Letture sopra la Commedia di Dante/Lettura prima/Lezione quarta
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LEZIONE QUARTA
Ahi quanta a dir qual era è cosa dura |
Procedono i poeti, come noi dimostrammo ne’ nostri preambuli, nei lor poemi per via d’imitazione e di esempli, ingegnandosi di non persuadere manco con tali mezzi l’intenzione loro, che si faccino gli oratori con gli entimemi e con le persuasioni e coi colori rettorici. E perchè ei non si truova sempre esempli che sieno veri e sieno al proposito, egli è lor lecito fingerne de’ nuovi, e usare in luogo loro delle invenzioni e delle favole, non si appartenendo, come scrive il Filosofo nella Topica, a lo esempio come esempio l’esser più vero che falso, ma solamente ch’e’ serva e sia approposito a dimostrar l’intenzione e il concetto di colui che l’usa. Nè basta ancora a ’l poeta sapere trovare esempli, invenzioni, e fingere favole accomodate, ma bisogna ancor ch’ei sappia poi descriverle e narrarle, mescolando di maniera l’utile col dolce, come dice Orazio, che i suoi poemi non apportino a chi gli legge manco utile che diletto; onde tiri e muova gli animi degli uomini a esserne studiosi. Per il che, come quel pittore, il quale, oltre al saper disegnare, sa e meglio e con maggior grazia rappresentare co’ colori a gli occhi de’ ragguardanti quelle cose che ei vuole, è reputato maestro grandissimo ed eccellentissimo di tale arte, così ancora quel poeta, il quale, oltre al saper trovare, saprà narrare e descrivere tanto bene gli esempii, le invenzioni e le favole sue, ch’elle parranno vere, sarà tenuto ancora egli similmente grandissimo ed eccellentissimo poeta. Volendo adunque il nostro dimostrare la confusione nella quale egli si accorse, mediante il discorso della ragione, ritrovarsi nel mezzo della sua vita, dove per le molte e diverse opinioni delle scienze umane egli aveva smarrita la verità, e quanto più ei cercava e si sforzava di ritrovarla con le forze sue stesse, tanto maggiormente si smarriva, usò questa finzione d’essersi ritrovato in una selva tanto oscura, ch’egli aveva smarrita al tutto la strada ad uscirne. Della quale invenzione o esempio non credo io che fusse possibile, per esprimere e manifestare tal concetto, a ingegno alcuno umano trovar nè la più propia nè la più a proposito; non tanto per non essere altro le selve, che luoghi disabitati ed intrigati, dove non si scorgendo spessissime volte strada alcuna che buona sia, l’uomo facilmente si smarrisce, quanto per essere luoghi e abitazioni d’animali e di fiere, le quali non conoscono ancora ellino, come avvenne allora a lui, il fine loro. E se bene elle camminano ciascuna a quelle, lo fanno indiritte da una intelligenza non errante, e da uno istinto della lor natura propia, in quel modo che va ancora al bersaglio, se bene ella non lo conosce, una saetta tratta e indiritta da l’arte dell’arciere. E volendo dipoi, per non bastar, come si è detto, a chi vuole esser buon poeta solo trovare la invenzione, esprimerla e descriverla, egli usa questo color rettorico di voler con un certo travaglio e con un certo spavento, il quale ci mostra che gli desse a l’animo il ricordarsi quale ella fusse, imprimere e scolpire con maggior forza nella immaginativa di chiunche leggesse questo suo poema l’oscurità e la salvatichezza di quella. Onde incominciò da questa parola Ah, chiamata vulgarmente esclamazione; la quale è usata da noi, come dice il Landino in questo luogo, qualunche volta noi vogliamo esprimere, con alquanto di maraviglia, qualche giusta indegnazione contro a una cosa la qual ci paia sommamente degna di biasimo; come volse fare ancor similmente esso nostro Poeta, quando disse, parlando del donativo che fece Costantino a la Chiesa:
Ahi, Costantin, di quanto mal fu matre, |
