Leila/Capitolo XV
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CAPITOLO DECIMOQUINTO
O mi povr’om!
I.
L’indomani mattina alle cinque e mezzo, mezz’ora prima della partenza del treno, Lelia era già sul piazzaletto della stazione di Arsiero con Teresina e Giovanni che aveva portata la valigia. Si sentiva osservata dalla cameriera e la prese a parte, le disse di sorvegliare Giovanni e la cuoca che, secondo lei, se la intendevano. Quindi le diede disposizioni minute per il giorno in cui sarebbe ritornata. Disse che avrebbe mandato un telegramma. Voleva il bagno pronto e molti fiori in camera. Teresina ne fu confortata.
Intanto arrivò la Fantuzzo colla serva, trafelata perchè temeva di essere in ritardo. Subito dopo le due signore salirono nel treno un ufficiale del genio e un ufficiale degli alpini. La siora Bettina sedette in faccia a Lelia, le posò accanto la propria valigetta, perchè a nessuno dei due esseri terribili venisse l’idea di occupare quel posto. Appena il treno si mosse, cominciò a dire il rosario. Lelia calò il vetro del finestrino, si affacciò a guardare, aspettando che passasse il villino delle Rose. Passò. Tutte le imposte erano chiuse, tranne quella della camera di donna Fedele. La fanciulla cessò di guardare dal finestrino, simulò di voler dormire. Poco dopo la stazione di Seghe, la siora Bettina le toccò leggermente un ginocchio. Aperse gli occhi. Passava San Giorgio col suo cimitero, il riposo del povero signor Marcello. Ella guardò, guardò, non udì cosa volesse da lei la sua compagna. Voleva pregarla di non dormire, di tenersi pronta per il prossimo trasbordo. I trasbordi erano un incubo per la povera donna. Lelia sorrise, rispose che c’era tempo, chiuse gli occhi daccapo. Dopo due minuti, altre chiamate. La compagna, turbatissima, non si trovava più il biglietto. Ella cercò, più tardi, di tirar la tendina, non vi riuscì, subì con terrore l’aiuto di un ufficiale. Fatto il trasbordo, tremò di avere dimenticato un ombrellino ch’era stato invece raccolto da Lelia. A Dueville salirono nel treno due individui maleducati che si misero a discorrere di preti e di Perpetue in un modo detestabile. I grani del rosario le ripresero a scivolare fra le dita, le labbra le ripresero, convulse, a battere e ribattere. Finalmente il treno entrò nella stazione di Vicenza e la siora Bettina ne discese, molle del sudore di tante diverse angoscie, beata come se prendesse terra dopo giorni di mare burrascoso.
Consegnati i loro bagagli al deposito, le due signore si fecero portare al Santuario in carrozzella. Non erano ancora le otto e il programma era di partire per Verona e Desenzano verso le undici. Nel Santuario la Fantuzzo domandò del Padre che conosceva. «Se permette» disse a Lelia, «mi confesso prima io.» Lelia non rispose. Quando il Padre venne e si chiuse nel confessionale per confessare la siora Bettina, Lelia si avvicinò a un altro confessionale, più vicino alla sagrestia, nella parte più oscura del tempio, dove la Fantuzzo difficilmente avrebbe potuto vederla. Anche quel confessionale era occupato. Pochi minuti dopo, la contadina che vi stava s’alzò. Il Padre uscì, si guardò attorno, guardò Lelia, la sola persona vicina, e, poichè non dava segno di volersi confessare, se ne andò in sagrestia. Anche la siora Bettina si alzò e si guardò attorno, inquieta. Allora Lelia uscì dell’ombra, andò a dirle che si era già confessata. Uscì una messa all’altar maggiore. Al Domine non sum dignusla siora Bettina si alzò dalla sedia per accostarsi alla balaustrata, aspettò un momento che Lelia facesse altrettanto. Vide che non si moveva, non osò parlare, andò alla balaustrata per ricevere la Comunione.
Uscendo dal pio raccoglimento, pensò che Lelia, prima di lasciare la Montanina, avesse rotto, per distrazione, il digiuno. Era però anche possibile che la ragazza non fosse stata sufficientemente disposta, in quel momento, e aspettasse un’altra messa. L’orologio del campanile suonò le nove. C’era tempo. Un sacerdote in cotta e stola salì all’altar maggiore, alcuni fedeli si accostarono alla balaustrata. Lelia non si mosse. Quando il sacerdote rientrò in sagrestia, la siora Bettina raccolse tutto il suo coraggio che le bastò per la metà di una domanda:
«Ela, benedeta, La scusa, no La ga intenzion...?»
Lelia non durò fatica a indovinare l’altra metà.
«Aspetto di farlo domani a Castelletto» diss’ella.
La Fantuzzo stette un altro quarto d’ora in preghiera e vi sarebbe stata più a lungo, povera e buona creatura, se Lelia, invece di attendere un cenno di lei, non si fosse alzata in piedi, mostrando chiaro di averne abbastanza.
