Le vite de' più eccellenti pittori, scultori e architettori (1568)/Pittura

Pittura

../Scultura ../Proemio delle Vite IncludiIntestazione 15 ottobre 2023 25% Da definire

Scultura Proemio delle Vite
[p. 43 modifica]

DELLA PITTURA

Che cosa sia disegno, et come si fanno, et si conoscono le buone Pitture,

et a che; et dell’invenzione delle storie.     Cap. XV.


ERCHE il Disegno, padre delle tre Arti nostre, Architettura, Scultura, et Pittura, procedendo dall’Intelletto, cava di molte cose un giudizio universale, simile a una forma, o vero Idea di tutte le cose della natura, la quale è singolarissima nelle sue misure; di quì è, che non solo ne i corpi humani, et degl’animali; ma nelle piante ancora, et nelle fabriche, et sculture, et pitture cognosce la proporzione, che ha il tutto con le parti, et che hanno le parti fra loro, et col tutto insieme. E perche da questa cognitione nasce un certo concetto, et giudizio, che si forma nella mente quella tal cosa, che poi espressa con le mani si chiama Disegno; si puo conchiudere, che esso disegno altro non sia, che una apparente espressione, et dichiarazione del concetto, che si ha nell’animo, et di quello, che altri si è nella mente imaginato, e fabricato nell’Idea. E da questo per avventura nacque il proverbio de’ Greci; dell’ugna un Leone, quando quel valente huomo, vedendo scolpita in un masso l’ugna sola d’un Leone, comprese con l’intelletto da quella misura, e forma le parti di tutto l’Animale, e dopo il tutto insieme, come se l’havesse havuto presente, e dinanzi agl’occhi. Credono alcuni che il padre del Disegno, e dell’Arti fusse il caso, e che l’uso, et la sperienza, come balia, et pedagogo lo nutrissero con l’aiuto della cognitione, e del discorso; ma io credo, che con piu verita si possa dire il caso haver piu tosto dato occasione, che potersi chiamar padre del disegno. Ma sia come si voglia, questo disegno ha bisogno, quando cava l’invenzione d’una qualche cosa dal giudizio, che la mano sia, mediante lo studio, et essercizio di molti anni, spedita, et atta a disegnare, et esprimere bene qualunche cosa ha la natura creato con penna, con stile, con carbone, con matita, o con altra cosa; perche quando l’intelletto manda fuori i concetti purgati, et con giudizio; fanno quelle mani, che hanno molti anni essercitato il disegno conoscere la perfezzione, e eccellenza dell’arti, et il sapere dell’Artefice insieme. E perche alcuni scultori tal volta non hanno molta pratica nelle linee, e ne dintorni, onde non possono disegnare in carta; eglino in quel cambio con bella proporzione, et misura, facendo con terra, o cera huomini, animali, et altre cose di rilievo, fanno il medesimo, che fa colui, il quale perfettamente disegna in carta, o in su altri piani. Hanno gli huomini di queste arti, chiamato, o vero distinto il disegno in varij modi, et secondo le qualità de’ disegni che si fanno. Quelli, che sono tocchi leggiermente, et a pena accennati con la penna, o altro si chiamano schizzi, come si dirà in altro luogo. Quegli poi, che hanno le prime linee intorno intorno sono chiamati profili, dintorni, o lineamenti. E tutti questi, o profili, o altrimenti, che vogliam chiamarli, servono cosi all’Architettura, et Scultura, come alla pittura; ma all’Architettura massimamente; percioche i disegni di quella non sono composti se non di linee, il che non è altro, quanto al Architettore, che il principio, e la fine di quell’arte, perche il restante, mediante i modelli di legname, tratti dalle dette linee, non è altro, che opera di [p. 44 modifica]scarpellini, et muratori. Ma nella scultura serve il disegno di tutti i contorni, perche a veduta, per veduta se ne serve lo scultore, quando vuol disegnare quella parte, che gli torna meglio, o che egli intende di fare; per ogni verso, o nella cera, o nella terra, o nel marmo, o nel legno, o altra materia.

Nella pittura servono i lineamenti in piu modi, ma particolarmente a dintornare ogni figura; perche quando eglino sono ben disegnati, et fatti giusti, et a proporzione; l’ombre, che poi vi si aggiungono, et i lumi sono cagione, che i lineamenti della figura, che si fa ha grandissimo rilievo, e riesce di tutta bontà, e perfezzione. E di quì nasce, che chiunque intende, e maneggia bene queste linee, sarà in ciascuna di queste arti mediante la pratica, et il giudizio eccellentissimo chi dunque vuole bene imparare a esprimere, disegnando i concetti dell’animo, è qual si voglia cosa, fa di bisogno, poi che haverà alquanto asuefatta la mano, che per divenir piu intelligente nell’arti si eserciti in ritrarre figure di rilievo, o di marmo di sasso, o di sasso, o vero di quelle di gesso formate sul vivo, o vero sopra qualche bella statua antica, o si veramente rilievi di modelli fatti di terra, o nudi, o con cenci interrati addosso, che servono per panni, et vestimenti. Percioche tutte queste cose, essendo immobili, et senza sentimento fanno grande agevolezza, stando ferme a colui, che disegna, il che non avviene nelle cose vive, che si muovono. Quando poi haverà in disegnando simili cose fatto buona pratica, et assicurata la mano, cominci a ritrarre cose naturali; et in esse faccia con ogni possibile opera, e diligenza una buona, e sicura pratica; percioche le cose, che vengono dal naturale sono veramente quelle, che fanno honore a chi si è in quelle affaticato, havendo in se, oltre a una certa grazia, et vivezza, di quel semplice, facile, e dolce, che è proprio della natura, et che dalle cose sue s’impara perfettamente, et non dalle cose dell’arte a bastanza giamai. E tengasi per fermo, che la pratica, che si fa con lo studio di molti anni in disegnando, come si è detto disopra, è il vero lume del disegno, et quello, che fa gli huomini eccellentissimi. Hora havendo di ciò ragionato a bastanza, seguita, che noi veggiamo, che cosa sia la Pittura.

