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O MI POVR'OM! | 405 |
al caffè perchè ella durava fatica a reggersi. «L’è pazzia, signora» diss’egli «andar attorno sola, così.» Ella lo pregò di venirla a prendere quando fosse il momento di salire a bordo.
La cugina Eufemia, tremante nella sua parte di cagnolino inseparabile, non si lasciò vedere, temendo una strapazzata coi fiocchi e l’ordine di ritornare a Milano. Si era proposta di comparire solamente quando non fosse più possibile mandarla indietro. Aveva un po’ sul cuore il baule andato a Santhià, ma pazienza!
Il battello per Lugano, che doveva arrivare da Ponte Tresa, non si vedeva ancora spuntare a sinistra dal prossimo promontorio boscoso dietro il quale il lago gira. Seduta fuori del caffè, sulla spianata che guarda il lago, donna Fedele assaggiò appena il latte che si era fatto portare tanto per ordinare qualche cosa. Mai le era battuto il cuore così forte. La spianata, sparsa di tavolini, era deserta. Era deserto lo specchio delle acque verdi, immobili, piene del sole ardente che aveva morto ogni fiato di vento. La bianca Morcote, là di fronte, vegliava muta le acque mute. La maestà delle montagne grandi accavallantisi dietro e sopra la tortuosa fuga del lago verso Lugano invisibile, spirava pace e riposo. Donna Fedele lo sentiva con rimpianto, non potendo aver l’una nè l’altro. Il battello di Ponte Tresa spuntò dal boscoso promontorio di ponente. Era vicino il momento di doversi trascinare alla tettoia dell’imbarco. Pochi passi; ma se il buon facchino non fosse venuto!... Ecco il buon facchino. Dice ch’è ancora presto ma che più tardi ha il servizio dei bagagli e non potrebbe venire.
Donna Fedele si alzò stentatamente. Si figurò la cugina Eufemia nei suoi panni, si disse nel cuore:
«O mi povr’om!»
E prese il braccio del facchino.