Discesero a piedi. La siora Bettina non aperse bocca per un gran pezzo. La bugia le era dura a metter fuori. Finalmente, sul ponte del Campomarzo, il consiglio frodolente prevalse alla natura buona.
«Signorina» diss’ella, tremando «non mi sento tanto bene. Se facessimo un piccolo cambiamento? Se invece di andare a Castelletto, si andasse solamente a Padova, ora? Se si facesse una visita al Santo? Se più tardi mi sentissi meglio, non si potrebbe arrivare ancora questa sera a Castelletto?»
Lelia, sorpresa, esitò a rispondere. Poi prese tempo. Avrebbe consultato l’orario. Studiò silenziosamente l’orario al caffè della stazione. Trovò, e gliene lucevano gli occhi di contentezza, che partendo da Padova alle quattordici e cinquantadue era possibile di arrivare a Castelletto alle diciannove e cinquantacinque. Erano allora le dieci e mezzo. Il treno per Padova partiva alle undici e otto minuti. Il cameriere del caffè portò i due caffè e latte ordinati. Lelia prese il suo, lasciò passare altri cinque minuti e poi disse che usciva per mettere una lettera nella cassetta postale e per comperare delle cartoline illustrate. Offerse anche di prendere i due biglietti per Padova. La siora Bettina accettò e voleva darle subito il danaro.
«Faremo i conti dopo» disse Lelia, alzandosi. E soggiunse, nell’avviarsi:
«Seconda classe?»
«Seconda seconda» rispose piano la Fantuzzo con un blando, umile sorriso. Quella uscì. Dopo dieci minuti Lelia non era ancora ritornata.
Qualcuno gridò nel caffè:
«Verona, Brescia, Milano!»
La siora Bettina mostrò tanta inquietudine che il cameriere del caffè, preso il vassoio e strofinato il tavolino, le domandò se dovesse partire.
«Sicuro!»
«Per dove, signora?»
«Per Padova.»
«Oh per Padova c’è tempo. Altri venti minuti, signora.»
I minuti passavano e Lelia non ritornava. La siora Bettina, non potendo più stare alle mosse, ne andò in cerca. Nell’atrio della stazione, attiguo al caffè, non c’era. Le parve intravvederla fra la gente che faceva ressa agli sportelli dei biglietti. Non era lei. Vide e riconobbe il facchino che aveva portato i loro bagagli al deposito. Gli domandò se avesse veduta la sua compagna. Il facchino rispose di sì. Anzi le aveva portato egli il bagaglio al treno e l’aveva collocata bene.
«Ma no!» replicò la Fantuzzo, impaziente. «La mia compagna non è mica partita, è qui!»
Il facchino insistette:
«Non signora. Le dico ch’è partita. Cinque minuti fa, col treno di Milano.»
Perchè la siora Bettina protestava ch’egli era in errore, le domandò, alquanto risentito, se la sua compagna non avesse una spolverina cenere con bottoni blu, grandi, un cappello blu con un velo cenere, dei guanti cenere, un ombrellino blu col manico d’oro. Sì, aveva tutto questo. Ebbene, la signora era uscita dal caffè, aveva messo una lettera nella cassetta postale, era andata con lui a ritirare il suo bagaglio dal deposito, aveva preso il biglietto, si era fatta portare il bagaglio nella terza classe benchè avesse un biglietto di prima e, appena arrivato il diretto da Padova, aveva presa la corsa, v’era saltata dentro come un gatto. Il facchino le aveva chiesto nella sala d’aspetto se l’altra signora non viaggiasse con lei. La risposta era stata che l’altra signora andava a Padova.
La disgraziata siora Bettina sentì che le venivano meno la vista e le gambe. Se il facchino non l’avesse sostenuta, cadeva. Subito le furono attorno quattro o cinque persone, la portarono, più che non l’accompagnassero, al caffè, volevano farle inghiottire del marsala ch’ella rifiutò con tutta la poca energia di cui era ancora capace. Uno zelante le spruzzò dell’acqua in viso «No no, el capelo!» gemette l’infelice, temendo che le annaffiassero il cappello: una rovina! Visto che i guai non erano troppo serii, restarono con lei soltanto la giornalaia della stazione e il cameriere del caffè. «Gnente gnente» ripeteva la giornalaia, a caso. «La vedarà, signora, la vedarà, signora.»
«Oh Dio» gemette la siora Bettina quando si fu alquanto ricuperata. «Quela xe andà in convento, quela xe andà in convento. E mi che son qua sola!»
