uomini raccolti in un giardino dopo mangiare si posero a disputare di poesia e di poeti. Alcuni, come sogliono gli uomini volgari, esprimevano la loro meraviglia che Ariosto avesse saputo raggruppare tante azioni, immaginare tanti episodii: sorse tra i disputanti il Forteguerri e sostenne che questo immaginare episodii ed azioni era impresa tanto facile che prometteva di recare in pochi giorni a termine un poema ancora piú ricco di fatti. Questo poema fu pubblicato ed è il Ricciardetto, ricchissimo veramente di fatti meravigliosi e bizzarri. Ad una sola cosa non pose mente il Forteguerri: che il meno difficile è il concepire: ma nel creare, dare vita è il difficile; in quella operazione che i latini chiamano dettare. Qui è dove tra l’Ariosto e il Forteguerri passa una differenza grandissima. Quando si trova l’ordine giá dato nell’azione, il resto cammina da sé. Ma come si fa quando il concetto è impossibile a svolgersi per azione? Qui si arrischia di cadere in uno scoglio: di cercare l’ordine nel pensiero astratto, che non ha ordine di azioni ma di pensieri: di dare pensieri in luogo d’immagini, sostituire al racconto la scienza. Dante non potè evitare questo scoglio: egli aveva dinanzi a sé un poema nuovo di cui non vi è esempio nella vecchia o nella nuova letteratura. Non vi era caso che presentasse questa gradazione con cui lo spirito [p. 92 modifica]si perde nel corpo. Dottissimo come egli era nella scienza de’ suoi tempi, egli chiese alla scienza la legge di questa successione: ed invece di ispirarsi alla poesia ci diede una teoria scientifica de’ delitti e delle pene secondo la filosofia e la teologia, Aristotile e S. Tommaso. Due difetti nascono da questa situazione: uno per la forma, e l’altro per la cosa in se stessa. Una volta fondato l’edificio poetico sopra una teoria scientifica, egli dovrá interrompere l’azione per venire fuori con elementi didattici: dovrá darci una spiegazione scientifica di quella legge morale: esporci il perché ad un tale delitto è dovuta una tale pena. Quanto dispiace il vedersi interrompere l’interesse che giá cresce: il vedere discendere Farinata dall’alto piedistallo dove è collocato dal poeta per dargli spiegazioni sulla natura della loro pena! Questo inconveniente si fa ancora piú sensibile quando il poeta Virgilio, chiamato dottore per bocca di Francesca da Rimini, alza per cosí dire cattedra di filosofia e di morale. Difetto ancora piú grave è quello che riguarda la cosa in se stessa, l’essenza stessa della situazione. Egli accade spesso che la teoria scientifica dá un interesse morale che non è d’accordo con l’interesse poetico. Spesso un delitto gravissimo dal lato morale desta un interesse grandissimo per la poesia: od al contrario. Vedete i poltroni che sotto il punto di vista morale sono trattati benignamente: dinanzi alla poesia sono crudelmente trattati piú che l’ultimo peccatore. Questa contraddizione non può a meno di turbare la poesia. E tuttavia è interessante di vedere un uomo alle prese con una falsa situazione, specialmente quando ne esce vincitore. In che modo cerca Dante di emendare questo doppio difetto nella forma e nella cosa? Quanto alla forma egli ebbe il buon senso di raccogliere tutta la teoria scientifica in un canto solo, per non essere costretto ad interrompere lo spettacolo, o, come egli dice «la vista».

                                         Figliuol mio, dentro da cotesti sassi,
Cominciò poi a dir, son tre cerchietti,
Di grado in grado, come quei che lassi.
               
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                                         Tutti son pien di spirti maledetti;
Ma perché poi ti basti pur la vista
Intendi come e perché son costretti.
                                                                 Canto XI
               

Chi vuole nell’interesse puramente scientifico studiare questa teoria de’ delitti e delle pene, vedrá che egli ha saputo modificare ed addolcire le teorie crudeli che allora correvano: apra l’XI canto e vi troverá un’evidenza straordinaria (se in Dante non fosse ordinaria) con cui sa rendere chiari i concetti più. difficili. Egli ha sentito il bisogno di non interrompere la narrazione e scendere a peculiari e troppo particolari osservazioni; ha saputo dal punto scientifico innalzarsi fino al sublime della poesia. Vedete l’avvicendarsi della fortuna rappresentata in una dea; il giudizio universale che in bocca di Virgilio prende una espressione eterna; la descrizione dell’origine de’ fiumi dell’inferno, dove la idea simbolica è tradotta in una descrizione naturale. Ma piú commovente d’ogni altra è la descrizione delle pene de’ suicidi. Essi sono costretti ad abitare in un albero come in suo corpo. Egli dimanda la spiegazione di questa pena: e Pier delle Vigne risponde:

                                         Quando si parte l’anima feroce
Dal corpo, ond’ella stessa s’è disvelta,
Minos la manda alla settima foce.