     Ell’è dunque un piano coperto di campi di colori, in superficie, o di tavola, o di muro, o di tela, intorno a lineamenti detti disopra, i quali per virtu di un buon disegno di linee girate circondano la figura. Questo si fatto piano, dal pittore con retto giudizio mantenuto nel mezo, chiaro, et negli estremi, et ne’ fondi scuro, et accompagnato tra questi, et quello da colore mezano tra il chiaro, et lo scuro; fa che unendosi insieme questi tre campi, tutto quello, che è tra l’uno lineamento, et l’altro si rilieva, et apparisce tondo, e spiccato, come s’è detto. Bene è vero, che questi tre campi non possono bastare ad ogni cosa minutamente, atteso, che egli è necessario dividere qualunche di loro almeno in due spezie; faccendo di quel chiaro due mezi, et di quell’oscuro, due piu chiari, et di quel mezo due altri mezi, che pendino, l’uno nel piu chiaro; et l’altro nel piu scuro. Quando queste tinte d’un color solo, qualunche egli si sia saranno stemperate, si vedrà a poco a poco cominciare il chiaro, et poi meno chiaro, et poi un poco piu scuro, di maniera ch’a poco a poco troverremo il nero schietto. Fatte dunque le mestiche, cioè mescolati insieme questi colori, volendo lavorare, o a olio, o a tempera, o in fresco; si va coprendo il lineamento, et mettendo a’ suoi luoghi i chiari, et gli scuri, et i mezi, et [p. 45 modifica]gli abbagliati de’ mezi, et de’ lumi; che sono quelle tinte mescolate de’ tre primi, chiaro, mezano, et scuro; iquali chiari, et mezani, et scuri, et abbagliati si cavano dal cartone, o vero altro disegno, che per tal cosa è fatto, per porlo in opra; il qual’è necessario, che sia condotto con buona collocazione, e disegno fondato; et con giudizio, et inventione, atteso, che la collocazione non è altro nella pittura, che havere spartito in quel loco, dove si fa una figura, che gli spazij siano concordi al giudizio dell’occhio, et non siano disformi, che il campo sia in un luogo pieno, et nell’altro voto, la qual cosa nasca dal disegno, e da l’havere ritratto, o figure di naturale vive, o da modelli di figure fatte per quello che si voglia fare. Il qual disegno non puo havere buon’origine, se non s’ha dato continuamente opera a ritrarre cose naturali; et studiato pitture d’eccellenti maestri, et di statue antiche di rilievo, come s’è tante volte detto. Ma sopra tutto il meglio è gl’ignudi degli huomini vivi, et femine, et da quelli havere preso in memoria, per lo continovo uso i muscoli del torso, delle schiene, delle gambe, delle braccia, delle ginocchia, et l’ossa di sotto, et poi havere sicurtà, per lo molto studio, che senza havere i naturali inanzi, si possa formare di fantasia da se attitudini, per ogni verso; cosi haver veduto degli huomini scorticati, per sapere come stanno l’ossa sotto et i muscoli, et i nervi, con tutti gli ordini, et termini della Notomia; per potere con maggior sicurtà, e piu rettamente situare le membra nell’huomo, et porre i muscoli nelle figure.

Et coloro, che ciò sanno, forza è, che faccino perfettamente i contorni delle figure; le quali dintornate come elle debbono, mostrano buona grazia, et bella maniera. Perche chi studia le pitture, et sculture buone, fatte con simil modo, vedendo, et intendendo il vivo, è necessario che habbi fatto buona maniera nell’arte. Et da cio nasce l’invenzione, laquale fa mettere insieme in historia le figure a quattro, a sei, a dieci, a venti, talmente, che si viene a formare le battaglie, et l’altre cose grandi dell’arte. Questa invenzione vuol’in se una convenevolezza formata di concordanza, e diobedienza; che s’una figura si muove per salutare un’altra; non si faccia la salutata voltarsi indietro, havendo a rispondere, et con questa similitudine tutto il resto.

La istoria sia piena di cose variate, et differenti l’una da l’altra, ma a proposito sempre di quello, che si fa, et che di mano in mano figura lo Artefice. Ilquale debbe distinguere i gesti, e l’attitudini facendo le femmine con aria dolce, et bella, et similmente i giovani; Ma i vecchi, gravi sempre di aspetto, et i sacerdoti massimamente, et le persone di autorità. Avvertendo però sempremai, che ogni cosa corrisponda ad un tutto della opera, di maniera, che quando la pittura si guarda, vi si conosca una concordanza unita, che dia terrore nelle furie, et dolcezza negli effetti piacevoli; Et rappresenti in un tratto la intenzione del Pittore, et non le cose, che e’ non pensava. Conviene adunque per questo, che e’ formi le figure, che hanno ad esser fiere, con movenzia, et con gagliardia; Et sfugga quelle, che sono lontane da le prime, con l’ombre, et con i colori appoco appoco dolcemente oscuri; Di maniera che l’arte sia accompagnata sempre con una grazia di facilità, et di pulita leggiadria di colori; Et condotta l’opera a perfezzione, non con uno stento di passione crudele, che gl’huomini, che cio guardano habbino a patire pena della passione, che in tal’opera veggono sopportata dallo Artefice; Ma da ralegrarsi della felicità, che la sua [p. 46 modifica]mano habbia havuto dal Cielo quella agilita, che renda le cose finite con istudio, et fatica si, ma non con istento; tanto, che dove elle sono poste, non siano morte, ma si appresentino vive, et vere a chi le considera. Guardinsi da le crudezze. Et cerchino, che le cose, che di continuo fanno, non paino dipinte; ma si dimostrino vive, et di rilievo fuor della opera loro; Et questo è il vero disegno fondato, et la vera invenzione, che si conosce esser data da chi le ha fatte, alle pitture che si conoscono, e giudicano come buone.


Degli schizzi disegni, cartoni, et ordine di prospettive; et per quel, che si fanno, et a quello che i Pittori se ne servono.     Cap. XVI.