Parve alla giornalaia che il suo sgomento di trovarsi sola superasse il dolore della fuga di quell’altra. Le domandò se quell’altra fosse sua figlia. «Gesummaria no» rispose la derelitta. Si alzò a stento dicendo che voleva ritornare ad Arsiero subito subito. Il cameriere corse fuori e ritornò colla notizia che il treno di Arsiero era partito da cinque minuti. Intanto capitò nel caffè un applicato di P. S. e si avvicinò alla Fantuzzo per chiederle informazioni di questa fuga di cui tutti, nella stazione, parlavano. La Fantuzzo si confuse come se avesse a fronte il ministro dell’Interno. Allora l’applicato, per usarle cortesia, le domandò se supponesse quale direzione avesse preso la sua compagna e se desiderasse venirne in chiaro. La siora Bettina rispose che la credeva diretta a Desenzano. L’applicato andò a informarsi. Riferì che nessun biglietto era stato preso per Desenzano.
II.
La lettera di Lelia, imbucata nella cassetta postale della stazione di Vicenza, arrivò a donna Fedele verso le sette di sera. Donna Fedele, volendo risparmiare le proprie forze per il viaggio di Torino, non si era mossa in tutto il giorno dalla poltrona. Soffriva, ma in pace. Si credeva prossima alla fine. Aveva risoluto di farsi operare perchè, giunte le cose a quel punto, dubitava di esservi obbligata in coscienza e il solo dubbio era bastato a deciderla. Prevedeva che l’operazione, fatta da Carle, riuscirebbe e che poi, molto presto, verrebbe la fine. Si sentiva troppo disfatta per poter vivere ancora dei mesi. Era contenta di soffrire, di espiare così molti peccati di pensiero della sua giovinezza: peccati di amore, peccati di orgoglio, nati, vissuti e morti nel fondo della sua mente, sussurrati nell’ombra del confessionale, non interamente detersi dall’anima afflitta. Era contenta di soffrire e anche di sapere che presto non avrebbe sofferto più. Aveva ricevuto, la mattina, una buona lettera di don Aurelio. Egli le scriveva che si sarebbe recato in Valsolda nella prossima occasione del trasporto della salma del povero Piero Maironi da Roma a Oria. Era disposto di trattenersi alcuni giorni presso Massimo, confidava di guarirlo, coll’aiuto di Dio, da una depressione di spirito che gl’intorbidava anche l’intelletto. Ell’aveva immediatamente risposto al venerato amico, informandolo dell’ultima lettera di Alberti, parlandogli anche di Lelia che, secondo lei, amava e lottava, per orgoglio, contro l’amore, che, probabilmente, avrebbe finito col cedere alla passione. Pur troppo Lelia non avrebbe portato ad Alberti, coll’amore, un aiuto spirituale. Quanto a fede, a sentimento religioso, quell’anima era fatta un deserto. Donna Fedele esprimeva la convinzione che Iddio riserbasse a don Aurelio il compito di riedificarvi Cristo e la Chiesa.
Annunciava quindi il suo prossimo viaggio a Torino, e, vagamente, lo scopo del viaggio. Avrebbe telegrafato l’ora del suo passaggio da Milano, nella speranza di salutar l’amico alla stazione. Chiudeva la lettera celiando su certo vecchio scialle ritinto che avrebbe portato in viaggio, malgrado il caldo, la povera vecchia cugina Eufemia, sulle due viaggiatrici intontite come barbagianni al sole, cui gli sarebbe stato facile di riconoscere fra la gaia folla del Ristoratore.
Ora, guardando dalla poltrona le scogliere grandi del Barco, ancora calde del sole appena scomparso, ella faceva la rassegna mentale degli oggetti che le ricordavano persone care, eventi memorabili, e che desiderava di avere con sè ove le toccasse di morire a Torino. Tutto il resto del bagaglio era affidato alle cure della cugina Eufemia. Appunto la cugina interruppe le sue meditazioni. Le portò la Posta e anche un piatto con sei trotelle dell’Astico, che l’ammalato di Seghe le aveva mandate in regalo. Donna Fedele invidiò il povero tisico che sarebbe morto nel suo paese, nella sua casa. La cugina se ne andò colle «povre bestie» e donna Fedele cominciò a leggere la sua corrispondenza. La prima lettera veniva dal Mauriziano. Diceva che la camera era pronta e che il professore l’avrebbe visitata la mattina dopo il suo arrivo. La seconda era una lettera del suo agente di Torino che ripeteva le stesse cose e chiedeva un telegramma al momento della partenza da Arsiero. La terza e ultima era quella di Lelia. A prima giunta donna Fedele non riconobbe la calligrafia dell’indirizzo. Aperse e, prima di leggere, guardò la firma. Esclamò a voce alta: «per la Posta?».
Spalancò gli occhi fin dalle prime righe. Procedendo nella lettura frenò a stento un’altra esclamazione, si drizzò sulla persona, rilesse.
«Oh Dio Dio!» diss’ella e aperse le mani. La lettera le cadde in grembo. Diceva:
Cara amica,
Sto per salire nel treno che da Vicenza mi porterà verso Dasio. Vado a dirgli che sono stata colpevole e folle; che, se mi vuole, sono sua per sempre.
Mio padre non sa e non deve sapere che il più tardi possibile. Per riuscire nel mio intento ho finto e mentito da figlia vera e legittima di lui.