Ove è da notare, che ci si truovano alcuni testi, i quali hanno, in cambio di quello Ah, E; e particularmente quel del Vellutello. La qual cosa non guasta solamente il verso con farlo di mal suono, ma ella rende ancor difficilissima e quasi imperfetta la costruzione e il senso. Il che notando Benvenuto da Imola, dice in confermazion di tal cosa queste parole propie: «Hic auctor, descripturus istam silvam, primo vult ostendere quam sit difficile et laboriosum describere ipsam, et ideo incipit ab exclamatione, dicens eum admiratione: Ah quam durum est dicere qualis erat ista. Et hic nota istam litteram in pluribus testibus esse corruptam sic: E quanto a dir, quod nullo modo stare potest; quia littera numquam posset construi, et tota omnino remaneret suspensa, et etiam illud Et non haberet quod copularet; unde necessario debet dici ah vel ahi exclamative, quod tantum valet in vulgari florentino.» Volendo adunque il nostro Poeta dimostrare la grandezza della confusione, nella quale ei si ritrovava, con la similitudine della oscurità e salvatichezza di tale selva, incomincia da questa esclamazione e da questa voce Ahi, conducendo con essa in questa prima giunta con grandissima arte gli ascoltatori a farsi una impression nell’animo di avere a udire di lei qualità maravigliosissime. Le quali volendo egli dipoi narrare, dice primieramente, ch’ella era oscura e con pochissimo lume, a differenza d’alcune selve amene e piacevoli, fra gli arbori delle quali penetrando alcuni raggi di sole, le rendono e liete e dilettevoli. E poi, ch’ella era selvaggia, a differenza d’alcune domestiche, fatte tal volta ad arte da l’industria de l’uomo per suo solazzo e per suo diporto; onde non appariva in lei via, nè segno o vestigio alcuno umano, ma solamente stanze e luoghi da fiere selvatiche. Dipoi, che ella era aspra, cioè piena di pruni e sterpi salvatichissimi. E ultimamente forte, cioè difficile a uscirne o passarla, per essere di maniera attraversati e ammacchiati in lei gli sterpi e i pruni, ch’ei non si poteva passare, se non con difficoltà grandissima, fra loro. Le quali condizioni la facevan finalmente tale, che l’immaginarla e il ricordarsene gli generava nuova paura e nuovo spavento nel pensiero e nella cogitazione. Ove è da avvertire, per intender meglio questo luogo, che gli animali perfetti, e che son dotati di tutti a cinque i sensi, hanno secondo la dottrina d’Averroe e d’Alberto Magno, con i quali pare ancor che convenga S. Tommaso, oltre a la fantasia (la quale è uno de’ lor sensi interiori, che riceve e ritiene i simulacri e le immagini delle cose sentite dai sensi esteriori) una altra potenza medesimamente sensitiva, la quale giudica e discerne, in quelle, certe qualità non conosciute da senso alcuno particulare, come fanno verbigrazia, per usare i medesimi esempii che dànno eglino, gli uccelli nelle festuche di paglia o d’altro l’essere a proposito a fare i nidi, o la pecora nel lupo, ch’egli le è nimico, veggendolo ella solamente come colorato e di quella figura ch’egli è, nel qual modo solo egli s’imprime nella fantasia sua; ma quell’altra potenza, la quale noi abbiamo detto ch’ella ha, oltre a essa fantasia, è quella che giudica di poi in lui tal inimicizia. Ed è chiamata questa tal potenza da loro negli animali (per istimare ella così tali cose, solamente per istinto naturale) estimativa; e nell’uomo perchè ella è aiutata nel far tal giudizio dal discorso della ragione, cogitativa. E questa tal potenza, chiamata da questi filosofi cogitativa (e qui da Dante il pensiero, per essere il medesimo, nella lingua nostra, il pensare che il cogitare), rappresentandosi a lei, per operazion della fantasia, le qualità oscure e aspre di essa selva, era quella che la giudicava tale, ch’ei si generava nell’animo suo nuovo orrore e nuova paura; essendo, come sa ciascun di noi, costume degli uomini, ogni volta ch’ei torna loro a memoria qualche gran pericolo nel quale ei si sien già ritrovati, di averne in quei primi moti poco minor paura, che avanti ch’ei ne scampassero. Dopo le quali cose egli soggiugne, per descrivere ed esprimere ancor meglio le orribili e male qualità di essa selva, ch’ella era tanto amra, che la morte stessa è poco più amara di lei. Nelle quali parole si vede ch’egli teneva ancora egli in quello stato, come