Lettere inglesi/Lettera II

Lettera II

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LETTERA SECONDA


Non posso dissimulare, che di tutte le nazioni quanto alla letteratura m’ha la vosrra annoiato più di nessuna. I francesi e i tedeschi hanno de’ gran pregiudizi, ma non così incomodi, come quelli degl’italiani. In [p. 157 modifica]Francia la letteratura è frivola, ma diverte; la varietà stessa di tante stampe, che nascono e muoiono il dì medesimo a Parigi, fa un divertimento; e sopra tutto la critica v’ha un’aria di civiltà o almeno di scherzo, che vi solleva da qualche noia. Quell’esservi un centro di tutto il regno, dove fan capo tutti i capricci e gl’ingegni della nazione, presenta un mercato universale, dove ognuno può scegliere, e forma un sistema riunito e raccolto di pensare, per cui sapete presso a poco il giudizio dei più e dei migliori; ma in Italia ogni provincia ha un parnaso, uno stile, un gusto, e secondo il genio del clima un partito, una lega, un giudizio separato dall’altre. Napoli, Roma, Firenze, Venezia, Bologna, Milano, Torino, e Genova son tante capitali di tante letterature. Un autore approvato in una è biasimato nell’altra; e il più grand’uomo l’oracolo di questa provincia appena si nomina in quella. A Palermo, a Padova, a Pisa, a Lucca, a Verona, a Brescia ho trovato principi diversi, diverse maniere di pensare, studi diversi. Dove [p. 158 modifica]domina la giurisprudenza, dove l’antiquaria; quì il latino, là il volgare, le belle lettere in un luogo, le matematiche nell’altro, chi esalta unicamente il Zappi, il Chiabrera e Guidi e Lorenzini, chi non vuol altro che Dante e Petrarca, chi pregia sol Metastasio, chi stima solo Gravina, chi vuol commedie, chi pretende tragedie. Ciascuno di questi gusti è l’ottimo, e l’unico e vero di quella città, dove esso regna, la qual disprezza e deride la sua vicina, e tutte le altre con tutti i lor gusti. Mi pareva ben dilettevole andar cambiando nazione e costumi cambiando i cavalli da posta, e trovare della novità, ch’è il premio d’un viaggiatore, ad ogni passo. Ma mi nojava eziandio il non saper mai dove fosse l’Italia, e dove prenderne giusta idea. Roma pretende dar legge a tutti, il suo nome le basta. Firenze ha la crusca, e ha avuti i Medici; ma Bologna è la madre degli studi, ed ha l’Istituta, che val ben più d’ogni accademia; ma Torino, Padova e Pisa hanno università; ma Venezia ha dell’ingegno, de’ libraj, e de’ torchi più d’ogni altra: ma Napoli e Genova han de’ danari, Milano [p. 159 modifica]delle buone cucine, e l’Ambrosiana, Verona l’anfiteatro e Maffei, e tutte alcun titolo, alcuna ragione e diritto per incoraggire i suoi letterati, e dar pascolo alla lor vanità. Ognuna alza il suo tribunale, ha il suo parlamento letterario e comanda nel suo distretto quanto Londra all’Inghilterra, Parigi alla Francia in materia d’opinioni sovranamente. A dire il vero io penso, che se in fatti l’Italia tutta avesse un centro, un punto d’unione, sarebbe più ricca d’assai nell’arti, nelle lettere e forse nelle scienze, che non qualunque altra nazione. Ma questo disgregamento, che produce poi la discordia, la gelosia, l’opposizione d’un paese coll’altro, fa parere a chi non esamina, che gl’italiani siano più poveri che non sono, e più ridicoli. Perchè di ciò nasce, che i più piccoli pedantucci, i sonettisti fanno figura e autorità nelle piccole loro letterarie combriccole, onde è piena l’Iralia di tai letterati plebei, di veri insetti della letteratura. E al contrario gli uomini dotti e di merito non vi hanno quel credito, che lor si dovrebbe, anzi spesso si trovano esposti [p. 160 modifica]alia critica, cioè agl’insulti e alle insolenze d’ogni più vile scrittore. Quindi son timidi, circospetti, e non fanno quel bene alle lettere, che farebbero co’ loro studi, se fossero più sicuri e avessero la conveniente autorità. Lì dove in