Mi perdoni. Quello che faccio è un atto di amore, di umiltà e di giustizia. Devo a Lei la risoluzione e la forza di compierlo. Non mi rimproveri, mi getto nelle Sue braccia, mi benedica.
Lelia.
Il giorno moriva e la cugina Eufemia ritornò per chiedere all’ammalata se desiderasse un lume, se volesse mettersi a letto. L’ammalata rispose, colla solita dolcezza tranquilla, che desiderava restar sola fino a che avesse suonato. La vecchietta si ritirò. Ritornò dopo un’ora, inquieta di non essere ancora stata richiamata. Spinse l’uscio pian piano, spiò. Vide nel vano della finestra, nera sul cielo sereno di stelle, l’alta figura di sua cugina. Le parve che piegasse il viso, in atto di preghiera sulle mani giunte. Si ritirò, inavvertita. Pochi minuti dopo, ecco il colpo di campanello. Entrò in camera con un lume. Donna Fedele, adagiata sulla poltrona, le fece scrivere sotto la sua dettatura due telegrammi da spedire l’indomani mattina. Il primo, a Massimo Alberti, diceva: «quel giovine sia cristiano e gentiluomo.» Il secondo, al suo agente di Torino, diceva: «Avverta Mauriziano che, per circostanze imprevedute, differisco.»
«Oh mi povr’om!» esclamò la cugina Eufemia, invece di scrivere «differisco». Non voleva scriverlo, come non avrebbe voluto scrivere una sentenza di morte. Cosa era mai accaduto? Le circostanze imprevedute erano senza dubbio saltate fuori da quelle lettere. Per quali chiacchiere scritte si doveva differire una cosa tanto necessaria, tanto urgente? Donna Fedele andò quasi in collera.
«Scrivi!» diss’ella. La cugina gemette «o mi povra dona!» e scrisse. Donna Fedele, aiutata da lei, si spogliò. Quando fu a letto, si fece portare l’orario delle ferrovie, lo sfogliò, lo meditò e finalmente dettò alla cugina un terzo telegramma, diretto a don Aurelio:
«Sarò Milano...»
«Là là!» fece la cugina Eufemia, scrivendo, contenta di apprendere che a ogni modo si partiva e si andava verso Santhià.
«Posdomani, vuoi dire?»
«No, domani.»
«Domani?»
La cugina, esterrefatta, rimase a bocca aperta. Domani era venerdì. Donna Fedele continuò a dettare:
«... alle ventitrè. Prego fissarmi due camere albergo Terminus. Scuse. Saluti.»
«Ma partire domani» esclamò l’Eufemia «è impossibile. Bisogna fare i bauli questa notte!»
«Non si parte mica domattina» rispose donna Fedele. «Si parte nel pomeriggio e non si portano bauli.»
«Non si portano bauli?»
Donna Fedele riflettè alquanto. Sì, la cugina poteva portare il suo baule. A lei bastavano una valigia e una borsa. La cugina ammise che, così stando le cose, si poteva partire. Il baule suo era piccolo e mezzo fatto. Donna Fedele le raccomandò i telegrammi e la carrozza da ordinare ad Arsiero per le due. Poi la congedò.
Rimasta sola, liberò con tenerezza le due lagrime più dolci della sua vita, che non aveva voluto mostrare alla cugina. Nella sua silenziosa meditazione, ell’aveva pensato il sacrificio della propria vita; e stando alla finestra, nel cospetto delle stelle, lo aveva solennemente offerto a Dio. Aveva offerto la propria vita perchè due anime allontanatesi da Dio ritornassero a Lui; perchè la fanciulla nella quale Marcello aveva religiosamente amata e onorata la memoria sacra del figliuolo morto, uscisse incolume da un periglioso cimento. Era il pensiero di donarsi così che le aveva mosso lagrime di tenerezza, che le spirava questa felicità. Non andrebbe a Torino, rinuncerebbe all’operazione, che non l’avrebbe certamente guarita. Raggiungerebbe invece la folle figliuola in Valsolda, s’imporrebbe a lei in memoria di Marcello, s’imporrebbe ad Alberti in memoria di sua madre. Sulle prime aveva pensato di condurre con sè in Valsolda la cugina Eufemia. Ora era decisa di mandarla a Santhià, di andar sola. Vedendomi arrivar sola, pensava, da lontano, in questo stato, ne avranno una impressione maggiore.