par che tenga il Filosofo, che la morte fusse una delle più amare e orribili cose, che possa accadere a l’uomo. E ciò è cosa naturale; imperocchè non avendo gli enti naturali cosa alcuna ch’ei desiderino e stimino più che l’essere, ne segue ancora per il contrario, ch’ei non sia cosa alcuna che paia lor più amara, nè che le dispiaccia più loro, che il perderlo. E se noi pensiamo ancor di poi quel che abbia voluto significare secondo l’opinion nostra il Poeta, io non credo certo che sia cosa alcuna più dura e difficile a dire, che quanto sia amara la confusione e la inquietudine1 de l’animo di coloro, che vivono irrisoluti e senza fine, e conseguentemente senza speranza alcuna certa di bene, che quieti loro l’intelletto, e che fermi loro in qualche modo l’animo. Imperochè veggendo eglino tante varie opinioni ne’ filosofi e negli altri scrittori, tante diverse sorte di religioni nel mondo, tanto timor della divina iustizia ne’ popoli, tanti spaventi di future pene nel grido universale; e non avendo chi mostri loro con certezza a quel che e’ debbano volgere e applicare l’animo; camminon propiamente con quel sospetto e con quel timore, che fa una nave senza timone e senza bussola in un mare tempestosissimo e pericolosissimo, o un viandante carico di ricchezze e d’oro senza guida per un bosco pien di ladroni e d’assassini. Non è adunque maraviglia, se ricordandosi il nostro Poeta di tal confusione e travaglio d’animo, da poi ch’egli n’era uscito, si gli rinnovava una paura e un timore grandissimo. Ma perchè così come ei non è nutrimento nè cibo alcuno tanto cattivo, che uno uomo sano non lo converta in buoni umori (onde fu detto da Cornelio Celso, nel principio della sua Medicina, che l’uomo sano non debbe obbligarsi a legge alcuna, e fra i medici è proverbio, che a’ sani son tutte le cose sane), così non è ancora similmente cosa alcuna tanto malvagia e tanto ria, che uno uomo buono non ne cavi qualche bene; per il che usavan dire gli stoici, che i sapienti eran sempre felici in qualuche stato e’ fussero posti da la fortuna. Il nostro Dante, il quale era parimente e buono e savio, ricordandosi ancora oltre a di questo del comandamento il quale aveva fatto Dio per la bocca di Moses, quando egli gli cavò della servitù d’Egitto, agli Ebrei, che togliessero le più preziose cose che avevan gli Egizii, e portassinle con loro per servirsene dipoi al culto del vero Dio; avendo ancora egli similmente cavato della servitù della confusione, della quale egli era stato tratto dal lume divino, molti ammaestramenti e molti avvertimenti; e volendo onorare con essi Dio nel suo vero tempio, il quale è (come scrive Paulo Apostolo) l’uomo, ammaestrandolo e insegnadogli con lo esemplo suo camminare al suo vero fine, soggiugne e dice:
Ma per trattar del ben che io vi trovai, |
Dove si ha a leggere alte; e non altre, come legge il Vellutello; perchè sarebbe un conseguente senza antecedente alcuno dicendo: io dirò delle altre cose che io vi ho scorte, non avendo detto innanzi di alcuna; e così hanno i testi antichi. E così ancora per il bene, ch’egli dice che vi trovò, non si ha a intendere il vero e perfetto bene, perchè questo non scorse egli, come dimostra il processo dell’opera, nella selva; ma delle cose ch’egli conobbe in essa confusione, le quali gli furon dipoi e sproni e mezzi a cercar d’esso bene; come furono la cognizione delle false ed erronee opinioni degli uomini, mediante le quali egli era uscito del cammino nel quale egli era stato primieramente indiritto dai suoi maggiori, e aveva smarrita la strada; il pericolo ch’egli portava, in essa selva, di quelle tre crudelissime fiere; e la debolezza delle forze sue. Le quali conoscendo egli non essere a bastanti nè atte per loro stesse a cavarlo di tal confusione, disperato e disfidato e di loro e di sè stesso, alzò gli occhi in alto, confessando tacitamente, che a volere uscir d’essa selva gli era di mestieri lo aiuto e il lume divino. Imperochè, se bene tutti gli uomini amono e cercono naturalmente il bene, ei non fu