Lezioni sulla Divina Commedia/Primo Corso tenuto a Torino nel 1854/XIII. Come Dante ha trasformato il brutto?

Primo Corso tenuto a Torino nel 1854 - XIII. Come Dante ha trasformato il brutto?

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Lezione XIII

COME DANTE HA TRASFORMATO IL BRUTTO?


Perché la teoria del brutto riescisse chiara e sensibile, io mi rivolsi alla vostra impressione, e presentai in casi successivi le diverse forme in cui l’arte trionfa del brutto. Da prima io presentava il brutto simbolico, quello che si riferisce ad un concetto estrinseco: come l’aquila a due teste. Questo è il primo grado non compiuto di sua trasfigurazione: in questa il brutto non è pienamente domato: perché spento il concetto rimane il brutto nella sua integritá. Cosi la statua di Memnone, quando tramonta il sole che la rende sonora, non rimane che nuda pietra insensibile. Onde lo stesso oggetto che ad altri è sacro fa ridere colui che non vi scorge l’idea, in tale caso si ama l’idea che abbiamo collocata nell’oggetto, la memoria dell’amico a che appartenne, il Dio che vi è figurato, la patria di cui è insegna e colore. La materia non è che un aggregato di parti discordi e repugnanti, in cui è posta l’essenza negativa del brutto. Ma la cosa non è piú cosí, quando nel corpo brutto è vivo ed immanente il concetto: quando materia e forma hanno una vita inseparabile, e non si spegne il concetto che colla forma. La malizia, il carattere, la passione fanno che il brutto salga di grado in grado dal grazioso comico, dall’altezza del sublime fino al gentile del bello. Il Sancio Pancia, il Riccardo di Shakespeare, la Saffo di Leopardi sono i tre modelli di queste trasfigurazioni del brutto. Questi tre casi analitici non sono che [p. 85 modifica]tre facce successive d’uno stesso fatto estetico, l’applicazione d’uno stesso principio. Nell’arte greca la forma ha tale attinenza coll’idea che l’una non può stare senza l’altra. I Greci non concepiscono un’idea bella in un corpo brutto. Gli Spartani uccidevano i fanciulli brutti. La materia bella è essenziale a quell’arte: onde la rispondenza, l’armonia, la serenitá delle greche figure. Al contrario nell’arte moderna l’idea vive nella forma, ma conscia di sé: come lo spirito di rincontro al corpo, serbando un dominio assoluto sulla materia. Nella vile materia può stare il concetto bello, l’anima entro il corpo senza che il contatto esterno possa macchiarla. Quando in un corpo brutto brilla una certa idea (per usare l’espressione di Raffaello), l’idea tiene stretta l’attenzione del poeta in modo che il brutto scompaia nell’ombra, e non rimangono sul dinanzi del quadro che i tratti che sono in armonia coll’idea. Vedete il martire che è il tipo piú spiccato dell’arte cristiana. Gli strazii a cui è sottoposto, il corpo lacero e sanguinoso urtano la vostra sensibilitá: ma gli occhi ardenti che s’innalzano verso il cielo, la faccia piena di gioia, fanno si che noi guidati da pochi tratti entriamo nel mondo celeste in cui egli abita. Quindi sorge la necessitá che l’attenzione del poeta non si distragga giammai dall’idea. Quando egli (come accade in Victor Hugo) dá rilievo ad un accessorio brutto, in discrepanza coll’idea, dite pure che il suo entusiasmo si raffredda, che la sua stella polare si abbuia.

Ora vediamo l’applicazione di questo principio e fatto estetico nell’inferno.

Qual è il concetto dell’inferno? La depravazione dell’anima abbandonata ciecamente alle sue forze libere, errori, vizii, passioni: scompagnata da ogni regola di ragione, e da ogni freno morale. Questo concetto è cosí vivo nella mente del poeta che egli lo riproduce sotto diverse forme:

                                         Noi sem venuti al loco ov’io t’ho detto,
Che vederai le genti dolorose,
C’hanno perduto il ben dell’intelletto.
                                                                      Inf. III.
               