G
Li schizzi de quali si è favellato di sopra chiamiamo noi una prima sorte di disegni, che si fanno per trovare il modo delle attitudini, et il primo componimento dell’opra. Et sono fatti in forma di una machia, e accennati solamente da noi in una sola bozza del tutto. Et perche dal furor dello artefice sono in poco tempo con penna, ò con altro disegnatoio, ò carbone espressi solo per tentare l’animo di quel che gli sovviene percio si chiamano schizzi. Da questi dunque vengono poi rilevati in buona forma i disegni, nel far de quali con tutta quella diligenza che si può si cerca vedere dal vivo, se gia l’artefice non si sentisse gagliardo in modo, che da se li potesse condurre. Appresso misuratili con le seste, ò a ochio, si ringrandiscono da le misure piccole nelle maggiori, secondo l’opera che si ha da fare. Questi si fanno, con varie cose, cio è, o con lapis rosso, che è una pietra, la qual viene da monti di Alamagna, che per esser tenera, agevolmente si sega et riduce in punte sottili da segnare con esse in su i fogli, come tu vuoi: ò con la Pietra nera che viene de’ monti di Francia, la qual’è similmente come la rossa; Altri di chiaro et scuro, si conducono su fogli tinti, che fanno un mezo, et la penna fa il lineamento, cio è il d’intorno ò profilo, et l’inchiostro poi con un poco d’acqua, fa una tinta dolce, che lo vela, et ombra di poi con un pennello sottile in tinto nella biacca stemperata con la gomma si lumeggia il disegno, et questo modo è molto alla pittoresca et mostra piu l’ordine del colorito: Molti altri fanno con la penna sola, lasciando i lumi della carta, che è difficile, ma molto maestrevole; et infiniti altri modi anchora si costumano nel disegnare de’ quali non accade fare menzione, perche tutti rappresentano una cosa medesima, cioè il disegnare. Fatti cosi i dissegni, chi vuole lavorar in fresco, cioè in muro, è necessario che faccia i cartoni, ancora ch’e si costumi per molti di fargli per lavorar anco in tavola. Questi cartoni si fanno cosi. Impastansi fogli con colla di farina, e aqua cotta al fuoco, fogli dico, che siano squadrati, e si tirano al muro con l’incollarli a torno due dita verso il muro con la medesima pasta. E si bagnano spruzzandovi dentro per tutto acqua fresca, et cosi molli si tirano, accio nel seccarsi, vengano a distendere il molle delle grinze. Da poi quando sono secchi si vanno con una canna lunga, che habbia in cima un carbone, riportando sul cartone per giudicar da discosto tutto quello, che nel disegno piccolo è disegnato, con pari grandezza, e cosi a poco a poco quando a una figura, e quando a l’altra danno fine. Qui fanno i pittori tutte le fatiche dell’arte del ritrarre dal vivo ignudi, et panni di naturale, et tirano le prospettive con tutti quelli ordini, che piccoli si sono fatti in su [p. 47 modifica]fogli, ringrandendoli a proporzione. Et se in quegli fussero prospettive, o casamenti, si ringrandiscono con la Rete; La qual’è una Graticola di quadri piccoli ringrandita nel cartone; che riporta giustamente ogni cosa. Perche chi ha tirate le prospettive ne’ disegni piccoli, cavate di su la pianta, alzate col profilo, et con la intersecazione, et col punto fatte diminuire, e sfuggire; Bisogna che le riporti proporzionate in sul Cartone. Ma del modo del tirarle, perche ella è cosa fastidiosa, et difficile a darsi ad intendere; non voglio io parlare altrimenti. Basta, che le prospettive son belle tanto, quanto elle si mostrano giuste alla loro veduta, et sfuggendo si allontanano dall’occhio. Et quando elle sono composte con variato, et bello ordine di casamenti. Bisogna poi, che ’l pittore habbia risguardo a farle con proporzione sminuire con la dolcezza de’ colori, laqual è nell’artefice una retta discrezione, et un giudicio buono, la causa del quale si mostra nella difficultà delle tante linee confuse colte dalla pianta, dal profilo, et intersecazione, che ricoperte dal colore restano una facilissima cosa, laqual fa tenere l’artefice dotto, intendente, et ingegnoso nell’arte.

Usono ancora molti maestri innanzi, che faccino la storia nel cartone; fare un modello di terra in su un piano, con situar tonde tutte le figure, per vedere gli sbattimenti, cioè l’ombre, che da un lume si causano adosso alle figure, che sono quell’ombra tolta dal sole, ilquale piu crudamente, che il lume le fa in terra nel piano per l’ombra della figura. Et di quì ritraendo il tutto della opra hanno fatto l’ombre, che percuotono adosso a l’una, et l’altra figura, onde ne vengono i cartoni, et l’opera, per queste fatiche, di perfezzione, et di forza piu finiti, et da la carta si spiccano per il rilievo. Il che dimostra il tutto piu bello, et maggiormente finito. Et quando questi cartoni al fresco, o al muro s’adoprano, ogni giorno nella commettitura se ne taglia un pezzo, et si calca sul muro che sia incalcinato di fresco, et pulito eccellentemente. Questo pezzo del cartone si mette in quel luogo, dove s’ha a fare la figura, et si contrassegna; perche l’altro di, che si voglia rimettere un’altro pezzo, si riconosca il suo luogo apunto; et non possa nascere errore. Appresso, per i dintorni del pezzo detto, con un ferro si va calcando in su l’intonaco della calcina, la quale per essere fresca, acconsente alla carta: et cosi ne rimane segnata. Per il che si lieva via il cartone, et per que’ segni, che nel muro sono calcati, si va con i colori lavorando; et cosi si conduce il lavoro in fresco, o in muro. Alle tavole, et alle tele si fa il medesimo calcato; ma il cartone d’un pezzo, salvo, che bisogna tingere di dietro il cartone, con carboni, o polvere nera, accioche segnando poi col ferro, egli venga profilato, et disegnato nella tela, o tavola. Et per questa cagione i cartoni si fanno per compartire, che l’opra venga giusta, e misurata. Assai pittori sono, che per l’opre a olio sfuggono cio, ma per il lavoro in fresco non si può sfuggire, che non si faccia. Ma certo chi trovò tal invenzione, hebbe buona fantasia, atteso, che ne’ cartoni si vede il giudizio di tutta l’opra insieme, et si acconcia, et guasta, finche stiano bene. Il che nell’opra poi non puo farsi.