mai però alcuno che potessi nè trovare il vero bene senza il lume, nè conseguirlo senza lo aiuto divino; ma tutti quegli, i quali si sono affativati in cercarlo solamente con le forze propie e con il lume della sapienza umana, sono di mano in mano entrati in maggior confusione e caduti in maggiori errori; di sorte che alcuni si sono condotti a dire, ch’ei non è cosa alcuna che sia certa, ma che quel che noi chiamiamo certo è solamente quel che ci pare (ai quali fece Aristotile quella bella risposta, che se ei non è cosa alcuna certa, ei non è ancora, secondo il lor detto, medesimamente certo quel che dicono eglino); altri che sapevan solamente ed eran solamente certi di questo, ch’ei non sapevan nulla; altri che cominciavano appunto a imparare, quando la morte gli sopraggiunse; e chi una cosa, e chi un’altra. Da le quali opinioni si cava manifestamente, da chi le considera con diligenza, che chiunche è camminato per queste peregrinazion della vita umana senza la guida del lume divino, è camminato per una selva non manco oscura nè manco selvaggia e aspra, che questa la quale descrive il Poeta nostro. Il quale rispondendo dipoi, come è costume de’ buoni Rettorici, a una tacita obbiezione, la quale gli potrebbe esser fatta, dicendo ch’egli non doveva entrare nè lasciarsi smarrire in essa selva, per avere dipoi così forte a dolersi del poco accorgimento o della mala elezione sua, soggiugne:
Io non so ben ridir come io vi entrai; |
Nella qual cosa non poteva egli ancora (volendo mostrare come egli uscisse della via retta e del vero sentiero della religione cristiana, per il quale egli era stato indiritto nella sua puerizia da’ suoi maggiori, ed entrasse in tal confusione) usare esempio alcuno più accomodato e più a proposito, che questo del sonno, dicendo ch’era inviluppato di tal sorte in quello, quando egli entrò in essa selva, ch’ei non sa dir come egli vi si entrasse. Il che volendo noi intendere perfettamente, bisogna vedere prima, che cosa sia propio il sonno; e dipoi, per qual cagione egli sia così usato da lui per esempio, in iscusa d’essere entrato sonnacchioso senza accorgersene in essa selva. Per il che, lasciando star da parte l’opinione di Empedocle e di Diogene, filosofi antichissimi (l’uno de’ quali diceva, come riferisce Plutarco, che il sonno era una refrigerazione del calore naturale che è nel sangue, causata e da il cibo e da il bere; e l’altro da il sangue, il quale riempiendo le vene scaccia e pigne l’aria, la quale è in quelle, nel petto e nelle parti vicino al cuore; per il che ella racchiudendosi quivi ritiene e non lascia passar gli spiriti, e genera il sonno), e seguitando, come approvata per più vera, quella di Aristotile, il qual fa di quello ne’ suoi Parvi naturali una opera particulare, diciamo che il sonno è una alterazione e una passione degli animali, e conseguentemente de l’uomo, la qual gli lega di tal sorte il senso comune, ch’ei non sente cosa alcuna che gli sia rappresentata di fuori a gli strumenti e a gli organi de’ sensi; il che dimostra manifestamente, ch’ei non son gli strumenti, e quei che noi chiamiamo vulgarmente sensi, quegli che sentono, ma è il senso comune, il quale stando, secondo il Filosofo, nel cuore, come fa un signore nel palazzo principale della città, ed essendogli portate da ciascun senso le alterazioni ch’ei riceve dai suoi obbietti, fa dipoi egli in quel luogo la sensazione e il iudicio; e però, legato e impedito quello, non senton più cosa alcuna gli animali, e si possono quasi chiamare morti, non essendo eglino differenti per altro da le pìante, se non perchè e’ sentono e le piante no; per la qual cagione, se bene elle hanno ancor quelle l’anima, elle son chiamate animate, e non animali: il che considerando il Poeta Sulmonese, disse che il sonno non era altro, nisi frigidae mortis imago, e il nostro M. Francesco Petrarca:
Il sonno è veramente, qual uom dice, |