Si vide tutta davanti agli occhi la propria vita. Le parve tanto vuota, tanto scarsa di bene; stimò tanto dolce di poterla chiudere così. Supina, giunte le mani sul povero corpo addolorato e anche deformato, ringraziò Dio del dono di una tal fine. E sentì corrersi dentro un’onda di ristoro, sorrise, nelle tenebre, a sè stessa, sorrise anche alle immaginate figure di suo padre, di sua madre, dei nonni che l’avevano tanto amata da bambina, che la guardavano contenti di lei, del suo sacrificio pio, contenti di averla presto con sè. Accese la luce, tolse dal cassetto del tavolino da notte un libretto prezioso, un diario scritto da sua madre morta a ventidue anni, nel metter lei al mondo. Ne lesse le ultime parole:
«Benedite, o mio Dio, l’angioletto che aspetto, perchè sia sempre Vostro»
Chiuse il libriccino, mormorò, beata: «per sempre, per sempre.» Sì, la sua mamma doveva essere contenta ora, in paradiso, di lei. E la nonna, la vecchia nonna che le insegnava a pregare, che le raccontava tante belle fiabe? Vi era nel libriccino un foglietto staccato di carta rosea, una preghiera scritta per Fedele dalla mano stanca della nonna cara, morta da quarant’anni. Fedele la sapeva a memoria. Volle rivedere la scrittura della mano stanca:
«Gesù, infinitamente umile, distruggete la mia superbia e il mio amor proprio. Gloria al Padre, gloria al Figlio, gloria allo Spirito Santo. Gesù, modello di dolcezza, datemi una perfetta dolcezza, una somma carità verso i miei prossimi. Gloria al Padre, gloria al Figlio, gloria allo Spirito Santo.
Virtù a praticarsi:
Silenzio in tutte le contrarietà.»
Sì, nonna cara, silenzio nelle contrarietà e silenzio anche nella consolazione. Fedele ripose il libriccino, spense la luce, si fece silenzio nel cuore pieno di Dio.
III.
La cameriera le portò il caffè alle sette, e le raccontò la fuga di Lelia. L’aveva appresa dal custode, cui era stata raccontata, la sera, da un ferroviere all’osteria della stazione. Anche la donna venuta allora allora a portare il latte, lo sapeva. Alle nove, mentre la cugina Eufemia era infervorata nei preparativi della partenza, capitò Teresina, piangente. Sperava che donna Fedele sapesse qualchecosa. La cugina Eufemia, convinta che Fedele non sapesse niente e desiderosa che non fosse disturbata, congedò Teresina con queste ragioni appunto, non senza, però, averle chiesto cosa ne pensasse il padre. Teresina lo ignorava. Il sior Momi era partito per Vicenza coll’idea, pareva, di rivolgersi alla questura. La Fantuzzo credeva che la signorina fosse fuggita in un convento. Anche Teresina ne aveva dubitato, sulle prime, per certe apparenze, ma poi si era messa in testa che la signorina avesse simulate quelle apparenze, che fosse andata «a precipitarsi». Era stata un’altra volta sull’orlo del precipizio! Partita Teresina, la cugina Eufemia riferì le sue supposizioni a donna Fedele. Questa non disse parola, scrisse a Teresina così:
«Cara Teresina,
Mi duole non averla veduta. La sventura ch’ella teme non è da temere. Ho in proposito una promessa solenne di Lelia. Saluti affettuosi.
Sua
F. V. di B.»
Scrisse un altro biglietto per l’ammalato di Seghe, da fargli avere con alcuni libri di lettura amena e con una sua fotografia, promessagli da tempo. Un terzo ne scrisse alla scolaretta di francese, per annunciarle che le lezioni erano interrotte e per darle un compito, questo tema di composizione: «La mort de la cigale.»
Si sentiva relativamente bene. Comprendendo che il miglioramento le veniva dalla soddisfazione morale, temette di compiacersi orgogliosamente del proprio sacrificio, si disse che, offrendo la vita, offriva realmente una cosa senza valore, una cosa che non le apparteneva quasi più, un lume in procinto di spegnersi. Poco prima di lasciare il villino ebbe un momento di debolezza. Seduta nella veranda, indicava al custode armato di forbici, una dopo l’altra, le poche rose che porgevano ancora qua e là dal verde, malinconicamente, la loro bellezza non ignara del tempo e del diradato riso. Voleva portarle con sè. Ad ogni cader di una rosa nel piccolo canestro, lo spirito dolce e triste che le aveva mosso quel desiderio le entrava più e più addentro nell’anima. Era l’idea di un simile cadere imminente della propria giornata, era pietà delle rose e di sè stessa, era la parvenza di un lutto delle piante amorose, del fido villino, il sapere ultimi, per lei, quei fiori, che la inteneriva? Era tutto questo insieme? Era tutto ed era niente; ella stessa non l’avrebbe saputo dire. Il custode le posò davanti colmo il piccolo canestro. «Ancora?» diss’egli. «No» rispose sommessa la voce d’oro «basta.» Colui si ritirò in silenzio, triste anch’egli perchè sapeva dell’operazione, sapeva del pericolo e la signora era poco meno che la Madonna per lui, come per sua moglie. La presenza di quell’uomo aveva compresso un poco l’intenerimento mesto di lei. Sola, nel silenzioso soffio del vento di mezzogiorno per le frondi delle rose e per il piazzaletto deserto, cedette alla dolcezza di una crescente marea di commozione, sentì, quasi scendendo in una sfera inferiore a quella dei suoi contatti coll’eternità, il tacito addio delle cose al suo cuore mortale, il tacito addio del suo cuore mortale alle cose. Nel basso la gran conca verde rideva inconscia, di là non veniva un addio. Ma il Barco sapeva, il Summano sapeva, la Priaforà sapeva, le tre montagne guardavano Fedele come figure mute intorno a un letto guardano l’uomo che, guardando esse pure muto, vi muore. Ella si accorse che stava per commuoversi troppo, non volle. Le comparve improvvisa la cugina Eufemia, pronta per la partenza, infagottata in un suo famoso scialle, tinto e ritinto. L’ultima volta lo aveva fatto tingere da un «pitòr de Türin» come aveva disgraziatamente detto a donna Fedele. Il colore cappuccinesco tabaccoso, dell’indumento la diedero in preda mansueta, per sempre, ai motti di donna Fedele che anche ora ne fece strazio, ridendo nervosamente. Contenta di vedere allegra l’ammalata, la cugina Eufemia rise pure del proprio scialle, del proprio povero vecchio sè.