De li scorti delle figure al disotto, in su, et di quelli in piano.     Cap. XVII.


H
Anno havuto gli artefici nostri una grandissima avvertenza nel fare scortare le figure, cioè nel farle apparire di piu quantità, che elle non [p. 48 modifica]sono veramente, essendo lo scorto a noi una cosa disegnata in faccia corta, che all’occhio, venendo innanzi non ha la lunghezza, ò la altezza, che ella dimostra; Tuttavia, la grossezza, i dintorni, l’ombre et i lumi fanno parere, che ella venga innanzi, et per questo si chiama scorto. Di questa specie non fu mai pittore ò disegnatore, che facesse meglio, che s’habbia fatto il nostro Michelangelo Buonarroti: et ancora nessuno meglio gli poteva fare, havendo egli divinamente fatto le figure di rilievo. Egli prima di terra, ò di cera ha per questo uso fatti i modelli: et da quegli, che piu del vivo restano fermi, ha cavato i contorni, i lumi, et l’ombre. Questi danno a chi non intende grandissimo fastidio; perche non arrivano con l’intelletto a la profondità di tale difficultà, la qual’è la piu forte a farla bene, che nessuna, che sia nella pittura. Et certo i nostri vecchi, come amorevoli dell’arte, trovarono il tirarli per via di linee in prospettiva, ilche non si poteva fare prima, e li ridussero tanto inanzi, che hoggi s’ha la vera maestria di farli. Et quegli, che li biasimano (dico delli artefici nostri) sono quelli, che non li sanno fare, et, che, per alzare se stessi, vanno abassando altrui. Et habbiamo assai maestri pittori, iquali, ancora che valenti, non si dilettano di fare scorti: Et nientedimeno, quando gli veggono belli et difficili, non solo non gli biasimano, ma gli lodano sommamente. Di questa specie ne hanno fatto i moderni alcuni, che sono a proposito, et difficili; come sarebbe a dir in una volta le figure, che guardando in su scortano, et sfuggono, et questi chiamiamo al disotto in su, c’hanno tanta forza, ch’eglino bucano le volte. Et questi non si possono fare, se non si ritraggono dal vivo, ò con modelli in altezze convenienti non si fanno fare loro le attitudini, et le movenzie di tali cose. E certo in questo genere, si recano in quella difficulta una somma grazia, et molta bellezza, et mostrasi una terribilissima arte. Di questa specie troverrete, che gli artefici nostri nelle vite loro hanno dato grandissimo rilievo a tali opere, et condottele a una perfetta fine, onde hanno conseguito lode grandissima. Chiamansi scorti di sotto in su, perche il figurato è alto, e guardato dall’ochio per veduta in su, et non per la linea piana dell’orizonte, la onde alzandosi la testa a volere vederlo, et scorgendosi prima le piante de piedi, et l’altre parti di sotto, giustamente si chiama co ’l detto nome.


Come si debbino unire i colori a olio, a fresco, ò a tempera; et come le

carni, i panni, et tutto quello che si dipigne, venga nell’opera a

unire in modo che le figure non venghino divise; et hab

bino rilievo, et forza, e mostrino l’opera chiara,

et aperta.     Cap. XVIII.


L
’Unione nella Pittura è una discordanza di colori diversi accordati insieme; i quali nella diversità di piu divise, mostrano differentemente distinte l’una da l’altra, le parti delle figure, come le carni da i capelli; et un panno diverso di colore, da l’altro. Quando questi colori son messi in opera accesamente, et vivi, con una discordanza spiacevole, tal che siano tinti, et carichi di corpo, si come usavano di fare gia alcuni pittori: il disegno ne viene ad essere offeso di maniera, che le figure restano piu presto dipinti dal colore; che dal pennello, che le lumeggia, et adombra, fatte apparire di rilievo, et naturali. Tutte le Pitture adunque, ò a olio, ò a fresco, ò a tempera, si debbon fare [p. 49 modifica]talmente unite ne’ loro colori; che quelle figure, che nelle storie sono le principali, venghino condotte chiare chiare; mettendo i panni di colore non tanto scuro a dosso a quelle dinanzi, che quelle, che vanno dopo gli habbino piu chiari che le prime; anzi a poco a poco, tanto quanto elle vanno diminuendo a lo indentro; divenghino anco parimente di mano in mano, et nel colore delle carnagioni, et nelle vestimenta, piu scure. Et principalmente si habbia grandissima avvertenza di mettere sempre i colori piu vaghi, piu dilettevoli, et piu belli, nelle figure principali, et in quelle massimamente, che nella istoria vengono intere, et non meze, perche queste sono sempre le più considerate; et quelle che son piu vedute, che l’altre; lequali servono quasi per campo nel colorito di queste; et un colore più smorto, fa parere più vivo l’altro che gli è posto accanto. Et i colori maninconici, et Pallidi fanno parere piu allegri quelli che li sono accanto, et quasi d’una certa bellezza fiameggianti. Ne si debbono vestire gli ignudi di colori tanto carichi di corpo, che dividino le carni da’ panni, quando detti panni atraversassino detti ignudi, ma i colori de’ lumi di detti panni siano chiari simili alle carni, ò gialletti, ò rossigni, ò violati, ò pagonazzi, con cangiare i fondi scuretti, ò verdi, o azzuri, ò pagonazzi, ò gialli; purche traghino a lo oscuro; et che unitamente si accompagnino nel girare delle figure, con le lor ombre, in quel medesimo modo, che noi veggiamo nel vivo, che quelle parti, che ci si apresentano piu vicine all’occhio, piu hanno di lume; et l’altre perdendo di vista, perdono ancora del lume, et del colore. Cosi nella pittura si debbono adoperare i colori con tanta unione, che e’ non si lasci uno scuro, et un chiaro si spiacevolmente ombrato, et lummeggiato, che e si faccia una discordanza, et una disunione spiacevole, salvo, che negli sbattimenti; che sono quell’ombre, che fanno le figure adosso l’una all’altra, quando un lume solo percuote adosso a una prima figura, che viene adombrare col suo sbattimento la seconda. Et questi ancora, quando accaggiono, voglion esser dipinti con dolcezza, et unitamente, perche chi gli disordina, viene a fare, che quella Pittura par piu presto un tappeto colorito, ò un paro di carte da giucare, che carne unita, ò panni morbidi, ò altre cose piumose, delicate et dolci. Che si come gli orecchi restano offesi da una musica, che fa strepito, ò dissonanza, ò durezze; salvo però in certi luoghi, et a’ tempi; si come io dissi degli sbattimenti; cosi restano offesi gli occhi da’ colori troppo carichi, ò troppo crudi. Conciosia, che il troppo acceso, offende il disegno, et lo abbacinato, smorto abbagliato, et troppo dolce, pare una cosa spenta, vecchia et affumicata: Ma lo unito, che tenga in fra lo acceso, et lo abbagliato, è perfettissimo; et diletta l’occhio come una musica unita, et arguta diletta lo orecchio. Debbonsi perdere negli scuri certe parti delle figure: et nella lontananza della Istoria; perche oltra, che se elle fussono nello apparire troppo vive, et accese, confonderebbono le figure, elle danno ancora, restando scure, et abbagliate, quasi come campo, maggior forza alle altre, che vi sono inanzi. Nè si può credere, quanto nel variare le carni con i colori faccendole a’ giovani piu fresche, che a vecchi; et a’ mezani, tra il cotto, et il verdiccio, et gialliccio, si dia grazia, et bellezza alla opera. Et quasi in quello stesso modo, che si faccia nel disegno l’aria delle vecchie accanto alle giovani, et alle fanciulle, et a’ putti: dove veggendosene una tenera, et carnosa; l’altra pulita, e fresca; fa nel dipinto una discordanza [p. 50 modifica]accordatissima. Et in questo modo si debbe nel lavorare metter gli scuri dove meno offendino, et faccino divisione; per cavare fuori le figure; come si vede nelle pitture di Rafaello da Urbino, et di altri pittori eccellenti, che hanno tenuto questa maniera. Ma non si debbe tenere questo ordine nelle Istorie, dove si contrafacessino lumi di sole, et di luna, ò vero fuochi, ò cose notturne; perche queste si fanno con gli sbattimenti crudi, et taglienti come fa il vivo. Et nella sommità dove si fatto lume percuote, sempre vi sarà dolceza et unione. Et in quelle pitture, che haranno queste parti si conoscerà, che la intelligenza del Pittore harà con la unione del colorito, campata la bontà del disegno, dato vaghezza alla Pittura, et rilievo, et forza terribile alle figure.


