Pagina:Leila (Fogazzaro).djvu/410

398 CAPITOLO DECIMOQUINTO

la parvenza di un lutto delle piante amorose, del fido villino, il sapere ultimi, per lei, quei fiori, che la inteneriva? Era tutto questo insieme? Era tutto ed era niente; ella stessa non l’avrebbe saputo dire. Il custode le posò davanti colmo il piccolo canestro. «Ancora?» diss’egli. «No» rispose sommessa la voce d’oro «basta.» Colui si ritirò in silenzio, triste anch’egli perchè sapeva dell’operazione, sapeva del pericolo e la signora era poco meno che la Madonna per lui, come per sua moglie. La presenza di quell’uomo aveva compresso un poco l’intenerimento mesto di lei. Sola, nel silenzioso soffio del vento di mezzogiorno per le frondi delle rose e per il piazzaletto deserto, cedette alla dolcezza di una crescente marea di commozione, sentì, quasi scendendo in una sfera inferiore a quella dei suoi contatti coll’eternità, il tacito addio delle cose al suo cuore mortale, il tacito addio del suo cuore mortale alle cose. Nel basso la gran conca verde rideva inconscia, di là non veniva un addio. Ma il Barco sapeva, il Summano sapeva, la Priaforà sapeva, le tre montagne guardavano Fedele come figure mute intorno a un letto guardano l’uomo che, guardando esse pure muto, vi muore. Ella si accorse che stava per commuoversi troppo, non volle. Le comparve improvvisa la cugina Eufemia, pronta per la partenza, infagottata in un suo famoso scialle, tinto e ritinto. L’ultima volta lo aveva fatto tingere da un «pitòr de Türin» come aveva disgraziatamente detto a donna Fedele. Il colore cappuccinesco tabaccoso, dell’indumento la diedero in preda mansueta, per sempre, ai motti di donna Fedele che anche ora ne fece strazio, ridendo nervosamente. Contenta di vedere allegra l’ammalata, la cugina Eufemia rise pure del proprio scialle, del proprio povero vecchio sè.

Quando le viaggiatrici si mossero per salire in car-