Quando le viaggiatrici si mossero per salire in carrozza, il vetturino e la cuoca discorrevano di Lelia. La cuoca, memore di quell’altro sinistro tentativo di fuga, sosteneva che Lelia era fuggita per andarsi ad ammazzare chi sa dove. Per il vetturino, più filosofo, era vangelo che se le ragazze scappano è per fare all’amore e non per ammazzarsi. Durante il tragitto dal villino alla stazione, lo scialle tabaccoso non serviva più a tenere aperta la vena scherzosa di donna Fedele. Le giovò invece lo scoperto trafugamento di una trotella fritta. La cugina Eufemia, considerando ch’era venerdì, che all’albergo di Milano non avrebbe forse potuto cenare di magro e che le trotelle dell’Astico sono squisite, si era fatta friggere dalla cuoca, di soppiatto, una delle sei «povre bestie». La imprudente cuoca si lasciò udire da donna Fedele a sussurrare presso l’orecchio della cugina Eufemia, indicando un porta-ombrelli: «quel cartoccio è lì dentro.»
Donna Fedele afferrò le parole a volo e tormentò di domande strambe la povera Eufemia. Cosa c’era nel cartoccio? Belletto? Un libro proibito? Lettere amorose? La cugina rideva, si contorceva, rispondeva: «A l’è niente! - a l’è niente! - a l’è niente! - » fino a che, inorridita dalle supposizioni atroci di donna Fedele, sparò il gran colpo: «Ma l’è na trüta!»
Allora fu peggio di prima. Nel passare presso la chiesa del camposanto di Arsiero, dove donna Fedele aveva fatto la comunione due giorni prima, e nella prossima discesa verso la stazione, in vista della Montanina candida come un dado di neve nel verde tenero fra i castagneti scuri, la voce scherzosa tacque.
Alla stazione la cugina Eufemia chiede dove debba spedire il suo baule. «A Santhià» dice donna Fedele. Ma come? Si va a Santhià? No, per quel giorno si va a Milano. Domani la cugina Eufemia andrà a casa e donna Fedele vedrà il da farsi. La cugina protesta. Donna Fedele insiste e vuole. Il bagaglio è spedito a Santhià.
Le viaggiatrici salgono. Passa frettolosa lungo il treno l’allampanata figura di don Emanuele. Egli va a prendere il biglietto, viene diritto alla carrozza dov’è donna Fedele, vede in tempo la cugina Eufemia e le volta le spalle a precipizio. La cugina lo racconta a donna Fedele. Il treno parte.
Donna Fedele chiuse gli occhi come se volesse riposare, in fatto per non vedere il caro paese che abbandonava senza speranza di ritorno. Si vide nelle palpebre l’allampanata figura, il viso pallido, gli occhi acquosi del cappellano. Si era confessata del male che aveva pensato e detto. Ora sentì di non aver più la menoma ombra di rancore contro quel povero uomo che si credeva servire Iddio per vie tortuose, con acri livori nell’anima, e non era senza scusa di conoscer male il Padre e Cristo, di non sapere quel che faceva. Anche per lui Gesù aveva chiesto sulla croce il perdono del Padre e il Padre non potrebbe lasciare inesaudita la preghiera del Figlio. Da questo pensiero le si diffuse in cuore un senso ricreante di pace. Ma subito il tenue malizioso spirito che aveva preso dimora in lei le sussurrò: pace pace, ma se fosse qui, vicino a te, ne proveresti un bel fastidio.