Del dipingere in muro, come si fa; et perche si chiama lavorare in fresco.     Cap. XIX.


D
I tutti gl’altri modi, che i pittori faccino, il dipignere in muro e’ piu maestrevole, et bello; perche consiste nel fare in un giorno solo quello, che nelli altri modi si puo in molti ritoccare sopra il lavorato. Era da gli antichi molto usato il fresco, et i vechi moderni ancora l’hanno poi seguitato. Questo si lavora su la calce, che sia fresca, ne si lascia mai sino a, che sia finito quanto per quel’ giorno si vuole lavorare. Perche allungando punto il dipingerla, fa la calce una certa crosterella, pe’l caldo, pe’l freddo, pe’l vento, et pe’ ghiacci, che muffa, et macchia tutto il lavoro. Et per questo vuole essere continovamente bagnato il muro, che si dipigne, et i colori; che vi si adoperano, tutti di terre, et non di miniere; et il bianco di trevertino cotto. Vuole ancora una mano destra resoluta; et veloce, ma sopra tutto un giudizio saldo, et intero, perche i colori mentre, che il muro è molle, mostrano una cosa in un modo, che poi secco non è piu quella. Et però bisogna, che in questi lavori a fresco, giuochi molto più nel Pittore il giudizio, che il disegno: et che egli habbia per guida sua una pratica più che grandissima, essendo sommamente difficile il condurlo a perfezione. Molti de’ nostri artefici vagliono assai negl’altri lavori, cioè a olio, ò a tempera, et in questo poi non riescono, per essere egli veramente il piu virile, piu sicuro, piu resoluto, et durabile di tutti gl’altri modi, et quello, che nello stare fatto di continuo aquista di bellezza, et di unione piu degl’altri infinitamente. Questo all’aria si purga, e dall’acqua si difende, et regge di continuo a ogni percossa. Ma bisogna guardarsi di non havere a rittocarlo co’ colori che habbino colla di Carnicci, ò rosso d’uovo, ò gomma, o Draganti, come fanno molti pittori. Perche oltra, che il muro non fa il suo corso di mostrare la chiarezza, vengono i colori apannati da quello ritoccar di sopra, et con poco spazio di tempo diventano neri. Però quegli che cercano lavorar’in muro, lavorino virilmente a fresco, et non ritochino a secco, perche oltra l’esser cosa vilissima, rende piu corta vita alle pitture, come in altro luogo s’è detto.


Del dipignere a tempera ò vero a uovo su le tavole; ò tele, et come si puo usare sul muro che sia secco.     Cap. XX.


[p. 51 modifica]
D
A Cimabue in dietro, et da lui in qua s’è, sempre veduto opre lavorate da’ Greci a tempera in tavola, et in qualche muro. Et usavano nello ingessare, delle tavole questi maestri vecchi dubitando, che quelle non si aprissero in su le commettiture, mettere per tutto con la colla di carnicci, tela lina, et poi sopra quella ingessavano, per lavorarvi sopra, et temperavano i colori da condurle col rosso dello uovo, ò tempera, laqual’è questa. Toglievano uno uovo, et quello dibattevano, et dentro vi tritavano un ramo tenero di fico, accio che quel latte con quel uovo, facesse la tempera de’ colori; i quali, con essa temperando, lavoravono l’opere loro. Et toglievano, per quelle tavole i colori ch’erano di miniere, i quali son fatti parte da gli alchimisti, et parte trovati nelle cave. Et a questa specie di lavoro ogni colore è buono, salvo ch’il bianco; che si lavora in muro fatto di calcina, perch’è troppo forte.

