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400 CAPITOLO DECIMOQUINTO


Le viaggiatrici salgono. Passa frettolosa lungo il treno l’allampanata figura di don Emanuele. Egli va a prendere il biglietto, viene diritto alla carrozza dov’è donna Fedele, vede in tempo la cugina Eufemia e le volta le spalle a precipizio. La cugina lo racconta a donna Fedele. Il treno parte.

Donna Fedele chiuse gli occhi come se volesse riposare, in fatto per non vedere il caro paese che abbandonava senza speranza di ritorno. Si vide nelle palpebre l’allampanata figura, il viso pallido, gli occhi acquosi del cappellano. Si era confessata del male che aveva pensato e detto. Ora sentì di non aver più la menoma ombra di rancore contro quel povero uomo che si credeva servire Iddio per vie tortuose, con acri livori nell’anima, e non era senza scusa di conoscer male il Padre e Cristo, di non sapere quel che faceva. Anche per lui Gesù aveva chiesto sulla croce il perdono del Padre e il Padre non potrebbe lasciare inesaudita la preghiera del Figlio. Da questo pensiero le si diffuse in cuore un senso ricreante di pace. Ma subito il tenue malizioso spirito che aveva preso dimora in lei le sussurrò: pace pace, ma se fosse qui, vicino a te, ne proveresti un bel fastidio.

Nel caffè della stazione di Vicenza, dove le viaggiatrici dovettero sostare due lunghe ore, l’inferma ebbe momenti di angoscia. Prima la vettura incomoda del tram a vapore, poi i trasbordi l’avevano molto stancata. A un tratto le corse un formicolio freddo per le spalle e il petto, le si oscurò la vista. Prese un bicchierino di cognac, si riebbe. Ritornandole il calore e la vista, si atterrì di quel ch’era stato, tremò di non arrivare viva. Non aveva considerato, prima di partire, un tale pericolo. Ora il pauroso dubbio le si confisse nel cuore, e durante tutto il viaggio, fino a Milano, il suo pensiero tornava sempre lì, sempre lì, come il pensiero dell’uomo