Ed è generata questa alterazione del sonno negli animali da quelle esaltazioni e da quelle fumosità calde e umide, che escono dal cibo e dal nutrimento, quando il calor naturale le cuoce nella digestione; le quali ascendono2 al capo, come è natura loro; dove essendo ricondensate e ingrossate da la frigidità del cervello, per essere la natura del freddo di ristringere, e conseguentemente fatte più gravi, elle ritornano descendendo in giù intorno al cuore, e racchiuggon di tal sorte dentro di lui il suo calor naturale, ch’ei non può più mandar gli spiriti, come ei faceva prima, per tutte le parti del corpo e a gli strumenti e organi de’ sensi; per la qual cosa l’uomo non può più tener gli occhi aperti, come ei faceva prima, nè manco reggere ancor similmente il capo e l’altre sue membra; come dimostra poco di sotto il nostro Poeta medesimo essere avvenuto addormentandosi ancora a lui, dicendo:
E caddi come corpo morto cade. |
E dura tanto questa passione del sonno, quanto penano quelle esaltazioni e fumosità, che noi abbiamo detto, a essere consumate o diradate di tal sorte dal calore del cuore, ch’ei possa mandar, come e’ faceva prima, gli spiriti per tutte le parti del corpo; mediante la qual cosa lo animal possa far, vigilando, quelle opere che si convengono a la natura sua. E fu dato a gli animali questo sonno da la natura, per un conforto delle lor fatiche, e per una certa restaurazione delle forze e del vigor loro, come da quella la quale conosceva che tutti gli agenti e le cose naturali che operano, hanno, per essere ogni potenza naturale finita, un certo termine finito nelle operazioni loro, al quale come esse sono arrivate, elle non possono operare più, se non poco tempo, imperfettamente e con fatica grandissima a le potenze loro, come può veder chi vuole per esempio, verbigrazia, de gli occhi nel leggere. E perchè chiunche è stracco convien che si fermi e riposisi, la natura dette agli animali come noi abbiam detto, questa passion del sonno. Laonde parendo che l’operazione e il riposo debbino essere a vicenda e scambievolmente, il Filosofo par che accenni ch’ei si doverebbe, per mantenimento del corpo e del vigore e delle forze di quello, dormire quanto vegghiare, o almeno poco manco; dicendo che ei fanno comunemente così tutti i corpi sani, e che lo abbondar molto più nel dormire che nel vegghiare è segno di complessione troppo umida, eccetto però che ne’ bambini, ne’ nani, e in quegli che hanno le vene più sottili e minori del consueto; perciocchè ne’ bambini nasce tal cosa da umidità naturale di quella età, ne’ nani da l’avere il capo, a proporzione, molto maggior delle altre membra, onde riceve maggior quantità d’esaltazioni e di fumosità, e in quegli che hanno le vene sottili e strette, per penar dette esaltazioni e fumosità maggior quantità di tempo a risolversi; e così ancora il dormire molto manco che il vegghiare è segno ancora egli similmente di mala disposizione, causata da troppa siccità e da abitudine troppo macilenta e troppo acida di corpo, o veramente da mancamento e da debolezza del calor naturale, per il che non bollendo troppo gagliardamente i nutrimenti nel far la digestione, non mandan molti fumi e molte esalazioni al capo. E se qualcuno apponessi ch’ei non sia vero che il sonno privi, come io ho detto, l’uomo affatto del sentire; conciosia che il sognare sia operazione della fantasia, la quale è pure ancora ella un de’ nostri sensi interiori; si risponde, che il sognare non è veramente sentire. Imperochè il sentire è una operazione la qual procede da i sensibili che son fuora de l’uomo, i quali si rappresentano nuovamente a i lor sensi; e il sognare procede da immagini, nate da cose sentite innanzi, mentre che l’uomo era desto, e riserbate e impresse ne’ nostri spiriti; le quali rappresentandosi nel dormire, mediante il moto del cuore, a la fantasia, producono il sogno; e però si sognan più facilmente quelle cose che si son vedute poco innanzi, o quelle che occorsono altrui o nella puerizia o nella giuventù, per essersi allora impresse molto più tenacemente e più fortemente in noi; come fanno ancor le cose che s’imparano in quei tempi, che non fanno dipoi l’altre.