Londra e in Parigi, dove sono raccolti tanti grand’uomini, e posti in luogo elevato, onde tutta la nazione vede la loro luce, e la rispetta, non temono fuorchè i loro pari, e intanto la plebe de’ poetastri, de’ gazzettieri, de’ libercolanti va strisciando nel suo fango, e non giunge a nojarli. Costoro son fuochi fatui, che spariscono subito senza far tetro ai pianeti, sono effumazioni, che il Sole dilegua e strugge. Ma in Italia, dove non è un Sole, dove i pianeti sono radi, o troppo dispersi, un vapore diventa una nuvola, e si fa un turbine una tempesta d’ogni piccola esalazione. Questo male è comune in Italia a molte classi e generi di persone. V’è la stessa diversità nel vestire e nelle mode, benchè tentino d’aver tutti le mode di Francia, non ci riescono, perchè ogni provincia [p. 161 modifica]le accomoda a se, le riceve più tardi, le varia, onde si vedono le cuffie e le parrucche di un secolo vicino a quelle d’un altro, un guardinfante rotondo con un ovale, le buccole della Montespan col chignone della Pompadour. Nel giro d’Italia d’un anno poteste fare la storia dei vestiti e delle mode d’un’età intera col fatto alla mano. Giugne a Torino l’ultima stoffa di Persia e di Parigi, quando è in voga a Messina o a Trento qualche stoffa a gran fiori, e argento delle prime fabbriche di Lione. La galleria famosa delle scarpe, delle berrette, de’ ventagli ec. antichi e moderni, barbari e nostrali, che è in collegio romano, è inferiore a questa galleria di tutta Italia. Qualche cosa di somigliante si trova in Germania, perchè la costituzione di quello stato è presso a poco la stessa. Ma la letteratura tedesca, come il lusso, non sono in quel fervore come l’italiana, o sia per la lentezza in ogni cosa maggiore tra i boreali e per la maggiore vivacità tra i meridionali, o perchè la lingua tedesca non è ancora del tutto ripulita e usata nei libri, oppure, [p. 162 modifica]il che credo più vero, perchè le arti, le lettere, e la coltura sono in Italia, come in clima nativo, e germogliano da per tutto, e vivono anche nell’abbandono di premi e di mecenati. Ci vuol pazienza, ma egli è certo, che i pittori, i poeti, i belli ingegni, i pronti artisti nascono a centinaia tra voi, e uno per volta tra noi, e anche in Francia, che che ne dicano i parigini, che credono tutta la Francia simile alla capitale. Essi non sanno o non vogliono saperlo, che un architetto, un teatrista passabile è più raro a trovarsi nelle provincie, che non un finanziere amabile a Parigi. Io mi son dilettato d’esaminar questo punto, ed ho trovata l’Italia come la Grecia ricca di se medesima, e di spontanei talenti, e la Francia e la mia patria benchè tanto inclinate alle arti, e a far la fortuna degli artisti, hanno difficilmente di quell’opere e di quegli uomini, che manda l’Italia per tutto, e di cui l’Europa tutta provvedesi. Ma questo lusso medesimo italiano nuoce all’Italia. Pochi trovano delle corti, dei principi, dei milordi, che gli adoprino. Re[p. 163 modifica]Restano in picciole città, e fan poco. Son costretti a lavorare alla giornata, o a far di capriccio. Ed ecco un popolo di mediocri e di sciocchi. Vedetene la chiara prova nei lor poeti, che sono tra tutti gli artisti in maggior numero, vanno a finire nelle Raccolte; questo è il lor premio, la loro gloria. Pochissimi arrivano ai sublime di una cantata per qualche signore, che gli paga con l’onore di proteggerli e con qualche cena, ove tra la nobiltà si fanno deridere: come dice Luciano in quel suo bel quadro del corteggiare i grandi; pochissimi all’onor di servire una truppa di comici con tante commedie per mese e tanti ducati per commedia; il resto si scarica nelle Raccolte. Che compassione insieme e che riso mi movea questa usanza italiana, e solamente italiana! Mi pareva la poesia, massimamente a Venezia, un curioso mestiere, una nuova manifattura, un lanifizio. Mi son