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                                         Intesi ch’a cosí fatto tormento
Eran dannati i peccator carnali,
Che la ragion sommettono al talento.
                                                                 Canto V
     A vizio di lussuria fu si rotta
Che libito fe’ lecito in sua legge.
                                                                           id.
               

Qual è la ragione della eterna punizione dell’anima dannata? L’eterna sua impenitenza: essa fu peccatrice in vita ed è ancora tale nell’inferno. La sola differenza è che mentre che era viva potea tradurre il suo peccato in un fatto estrinseco: laddove nell’inferno rimane allo stato di mero desiderio: essa vuole peccare senza averne la forza. Da questo germina una situazione poetica. La vita terrena è riprodotta tal quale: il peccato è ancora vivo: e la terra è presente all’anima del peccatore: salvo il fatto, le stesse voglie si riproducono.

Qual è il vantaggio che l’inferno ha come poesia sopra il purgatorio e il paradiso?

In questi si dileguano le passioni: al di lá dell’inferno vi è calma e ragione: quanto piú [l’anima] si accosta alla ragione tanto piú si discosta dalla poesia. Nell’inferno si dipinge il core umano in tempesta, in movimento, animato da ciò che vi ha di piú caldo. Questo è aumentato dalla realtá in cui si trova il poeta, poiché la vita terrena non è che la rappresentazione epica del mondo in cui egli vive. Il rigoglio della passione, l’energia della volontá, che costituiscono la barbarie della vita, sono il carattere di quell’epoca, la quale è ben riprodotta perché — permettetemi l’espressione — Dante è anch’esso un barbaro, un eroico barbaro. Ciò si scorge dall’energia della sua individualitá, dal carattere iroso, vendicativo, implacabile. La sua penna non è giá un pennello che dipinga, ma una spada che mena sopra gli avversarii. Nella vita calma e serena che egli dipinge in purgatorio ed in paradiso, nulla ha riscontro con ciò che è nella vita pratica: non è che una finzione derivata dal cervello, dall’astratto del dovere. Ecco perché nell’inferno vi è tanta vita e realtá: ed uscito da quello non vi è piú che il campo ideale che va a [p. 87 modifica]finire nell’astratto. La vita tempestosa dell’inferno vi è rappresentata lasciando il brutto ed il deforme. Non è giá dipinto il colpevole: ma la forza interna che ha prodotto il delitto. Noi abborriamo il fatto: ma ammiriamo la forza: perché lo sforzo interno che Dio ci ha dato al bene ed al male preso per sé è nobile e santo. Vedetelo in Francesca da Rimini. Isolate le circostanze estrinseche in cui essa si trova: e troverete nobile, gentile, delicato l’affetto di cui essa arde. Come quello di Giulietta, di Clara, di Eloisa. È la passione stessa che ci fa versare lacrime sui frangenti della vita. Quando si rimuove il fatto noi possiamo piangere, ridere e passar sopra ciò che vi è di laido ed orribile. Essa ci commove non come colpevole: non è giá il suo fallo che ci ispiri compassione: ma la bontá e la gentilezza della sua passione. Cosi in Capaneo non ammiriamo le sue bestemmie, ma la forza per cui il suo animo non è domato neppure da’ tormenti. Se ridiamo del Navarrese, di Sinone, non sono giá le grossolane loro facezie che ci rapiscano, ma per la malizia che hanno in sé. Il carattere fa passare sopra a ciò che ha di brutto il loro delitto: è come il principale oggetto del quadro che primeggia sugli accessorii e fa sparire nelle ombre il deforme, il brutto. Ma i caratteri, le passioni sono la vita terrena. Ed il concetto dell’inferno deve comprendere i due mondi. La vita terrena l’abbiamo veduta: dove sará la eterna? qual è l’infinito? Nella stessa vita terrena. Giammai questi due mondi furono cosí immedesimati come nell’inferno dantesco. La vita terrena è non solo nella storia del suo delitto, ma nella punizione e castigo del dannato. Nella pena egli contempla se stesso: nel rimorso è il suo passato; la vita che egli ha fatto la vede nella pena a cui soggiace. Con senso profondo Dante ha posto lo Stige, l’Acheronte e gli altri fiumi nell’inferno: ma il fiume Lete, che è quello dell’obblio, si trova solo nel purgatorio. Dovunque si rivolga, il dannato vede se stesso nella natura del luogo, nella natura della pena, nella figura del demonio che li custodisce. L’inferno è l’anima stessa trasportata al di fuori: la terra fatta ad immagine dell’anima peccatrice. Gli amanti veggono nel turbine che li travolge la violenza della loro [p. 88 modifica]passione, gli adulatori nel fango e nel lezzo l’abbiezione e la viltá della loro anima, il traditore nel ghiaccio l’immagine della freddezza del suo cuore. I ghiottoni veggono in Cerbero l’ideale del goloso, gli avari in Pluto quello dell’avarizia, e i fraudolenti in Gerione il tipo della frode. Onde sorge nell’inferno un’armonia che rappresenta l’anima del peccatore: e l’uomo è fatto centro della vita infernale, non giá Lucifero. Se come rappresentazione della vita terrena ha l’inferno qualche cosa di proprio: che cosa dovrá avere come punizione? Nel primo grado noi troviamo uomini vivi, caratteri perfetti e non solo la pittura del vizio per cui l’uomo è condannato: ma tutti i lati, anche le parti eccellenti: onde si possa amare, ammirare non giá per il vizio, ma per l’altre parti. Pier delle Vigne non ci è rappresentato come suicida solamente, ma si vede in lui l’innocente condannato che è tenero della sua memoria. Non vediamo in Farinata l’eretico,ma l’acerrimo partigiano e cittadino. In Ugolino non vediamo il traditore della patria, ma l’infelice padre che si vede cadere di fame innanzi a’ suoi occhi gli amati figli. Dante si valse di questo mezzo per variare i suoi quadri: per sottrarsi ad una serie monotona di delitti incastrando figure storiche eccellenti.