Veduto adunque che cosa sia il sonno, e come ei privi e tolga agli animali il sentire, il che è l’operazione lor propria, resta ora finalmente a vedere per qual cagione, volendo dimostrare il Poeta che non se accorse quando egli entrò in essa selva delle confusione, lo pigli per esempio, e come ei sia approposito a manifestare e dimostrare l’intenzione sua. Per il che fare è da avvertire, che ritrovandosi Dante fuori de’ primi anni della sua puerizia, ne’ quali egli era stato instruito e ammaestrato, come siamo stati ancor tutti noi altri, de’ principii della fede, e delle altre cose appartenenti a la religion cristiana (secondo però il modo che s’usa per la maggior parte, il quale è più tosto per via d’istoria, che per via di quella carità e di quello esempio che si conviene a chi vuole esser degno di questo nome cristiano), e dandosi a gli studii di filosofia e delle scienze umane, dove si truovono molte opinioni contrari dirittamente al lume della fede, cominciò a poco a poco a lasciarsi svolgere e tirare al tutto nella lor sentenzia da quelle; sì per esser quelle molto più secondo il discorso naturale de l’uomo, che non sono le cose d’essa fede; e sì per essere il costume de’ giovani come scrive il Filosofo nella Rettorica, di credere con facilità, e massimamente quelle cose, che son secondo il sapere e l’ingegno loro, e che mostran che non sieno altre cose, che quelle che possono sapere ed intendere ancora eglino, come qualsivoglia altro uomo e più vecchio e più esperto di loro; per essere ancor similmente costume de’ giovani sopportare molto mal volentieri d’esser superati e vinti nelle cose che meritano e onore e lode. E ciò gli avvenne perchè, non avendo egli ancor per rispetto dell’età perfetto l’uso della ragione, e molto manco quel della esperienza, non poteva conoscere quanto facilmente errin gli uomini nelle opinioni e nelle operazioni loro; per il che egli entrò, come ei mostra, senza accorgersene nel laberinto3 delle varie e diverse opinioni de’ savi del mondo, per il quale egli camminò insino a la metà della vita sua; nel qual tempo, cominciando egli e per il valore della ragione, divenuta in lui perfetta, e per la forza della esperienza a considerar tal cosa, egli s’accorse d’essere nelle confusione; che volendo manifestare sotto velame poetico, egli assomiglia, come voi vedete, a una selva oscura, salvatica, e tanto forte e aspra, ch’egli si gli rinnovava, qualcunche volta ei se ne ricordava, la paura di quella nella fantasia e nella cogitativa, e ch’era tanto amara, che la morte è poco più amara di lei. E volendo dipoi mostrar come egli era entrato in essa, e smarrita la diritta strada senza accorgersene (onde ei non sapeva ridire il modo), egli usa questo mezzo, e piglia questo esempio del sonno; del quale non credo io, come io dissi di sopra, ch’ei potesse trovare nè il più accomodato nè il più approposito. Imperochè, come chi dorme non conosce e non sente cosa alcuna, il che è l’operazion propria degli animali; onde non sa ridir, da poi ch’egli è desto, nulla di quel che gli sia avvenuto mentre ch’ei dormiva; così non avendo ancora il Poeta nostro, in quel tempo ch’ei cominciò a entrare in essa confusione, perfetto e si può dir libero l’uso della ragione, il che è l’operazion propria de l’uomo, ma quasi confuso e impedito da le qualità e da le passioni che porta seco quella età, non sa ridir ancora egli, come egli entrasse e si smarrisse a poco a poco in quella, nè ancora finalmente altro, se non ch’egli si ritrovò, nel mezzo del viaggio della sua vita, in quella. Nella quale ciò che gli avvenisse vi sarà detto da lui nel testo che segue.