     Cade in la selva e non l’è parte scelta,
Ma lá dove fortuna la balestra,
Quivi germoglia come gran di spelta.

     Surge in vermena ed in pianta silvestra:
L’Arpie, pascendo poi delle sue foglie,
Fanno dolore ed al dolor finestra.

     Come l’altre verrem per nostre spoglie,
Ma non però ch’alcuna sen rivesta,
Ché non ò giusto aver ciò ch’uom si toglie.
               
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                                         Qui le strascineremo, e per la mesta
Selva saranno i nostri corpi appesi.
Ciascuno al prun dell’ombra sua molesta.
                                                                 Canto XIII
               

Dove è qui traccia di elemento didattico, delle spiegazioni a cui la teoria scientifica doveva condurre il nostro poeta? L’elemento scientifico è gittato per incidenza in un verso: «che non é giusto aver ciò ch’uom si toglie». Ma il concetto diviene poesia perché Dante ne ha fatto un individuo, l’anima del suicida che racconta la propria storia dal punto che si è separata dal corpo fino al giudizio universale: perché qui non vi è pensiero ma azione. E quale azione! Non sentite voi una forza straordinaria di stile in questa narrazione? una vigoria insolita, un’efficacia d’affetto straordinaria? Le parole medesime sono molto comprensive ed indicano una quantitá di idee accessorie. Nel «disvelta» si sente non solo la separazione, ma la violenza e lo sforzo contro natura: nella parola «balestra» non solo il cadere, ma l’impeto con cui cade: nella parola «finestra» si sentono i sospiri ed i lamenti, ed il pianto che esce fuori per quel varco. Onde questa vivacitá nella spiegazione della pena, mentre in altri luoghi è lucido naturale, ma senza veemenza d’affetto? Perché qui è il suicida che parla: e narrando la storia dell’anima, narra la sua ne’ momenti che han lasciato in lui maggiore impressione. Nella immaginazione di Pier delle Vigne vi è sempre l’«io» presente: e finalmente s’immedesima talmente con quell’anima, che mescola sé alla terza persona: «Come l’altre verrem per nostre spoglie». Quando poi si presenta il momento di vedere spenzolati i loro corpi agli alberi della selva, tutto ad un tratto alle brillanti immagini succede una cupa mestizia:

                                         Qui li strascineremo e per la mesta
Selva saranno i nostri corpi appesi.
               

«I nostri corpi» è un plurale che presenta la cosa in confuso: ma egli tra que’ corpi vede il suo proprio, e sente il bisogno di singolarizzarlo: «ciascuno al prun dell’ombra sua [p. 95 modifica]molesta». Quanta poesia scaturisce dall’aver eliminato l’astratto e messo tutto in bocca di chi parla! In questo modo ha Dante provveduto che l’elemento didattico, il quale regna nel purgatorio, e nel paradiso, fosse rimosso dall’inferno.

Ma come ha egli saputo conciliare l’interesse morale con l’interesse poetico?