trovato agli sposalizi più d’una volta, ne ho vednti i preparativi, e le feste più solenni. I poeti vi lavoravano al pari de’ falegnami, de’ pittori, degli stuccatori, e de’ [p. 164 modifica]sti, col solo divario che aveano paga più discreta di tutti gli altri. Mi son preso piacere una volta di contare que’ componimenti in foglio volante, che addobbavano le botteghe, i palazzi, le strade. Sonetti in lingua veneziana, in paesana, in toscana; altri con la coda, altri nò, canzoni d’ogni metro, capitoli ec. Questo addobbo pareggiava quel de’ damaschi, e de’ tappeti. Pure è questa la vanguardia delle galiotte o delle lancie, i libri e i volumi di poesia formavano il corpo della flotta. Otto diversi ne ho veduti per un solo procurator di s. Marco, e stampati con pompa e spesa grandissima. Maggior lusso di stampe non vidi in opere scientifiche ed importanti. Caratteri e carta sceltissimi, vignette e finali de’ più valenti incisori, sino a fare cornici leggiadrissime e dispendiosissime di fino intaglio ad ogni pagina; talchè talora il più detestabil sonetto si trova ricamato tutto all’intorno con più nobiltà, che mai noi fu alcuna ode d’Orazio, ed alcun salmo di David. Un vetro contorniato di brillanti. Mi disse un gentiluomo, che uno di questi libri era costato [p. 165 modifica]più di mille ducati a stamparlo. E con qual frutto? Se ne mandano i fasci di tai libri alle case, come si mandano de’ panieri di fiori o di confettura ai convitati, parenti e amici. Hanno i libri un medesimo fine. Passano in mano delle cameriere e degli staffieri; perisce tutto lo stesso giorno: e mentre s’odorano i fiori, si gustano i dolci o poco o molto, nessuno legge i versi nè poco nè molto. Ma nondimeno al primo sposalizio tornano nuove Raccolte, e una donna non si crederebbe ben maritata se le mancasse l’equipaggio dei versi e la fornitura delle Raccolte. Credo, che se ne faccia un articolo dei contratto matrimoniale. Tutta la parentela sta ad occhi aperti, tutti gridano contro l’abuso, tutti lo vogliono. A voi altri non fa più tanta specie. Ma un forestiere, e permettetemi dirlo, un inglese ancor meglio se ne diverte in cuor suo più che non credete, benchè non insulti e derida come tanti francesi le vostre lettere e la poesia, che credono essi in Italia non esser buona ad altro. Ma che volete che dica, quando sente in piazza di s. Marco improvvisare in [p. 166 modifica]rima, e tirar tutto il mondo ad udirli, come poeti mirabili gli stessi ciurmatori, e saltimbanchi? Non ci mancava per avvilire il linguaggio degli Dei, l’arte di Febo e delle muse, che vederla tra i bossoli dell’Orvietano, e le scimie de’ cavadenti. Non nego esser pregio di vostra lingua, ed unico pregio quello d’improvvisare: sebbene io lo abbia sempre assai sospettato d’impostura; e avendomi poco prevenuto in suo favore l’aver sempre incontrato in varie cittì d’Italia, che gl’improvvisatori erano religiosi1, gente a mio credere nata a tutt’altro, ed educata in cose e studj molto più serj, che i versi non sono. Nè gli uomini di garbo, come si dicon tra voi, non gli ho trovati assai favorevoli a quella gente, che lor parea profanare il sacro abito e la poesia insieme; tanto più, che non eran buoni poeti in iscritto, nè dotti fuorchè in [p. 167 modifica]superficie. L’abate Rolli, essendo io giovare, udii più volte parlarne con dello spregio, benchè avesse improvvisato anch’esso talvolta con grande applauso. Ed anche per questo condanno l’abuso della vostra poesia, non meno che per le Raccolte, e compatisco monsieur de Faì.... che fece mettere alle sue livree per passamani que’ fregi d’una Raccolta, e si compiaceva d’avere al suo servigio tanti poeti, quanti nè Augusto, nè Mecenate non potè averne. Addio.

  1. Il p. olivetano Zucco, il p. agostiniano Cristiani, il p. dominicano Luci; il p. Panicelli paolotto, e sino a’ francescani, carmelitani scalzi ec.