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392 CAPITOLO DECIMOQUINTO

viaggio, malgrado il caldo, la povera vecchia cugina Eufemia, sulle due viaggiatrici intontite come barbagianni al sole, cui gli sarebbe stato facile di riconoscere fra la gaia folla del Ristoratore.

Ora, guardando dalla poltrona le scogliere grandi del Barco, ancora calde del sole appena scomparso, ella faceva la rassegna mentale degli oggetti che le ricordavano persone care, eventi memorabili, e che desiderava di avere con sè ove le toccasse di morire a Torino. Tutto il resto del bagaglio era affidato alle cure della cugina Eufemia. Appunto la cugina interruppe le sue meditazioni. Le portò la Posta e anche un piatto con sei trotelle dell’Astico, che l’ammalato di Seghe le aveva mandate in regalo. Donna Fedele invidiò il povero tisico che sarebbe morto nel suo paese, nella sua casa. La cugina se ne andò colle «povre bestie» e donna Fedele cominciò a leggere la sua corrispondenza. La prima lettera veniva dal Mauriziano. Diceva che la camera era pronta e che il professore l’avrebbe visitata la mattina dopo il suo arrivo. La seconda era una lettera del suo agente di Torino che ripeteva le stesse cose e chiedeva un telegramma al momento della partenza da Arsiero. La terza e ultima era quella di Lelia. A prima giunta donna Fedele non riconobbe la calligrafia dell’indirizzo. Aperse e, prima di leggere, guardò la firma. Esclamò a voce alta: «per la Posta?».

Spalancò gli occhi fin dalle prime righe. Procedendo nella lettura frenò a stento un’altra esclamazione, si drizzò sulla persona, rilesse.

«Oh Dio Dio!» diss’ella e aperse le mani. La lettera le cadde in grembo. Diceva:


Cara amica,


Sto per salire nel treno che da Vicenza mi porterà verso Dasio. Vado a dirgli che sono stata colpevole e folle; che, se mi vuole, sono sua per sempre.