Nel caffè della stazione di Vicenza, dove le viaggiatrici dovettero sostare due lunghe ore, l’inferma ebbe momenti di angoscia. Prima la vettura incomoda del tram a vapore, poi i trasbordi l’avevano molto stancata. A un tratto le corse un formicolio freddo per le spalle e il petto, le si oscurò la vista. Prese un bicchierino di cognac, si riebbe. Ritornandole il calore e la vista, si atterrì di quel ch’era stato, tremò di non arrivare viva. Non aveva considerato, prima di partire, un tale pericolo. Ora il pauroso dubbio le si confisse nel cuore, e durante tutto il viaggio, fino a Milano, il suo pensiero tornava sempre lì, sempre lì, come il pensiero dell’uomo che ha una punta di spino in gola torna lì, sempre lì, anche se la sua ragione gli dice che non corre alcun pericolo e che sarebbe meglio pensare ad altro. Ella si crucciava sopra tutto per il viaggio dell’indomani, non sapendo se le convenisse affrettare la partenza da Milano per arrivare sicuramente alla meta o ritardarla e riposare per arrivarci in condizioni migliori. Passato Treviglio, l’idea che presto avrebbe riveduto don Aurelio la venne più e più riconfortando. Averlo compagno di viaggio fino alla meta, pronto sempre ad assisterla spiritualmente con i suoi poteri sacerdotali sarebbe stato un paradiso, per lei. Ma non sarebbe convenuto per un altro verso. Per avere quelle due anime nelle sue mani era necessario che la vedessero arrivare soletta, quasi morente.
IV.
Don Aurelio l’aspettava all’uscita della stazione. Ella gli sorrise del suo sorriso dolcissimo. Quel sorriso gli accrebbe la pena del vederla mortalmente pallida, sfigurata, quasi, anche nella persona. Egli avrebbe desiderato accomiatarsi subito dopo averle detto che le camere erano pronte, perchè gli dispiaceva di rincasare troppo tardi. Ella volle assolutamente ch’egli venisse al Terminus, lo trattenne nel salottino deserto, semibuio, dell’albergo. Gli raccontò tutto fuorchè la gravità del proprio stato e la sentenza del medico. Perciò don Aurelio potè crederla in grado di proseguire il viaggio l’indomani. Le consigliò la via di Porto Ceresio. Si dolse della follìa di Lelia; non era però inquieto circa la condotta che avrebbe tenuto Massimo. Ella se ne meravigliò un poco. Passione, solitudine, indebolimento di freni religiosi, tutto, secondo lei, favoriva gl’istinti. Ella conosceva, solo per esperienza interna, la potenza della passione molto meglio che non la conoscesse il purissimo don Aurelio per le confessioni udite. Nel prender congedo malgrado le insistenze di lei, don Aurelio le promise di ritornare l’indomani alle dieci. Ella intendeva partire per Porto Ceresio alle undici.
Passò una notte insonne, però quasi senza dolori. La mattina si sentì stanchissima, dubitò di poter partire alle undici, disse alla cugina e a don Aurelio che aveva deliberato, per maggiore comodità, di far colazione a Milano e di partire tre ore più tardi. Don Aurelio le diede la notizia gradita del suo prossimo viaggio in Valsolda. Aspettava che un telegramma gli annunciasse la partenza da Roma della salma di Benedetto. Un sacerdote l’avrebbe accompagnata fino a Milano. Per il pio ufficio da Milano a Oria era stato pregato egli. Aveva accettato per impedire che la funebre cerimonia fosse turbata da discorsi o atti degni del biasimo di colui che si voleva onorare, e anche perchè così avrebbe occasione di vedere Massimo. Gli amici di Roma avevano incaricato Massimo delle pratiche necessarie per la tumulazione nel cimitero di Albogasio e per un discorso sulla bara. Poche ore prima dell’arrivo di donna Fedele a Milano, don Aurelio aveva ricevuto da Massimo una triste lettera. Diceva di avere eseguite le pratiche ma di non voler fare il discorso perchè solamente un cattolico poteva farlo ed egli non si sentiva più tale. Don Aurelio lo riferì con gran dolore.
A colazione donna Fedele non potè prender cibo. Altri forestieri seduti a colazione la guardavano per i suoi capelli bianchi, per i suoi grandi occhi bruni, per l’aria sofferente, per la fisonomia e i modi di gran dama. Due signorine inglesi ne parevano affascinate. Preferì trascinarsi a piedi alla stazione anzi che salire nell’omnibus e scenderne per un tragitto di pochi passi. Fece montare nel treno anche la cugina per un congedo più riposato, le raccomandò col suo solito fare canzonatorio di non smarrirsi nella grande stazione, di non andare a Venezia o a Bologna invece che a Santhià. Più si avvicinava il momento della partenza e più la cugina si doleva di non avere maggiormente insistito per andare in Valsolda. Riprese quel tema, pregò, scongiurò. Donna Fedele si burlò di queste tardive istanze. «Santhià Santhià!» diss’ella. «Cosa vuoi venire a fare in Valsolda tu?»
«Euh!» replicò la vecchietta «a sarà poeui nen a la fin del mond!»
«Ma!» replicò donna Fedele. «Forse!»