Egli ha ciò ottenuto considerando la teoria scientifica come cosa estrinseca: come un ordine meccanico che serve solo di filo per agevolare la memoria e la intelligenza, ma non penetra al di dentro. La morale pone gl’inerti al limitare dell’inferno, perché in veritá essi non fanno male; ma la poesia li pone piú giú: perché traspare che Dante stima piú l’ultimo peccatore che opera, che non questi mezzi uomini abbietti, che nulla operano. Credete voi che egli si impacci del concetto morale? Egli considera l’idea dell’inerte, come un quadro che deve colorare, e tiene il concetto morale solo come un filo per agevolare la memoria, l’ordine scientifico è puramente esteriore e meccanico. Vi sono di quelli che, quando la scienza stagna ed impaluda, danno grande peso a queste divisioni e suddivisioni. Ma Dante non ne tiene gran conto. Prendete una storia: quando l’autore ve la divide in periodi ed in secoli; finché questi non sono che mezzi per dividere in parti il troppo ampio orizzonte affinché si possa meglio comprenderlo, la cosa è ragionevole. Ma se egli pretende recare la sua divisione nell’interno de’ fatti: e perché egli ha bisogno di riposo, crede che si fermi l’andamento continuo d’un popolo, egli falsifica la storia. Oltre l’ordine estrinseco, vi è un ordine interiore che nasce dall’argomento. Ogni argomento ha una sua propria situazione, da cui discende una propria forma, uno stile ed un ordine proprio. E tutto questo mio ragionamento non è che una lunga dimostrazione di questa veritá che io ho applicata al poema di Dante. Qual è l’ordine interno che scaturisce da se stesso nella Divina Commedia? Nel paradiso è lo spirito che si sprigiona dal corpo: nell’inferno lo spirito che va sempre piú materializzandosi: il progressivo sparire dello spirito nel corpo finché non vi rimane piú che la materia. Lo spirito esce dall’indifferenza, quando* [p. 96 modifica]non ha ancora alcun significato, e per successivo digradare va a terminare nel brutto. L’indifferente e il brutto sono due estremi. L’inerte, l’indifferente è vuoto di significato: e per rispetto all’idea è tutt’uno che sia o non sia. Il brutto può divenire oggetto di poesia per rispetto all’idea che vuole rappresentare il poeta. Ma l’inerte sotto il punto di vista morale é lo spirito che non ha coscienza del suo spirito: per elevarlo a poesia converrebbe idealizzarlo, dargli un significato. Ma questo distrugge l’idea dell’indifferente: perché dal momento che significa alcuna cosa, non è piú tale, cessa di esserlo. E tuttavia può ricevere una grande poesia dall’impressione che fa verso chi lo contempla: una grande poesia di sublime negativo: che è piú alto ancora che tutti gli altri generi di sublime. Questo è sempre una vasta concezione che vi getta nell’idea dell’infinito: è una immagine che è inadeguata al concetto. Ma qui il concetto e l’immagine sono spariti: non vi rimane che il nulla, il vuoto. Tale è il sublime de’ poltroni di Dante. L’inerte per sé non offre che uno spettacolo vile ed abbietto. Ma l’impressione che esso vi lascia è qualche cosa di sublime. Voi sentite da principio:

                                         Diverse lingue, orribili favelle,
Parole di dolore, accenti d’ira,
Voci alte e fioche e suon di man con elle.
               

Quando noi immaginiamo una cagione grande e sublime, una grande pena per cui quei peccatori debbano mandare si alti lamenti, voi udite che non son altro che punture di mosche e di vespe le quali fanno rigare il loro corpo di sangue che si mescola colle loro lagrime. E per dare un’idea piú compiuta del vile e dell’abbietto fa lampeggiare l’immagine del verme, che è l’ultimo anello della creazione, quello che noi calpestiamo. Volete vedere innalzarsi il poltrone ad una poesia di sublime negativo? Ponete vicino a questi uomini che non furono mai vivi, un uomo che ha anima, sentimento e dignitá di uomo, che ha vita, passioni, pensieri: e quando gli si affaccia lo spettacolo della morte dell’anima in un corpo che è ancora vivo, [p. 97 modifica]s’interromperá, e non vorrá piú occuparsi di costoro di cui non si occupa né il cielo, né il mondo, né l’inferno.

                                         Fama di loro il mondo esser non lassa;
Misericordia e giustizia li sdegna;
Non ragioniam di lor, ma guarda e passa.
                                                                 Canto III
               

Ecco perché questi tre versi sono ritenuti a memoria da tutti, perché sono stimati i piú belli, perché troviamo raccolto e concentrato in essi l’ideale del poltrone in ciò che ha di sublime. L’altro estremo è Lucifero, in cui è designato il tipo del brutto, come nel paradiso il Lucifero è Dio, perché in esso la materia sparisce affatto e diviene pura intelligenza. Nel Lucifero dell’inferno, non vi è piú né malizia né carattere, perché la materia ha soverchiato lo spirito: non vi è piú che una enorme massa di carne: non vi rimane che il laido: perché ha ubbidito all’istinto che lo portava a dipingere in lui la materia vuota di spirito. Chateaubriand nel Genio del cristianesimo ha posti a paragone il Lucifero di Dante con quello di Milton. Non vi è cosa piú misera che questi paragoni letterarii, da cui è tempo che la critica si spastoi: perché il paragone non cade che sopra accidenti estrinseci, mentre la personalitá è incomunicabile. Ma se egli prima di giudicare avesse almeno letto l’ultimo canto: poiché è pericoloso di giudicare le cose a frastagli e senza considerare il tutto: se avesse posto mente che gli pone accanto i giganti della poesia pagana che muovono guerra agli dei, avria concepito l’idea di questo canto. Dante mescolò la mitologia pagana con la storia cristiana: ma non mostrò giá i giganti combattenti nel tripudio della forza física: ma incatenati: quando han perduto l’intelligenza e la forza. Cosi Lucifero non è rappresentato combattente e lottante come quello di Milton: ma immobilizzato, domato. In quel solo verso: «S’ei fu sí bel, come è ora brutto» si vede l’intenzione manifesta di presentare in lui il tipo del brutto, come nel paradiso in Dio mostra il tipo del bello.

Ora vi ho mostrato i due estremi: un altro giorno vedremo l’intervallo che corre fra di essi.