Ma che cosa ha di proprio l’inferno come punizione? Considerato da questo lato si allarga e s’innalza fino a Dio. La Divina Commedia, come disse un illustre filosofo, rappresenta la stessa azione di Dio, che è il vero e solo protagonista del poema che in paradiso si manifesta come amore, in purgatorio come misericordia, in inferno come giustizia. E quando è riguardato da questo punto di vista cessa di essere un lurido carcere di pene, e diventa l’espressione ideale di Dio, la giustizia assoluta: acquista una gravitá che lo innalza al sublime. Questo vi si trova sotto la duplice specie di imagine, e di sentimento: come eternitá e come disperazione. La prima è sublime perché rappresenta un punto che non è mai raggiungibile: che per avvicinarsi che l’uomo si faccia ad esso, rimane sempre nel medesimo punto. Accumulate numeri sopra numeri, i bilioni sopra bilioni: ed è lo stesso come se aveste la semplice unitá. La disperazione è lo [p. 89 modifica]stato dell’anima del colpevole che si sente misera senza fine e varietá, sempre la stessa: ed al di fuori esce in atti impazienti, in contorcimenti, in bestemmie.

                                         Bestemmiavano Iddio e i lor parenti,
L’umana spezie e il luogo e il tempo e il seme
Di lor semenza e di lor nascimenti.
               

La giustizia di Dio, l’eternitá, la disperazione sono tre fonti del sublime che lo innalzano quando si congiunge a queste idee. Vedetelo nei nove versi che compongono la sublime iscrizione che Dante pose sulla porta dell’inferno. Ivi è rappresentato l’inferno come inferno, il quale è sublime perché infinito. Ne’ tre primi versi vi si ripete la stessa idea, come presente immobile, eterno, ripetizione di se stesso: dolore e sempre dolore, quel luogo e sempre quel luogo. Ne’ versi seguenti l’immagine si ingrandisce, la cittá dolente diviene la cittá di Dio: la giustizia va al sublime quando fa balenare la luce, l’orrore nella coscienza del condannato: «Lasciate ogni speranza o voi ch’entrate», dove si vede congiunta l’eternitá colla disperazione. Ma l’unitá dell’inferno non è semplice: essa è un’unitá che va esplicandosi, che procede da un estremo ad un altro.

Oggi vi ho dimostrato nell’inferno la depravazione dell’anima umana, un’altra volta vi mostrerò l’unitá piena di contenuto capace di progresso, la depravazione progressiva dell’anima.