Cosi venivano loro condotte con questa maniera le opere, et le pitture loro. Et questo chiamavono colorire a tempera. Solo gli azzuri temperavono con colla di carnicci; perche la giallezza dell’uovo gli faceva diventar verdi, ove, la colla gli mantiene nell’essere loro, el simile fa la gomma. Tiensi la medesima maniera su le tavole, o ingessate, ò senza, et cosi su muri, che siano sechi, si da una, ò due mani di colla calda, et di poi con colori temperati con quella, si conduce tutta l’opera, et chi volesse temperare ancora i colori a colla, agevolmente gli verra fatto, osservando il medesimo, che nella Tempera si è raccontato. Ne saranno peggiori per questo. Poi che anco de’ vecchi Maestri nostri, si sono vedute le cose a tempera, conservate centinaia d’anni, con bellezza, et freschezza grande. Et certamente e si vede ancora delle cose di Giotto, che ce n’è pure alcuna in tavola, durata gia dugento anni, et mantenutasi molto bene. E’ poi venuto il lavorar’a olio, che ha fatto per molti mettere in bando il modo della tempera, si come hoggi veggiamo, che nelle tavole, et nelle altre cose d’importanza si è lavorato; et si lavora ancora del continovo.


Del dipingere a olio, in tavola, et su le tele.     Cap. XXI.


F
U una bellissima invenzione, et una gran commodità all’arte della pittura, il trovare il colorito a olio; Di che fu primo inventore, in Fiandra Giovanni da Bruggia: il quale mandò la tavola a Napoli al Re Alfonso, et al Duca d’Urbino Federigo II. la stufa sua; et fece un san Gironimo, che Lorenzo de’ Medici haveva, et molte altre cose lodate. Lo seguitò poi Rugieri da Bruggia suo discipolo, et Ausse creato di Rugieri, che fece a Portinari in Santa Maria Nuova di Firenza un quadro picciolo, il qual’è hoggi apresso al Duca Cosimo, et è di sua mano la tavola di Careggi villa fuora di Firenze della Illustrissima casa de Medici furono similmente de primi Lodovico da Luano, et Pietro Christa, et maestro Martino, et Giusto da Guanto, che fece la tavola della comunione del Duca d’Urbino, et altre pitture, et Ugo d’Anversa, che fe la tavola di Santa Maria Nuova di Fiorenza. Questa arte condusse poi in Italia Antonello da Messina, che molti anni consumò in Fiandra, et nel tornarsi di quà da Monti fermatosi ad habitare in Venezia, la insegnò ad alcuni amici, uno de’ quali fu Domenico Veniziano, che la condusse poi in Firenze, quando dipinse a olio la capella de’ Portinari in Santa Maria Nuova, [p. 52 modifica]dove la imparò Andrea dal Castagno, che la insegnò agli altri maestri, con i quali si andò ampliando l’arte, et acquistando, sino a Pietro Perugino, a Lionardo da Vinci, et a Rafaello da Urbino: talmente, che ella s’è ridotta a quella bellezza, che gli artefici nostri, mercè loro, l’hanno acquistata. Questa maniera di colorire accende piu i colori; ne altro bisogna, che diligenza, et amore, perche l’olio in se si reca il colorito piu morbido, piu dolce, et dilicato, et di unione, et sfumata maniera piu facile, che li altri, et mentre, che frescho si lavora, i colori si mescolano, et si uniscono l’uno con l’altro piu facilmente. Et in somma li artefici danno in questo modo bellissima grazia, et vivacità, et gagliardezza alle figure loro, tal mente, che spesso ci fanno parere di rilievo le loro figure; et che ell’eschino della tavola. Et massimamente quando elle sono continovati di buono disegno, con invenzione, et bella maniera. Ma per mettere in opera questo lavoro si fa cosi. Quando vogliono cominciare cioè ingessato, che hanno le tavole, ò quadri gli radono, et datovi di dolcissima colla quattro, ò cinque mani, con una spugna; vanno poi macinando i colori con olio di noce, o di seme di lino (benche il noce è meglio perche ingialla meno) et cosi macinati con questi olij, che è la tempera loro, non bisogna altro quanto a essi, che distenderli col pennello. Ma conviene far prima una mestica di colori seccativi, come biacca, Giallolino, Terre da campane mescolati tutti in un corpo, et d’un color solo, et quando la colla è secca impiastrarla su per la tavola. E poi batterla con la palma della mano tanto ch’ella venga egualmente unita, e distesa per tutto, il che molti chiamano l’imprimatura. Dopo, distesa detta mestica ò colore per tutta la tavola, si metta sopra essa il cartone, che haverai fatto con le figure, e invenzioni a tuo modo. E sotto questo cartone se ne metta un altro tinto da un lato di nero, cio è da quella parte, che va sopra la mestica. A puntati poi con chiodi piccoli l’uno, e l’altro, piglia una punta di ferro, ò vero d’avorio, ò legno duro, et va sopra i proffili del cartone segnando sicuramente, perche cosi facendo non si guasta il cartone, e nella tavola, ò quadro vengono benissimo proffilate tutte le figure, et quello, che è nel cartone sopra la tavola. E chi non volesse far cartone, disegni con gesso dà sarti bianco, sopra la mestica, ò vero con carbone di salcio: perche l’uno, e l’altro facilmente si cancella. E cosi si vede, che seccata questa mestica lo artefice, ò calcando il cartone, ò con gesso bianco da sarti disegnando l’abozza, ilche alcuni chiamano imporre. Et finita di coprire tutta ritorna con somma politezza lo artefice da capo a finirla, et qui usa l’arte, e la diligenza, per condurla a perfezione, et cosi fanno i Maestri in Tavola a olio le loro Pitture.


Del pingere a olio nel muro, che sia secco.     Cap. XXII.