La cugina tacque. Vedendo entrare parecchi viaggiatori in cerca affannosa di buoni posti, le si strinse il cuore. Mancavano pochi minuti alla partenza; dovette alzarsi per scendere. Il suo posto fu subito preso da una modesta signora di aspetto simpatico, che aveva con sè un cagnolino. «O mi!» mormorò l’Eufemia. «A jè dcò ‘l can!» La signora udì e si scusò timidamente. Il suo cane non avrebbe sopportato una separazione! Aveva un cuore! Ed era tanto savio!
«Non mi separerò neppur io» pensò la cugina Eufemia. «Non avrò meno cuore di un cane.» E simulò prender congedo, deliberata di salire in un’altra carrozza dello stesso treno, all’insaputa di donna Fedele.
Questa la salutò così:
«Ti raccomando le rose!»
E sorrise indovinando la stupefazione della vecchierella ben lontana dall’immaginare che le rose erano quelle del villino, che il villino sarebbe diventato un giorno proprietà sua e delle sue sorelle. La serena viaggiatrice immaginò anche l’ingresso nel villino delle tre proprietarie, delle tre vecchie fantasime vestite di nero, la loro dispersione immediata. L’Eufemia, la terzogenita, correrebbe subito a certo inginocchiatoio già da lei molto invidiato alla padrona di casa, la secondogenita andrebbe a esaminare la cucina e la primogenita, tenera di Bacco, scenderebbe in cantina. La signora modesta non le permise di perdersi a lungo dietro queste immaginazioni fra lugubri e comiche. Le pareva che non si sentisse bene, andò saggiando con domande la natura delle sue sofferenze, fece la storia di parecchie malattie di parenti e di amiche sue, le disse che andava a Varese a trovare una sua sorella madre di quattro bambini e che aveva preso Friend con sè perchè i suoi nipotini l’adoravano. Siccome donna Fedele, ogni tanto, non potendo chiudere le orecchie a quella parlantina, chiudeva gli occhi, colei si persuase che soffrisse di emicrania, le posò il cagnolino, con molte scuse, sulle ginocchia per cavar dalla borsa delle pastiglie di fenacetina. Insomma da Rho in poi Varese fu il sospiro di donna Fedele. La signora modesta vi discese molto contenta di sè e del suo cane, di avere fatto un’opera buona colla sua conversazione amichevole come l’aveva fatta il cane col suo silenzio. Il treno si vuotò quasi per intero. Nella carrozza dov’era Fedele non rimase che un giovine medico avviato da Pavia a una sua villeggiatura di Cuasso. Lo si era capito dalla conversazione tenuta con altri due giovani discesi a Varese. Egli si mise a guardare la sua compagna di viaggio con rispettoso interesse. Ella se ne avvide, ebbe paura che le leggesse in viso e nella persona il suo male, che gli venisse in mente di parlarle. Mise il capo al finestrino e non ne lo tolse più fino a Porto Ceresio.
A Porto Ceresio la prima vista del lago le fece una impressione indefinibile. Toccava la meta, oramai. Era sicura di giungere, di vederli; sentiva piacere, sgomento, ansietà. Il facchino che le prese il bagaglio, una valigia, una borsa, un porta-ombrelli, dovette accompagnarla al caffè perchè ella durava fatica a reggersi. «L’è pazzia, signora» diss’egli «andar attorno sola, così.» Ella lo pregò di venirla a prendere quando fosse il momento di salire a bordo.
La cugina Eufemia, tremante nella sua parte di cagnolino inseparabile, non si lasciò vedere, temendo una strapazzata coi fiocchi e l’ordine di ritornare a Milano. Si era proposta di comparire solamente quando non fosse più possibile mandarla indietro. Aveva un po’ sul cuore il baule andato a Santhià, ma pazienza!
Il battello per Lugano, che doveva arrivare da Ponte Tresa, non si vedeva ancora spuntare a sinistra dal prossimo promontorio boscoso dietro il quale il lago gira. Seduta fuori del caffè, sulla spianata che guarda il lago, donna Fedele assaggiò appena il latte che si era fatto portare tanto per ordinare qualche cosa. Mai le era battuto il cuore così forte. La spianata, sparsa di tavolini, era deserta. Era deserto lo specchio delle acque verdi, immobili, piene del sole ardente che aveva morto ogni fiato di vento. La bianca Morcote, là di fronte, vegliava muta le acque mute. La maestà delle montagne grandi accavallantisi dietro e sopra la tortuosa fuga del lago verso Lugano invisibile, spirava pace e riposo. Donna Fedele lo sentiva con rimpianto, non potendo aver l’una nè l’altro. Il battello di Ponte Tresa spuntò dal boscoso promontorio di ponente. Era vicino il momento di doversi trascinare alla tettoia dell’imbarco. Pochi passi; ma se il buon facchino non fosse venuto!... Ecco il buon facchino. Dice ch’è ancora presto ma che più tardi ha il servizio dei bagagli e non potrebbe venire.
Donna Fedele si alzò stentatamente. Si figurò la cugina Eufemia nei suoi panni, si disse nel cuore:
«O mi povr’om!»
E prese il braccio del facchino.