Q
Uando gl’artefici vogliono lavorare a olio in sul muro secco, due maniere possono tenere: una con fare, che il muro, se vi è dato su il bianco ò a fresco, ò in altro modo, si raschi; ò se egli è restato liscio senza bianco, ma intonacato, vi si dia su due, ò tre mane di olio bollito, et cotto: continoando di ridarvelo su, sino a tanto, che non voglia piu bere; et poi secco si gli da di mestica, o imprimatura, come si disse nel capitolo avanti a questo. Cio fatto, et secco, possono gli artefici calcare, ò disegnare, et tale opera come la [p. 53 modifica]tavola, condurre al fine, tenendo mescolato continuo ne i colori un poco di vernice: Perche facendo questo, non accade poi vernicarla. L’altro modo è, che l’artefice, di stucco di marmo, et di matton pesto finissimo fa un’arriciato, che sia pulito; et lo rade col taglio della cazzuola, perche il muro ne resti ruvido. Appresso gli da una man d’olio di seme di lino, et poi fa in una pignatta una mistura di pece greca, et mastico, et vernice grossa; et quella bollita, con un pennel grosso si da nel muro; poi si distende per quello con una cazzuola da murare, che sia di fuoco. Questa intasa i buchi dell’aricciato; et fa una pelle piu unita per il muro. Et poi ch’è secca, si va dandole d’imprimatura, o di mestica; et si lavora nel modo ordinario dell’olio, come habbiamo ragionato. E perche la sperienza di molti anni mi ha insegnato come si possa lavorar’a olio in sul muro, ultimamente ho seguitato, nel dipigner le sale camere, et altre stanze del palazzo del Duca Cosimo, il modo, che in questo ho per l’adietro molte volte tenuto. Il qual modo brevemente è questo. Facciasi l’arricciato, sopra il quale si ha da far l’intonaco di calce, di matton pesto, et di rena, et si lasci seccar bene affatto: cio fatto, la materia del secondo intonaco sia calce, matton pesto, stiacciato bene, e schiuma di ferro, perche tutte e tre queste cose, cioè di ciascuna il terzo, incorporate con chiara d’uova, battute quanto fa bisogno, et olio di seme di lino, fanno uno stucco tanto serrato, che non si puo disiderar in alcun modo migliore. Ma bisogna bene avvertire di non abbandonare l’intonaco, mentre la materia è fresca, perche fenderebbe in molti luoghi, anzi è necessario a voler che si conservi buono, non se gli levar mai d’intorno con la cazzuola, overo mestola, o chuchiara, che vogliam dire, insino a che non sia del tutto pulitamente disteso, come ha da stare. Secco poi che sia questo intonaco, e datovi sopra d’imprimatura, o mestica, si condurranno le figure, et le storie perfettamente, come l’opere del detto palazzo, et molte altre possono chiaramente dimostrar’a ciascuno.


Del dipignere a olio su le tele.     Cap. XXIII.


G
Ll huomini per potere portare le pitture di paese in paese, hanno trovato la comodità delle tele dipinte, come quelle, che pesano poco, et avolte, sono agevoli a trasportarsi. Queste a olio, perch’elle siano arrendevoli, se non hanno a stare ferme non s’ingessano; atteso, che il gesso vi crepa su arrotolandole, però si fa una pasta di farina con olio di noce, et in quello si metteno due, o tre macinate di biacca, et quando le tele hanno avuto tre, o quattro mani di colla, che sia dolce, c’habbia passato da una banda a l’altra, con un coltello si da questa pasta, et tutti i buchi vengono con la mano dell’artefice a turarsi. Fatto cio se li da una, o due mani di colla dolce, et da poi la mestica, o imprimatura, et a dipignervi sopra si tiene il medesimo modo, che a gl’altri disopra racconti. E perche questo modo è paruto agevole, et commodo si sono fatti non solamente quadri piccoli per portare attorno, ma anchora tavole da altari, et altre opere di storie grandissime, come si vede nelle sale del palazzo di San Marco di Vinezia, et altrove, avenga che dove non arriva la grandezza delle tavole, serve la grandezza, e ’l commodo delle tele. [p. 54 modifica]

Del dipingere in pietra a olio, et, che pietre siano buone.     Cap. XXIIII.


E
Cresciuto sempre lo animo a’ nostri artefici pittori, faccendo, che il colorito a olio, oltra l’haverlo lavorato in muro, si possa volendo lavorare ancora su le pietre. Delle quali hanno trovato nella riviera di Genova quella spezie di lastre, che noi dicemmo nella architettura, che sono attissime a questo bisogno. Perche, per esser serrate in se, e per havere la grana gentile, pigliano il pulimento piano. In su queste hanno dipinto modernamente quasi infiniti, et trovato il modo vero da potere lavorarvi sopra. Hanno provato poi le pietre piu fine, come mischi di marmo, serpentini, et porfidi, et altre simili, che sendo liscie, et brunite vi si attacca sopra il colore. Ma nel vero quando la pietra sia ruvida, et arida, molto meglio inzuppa, e piglia l’olio bollito, et il colore dentro, come alcuni piperni, o vero piperigni gentili, i quali quando siano battuti col ferro, et non arrenati con rena, o sasso di Tufi, si possono spianare con la medesima mistura, che dissi nell’arricciato con quella cazzuola di ferro infocata. Percioche a tutte queste pietre non accade dar colla in principio; ma solo una mano d’imprimatura di colore a olio, cioè mestica; et secca, che ella sia si puo cominciare il lavoro a suo piacimento. Et chi volesse fare una storia a olio su la pietra, puo torre di quelle lastre Genovesi, et farle fare quadre, et fermarle nel muro co perni sopra una incrostatura di stucco, distendendo bene la mestica in su le commettiture. Di maniera che e’ venga a farsi per tutto un piano di che grandezza l’artefice ha bisogno. Et questo, è il vero modo di condurre tali opre a fine. Et finite si puo a quelle fare ornamenti di pietre fini, di misti, et d’altri marmi, le quali si rendono durabili in infinito, pur che con diligenza siano lavorate, et possonsi, et non si possono vernicare, come altrui piace, perche la pietra non prosciuga, cioè non sorbisce quanto fa la tavola, et la tela, et si difende da’ tarli, il che non fa il legname.


Del dipignere nelle mura di chiaro, et scuro di varie terrette, et come si

contrafanno le cose di Bronzo, et delle storie di terretta per archi,

o per feste, a colla, che è chiamato a guazzo, et a tempera.

Cap. XXV.


V
Ogliono i pittori, che il chiaro scuro sia una forma di pittura, che tragga piu al disegno, che al colorito, perche cio è stato cavato dalle statue di marmo, contrafacendole, et da le figure di bronzo, et altre varie pietre. Et questo hanno usato di fare nelle faciate de’ palazzi, et case, in istorie, mostrando, che quelle siano contrafatte, et paino di marmo, o di pietra con quelle storie intagliate, o veramente contrafacendo quelle sorti di spezie di marmo, et porfido, et di pietra verde, et granito rosso, et bigio, o bronzo, o altre pietre, come per loro meglio, si sono accommodati in piu spartimenti di questa maniera, laqual è hoggi molto in uso per fare le facce delle case, e de palazzi, cosi in Roma, come per tutta Italia. Queste pitture si lavorano in due modi prima in fresco, che è la vera; o in tele per archi, che si fanno nell’entrate de’ principi nelle città, e ne’ trionfi, o negli apparati delle feste, e delle Comedie; perche in simili cose fanno bellissimo vedere. Trattaremo prima della spezie, et sorte del fare in fresco; poi diremo de l’altra. Di questa sorte di terretta si [p. 55 modifica]fanno i campi con la terra da fare i vasi, mescolando quella con carbone macinato, o altro nero per far l’ombre piu scure; et bianco di trevertino con piu scuri, et piu chiari, et si lumeggiano col bianco schietto, et con ultimo nero a ultimi scuri finite; vogliono havere tali specie fierezza, disegno, forza, vivacità et bella maniera, et essere espresse con una gagliardezza, che mostri arte, et non stento, perche si hanno a vedere, et a conoscere di lontano. Et con queste ancora s’imitino le figure di bronzo, le quali col campo di terra gialla, et rosso, s’abbozzano, et con piu scuri di quello nero, et rosso, et giallo si sfondano, et con giallo schietto si fanno i mezi, et con giallo, et bianco si lumeggiano. Et di queste hanno i Pittori le facciate, et le storie di quelle con alcune statue tramezate, che in questo genere hanno grandissima grazia. Quelle poi che si fanno per archi, comedie, o feste, si lavorano poi che la tela sia data di terretta, cioè di quella prima terra schietta da far vasi, temperata con colla, et bisogna che essa tela sia bagnata di dietro, mentre l’artefice la dipigne, a ciò che con quel campo di terretta, unisca meglio li scuri, et i chiari della opera sua. Et si costuma temperare i neri di quelle, con un poco di tempera. Et si adoperano biacche per bianco, et minio per dar rilievo alle cose, che paiono di bronzo, et giallolino per lumeggiare sopra detto minio. Et per i campi, et per gli scuri, le medesime terre gialle, et rosse, et i medesimi neri, che io dissi nel lavorare a fresco, i quali fanno mezi, et ombre. Ombrasi ancora con altri diversi colori, altre sorti di chiari, et scuri; come con terra d’ombra, alla quale si fa la terretta di verde terra; et gialla, et bianco; similmente con terra nera, che è un’altra sorte di verde terra, et nera, che la chiamono verdaccio.


Degli sgraffiti delle case, che reggono a l’acqua; Quello che si adoperi a fargli; et come si lavorino le Grottesche nelle mura.     Cap. XXVI.


H
Anno i Pittori un’altra sorte di pittura, che è Disegno, et pittura insieme; et questo si domanda Sgraffito, et non serve ad altro, che per ornamenti di facciate di case, et palazzi, che piu brevemente si conducono con questa spezie, et reggono all’acque sicuramente. Perche tutti i lineamenti, in vece di essere disegnati con carbone, o con altra materia simile, sono tratteggiati con un ferro dalla mano del Pittore. Il che si fa in questa maniera.

Pigliano la calcina mescolata con la rena ordinariamente; et con paglia abbruciata la tingono d’uno scuro, che venga in un mezo colore, che trae in argentino; et verso lo scuro un poco piu, che tinta di mezo, et con questa intonacano la facciata. Et fatto cio, et pulita col bianco della calce di trevertino, l’imbiancano tutta, et imbiancata ci spolverono su i cartoni: o vero disegnano quel che ci vogliono fare. Et dipoi agravando col ferro, vanno dintornando, et tratteggiando la calce; la quale essendo sotto di corpo nero, mostra tutti i graffi del ferro, come segni di disegno. Et si suole ne’ campi di quegli radere il bianco; et poi havere una tinta d’acquerello scurretto molto acquidoso; et di quello dare per gli scuri, come si desse a una carta; il che di lontano fa un bellissimo vedere: ma il campo, se ci è grottesche, o fogliami, si sbattimenta, cio è ombreggia con quello acquerello. Et questo è il lavoro, che per esser dal ferro graffiato, hanno chiamato i pittori sgraffito. Restaci hora ragionare de le [p. 56 modifica]grottesche, che si fanno sul muro, dunque quelle, che vanno in campo bianco, non ci essendo il campo di stucco, per non essere bianca la calce; si dà per tutto sottilmente il campo di bianco: et fatto cio si spolverano, et si lavorano in fresco di colori sodi; perche non harebbono mai la grazia, c’hanno quelle, che si lavorano su lo stucco. Di questa spezie possono essere grottesche grosse, e sottili, le quali vengono fatte nel medesimo modo, che si lavorano le figure a fresco, o in muro.


Come si lavorino le grottesche su lo stucco.     Cap. XXVII.


L
E grottesche sono una spezie di pittura licenziosa, et ridicola molto, fatte da gl’antichi, per ornamenti di vani, dove in alcuni luoghi non stava bene altro, che cose in aria: per ilche facevano in quelle tutte sconciature di monstri, per strattezza della natura; et per gricciolo, et ghiribizo degli artefici; i quali fanno in quelle, cose senza alcuna regola, apiccando a un sottilissimo filo un peso, che non si puo reggere, à un cavallo le gambe di foglie, a un’huomo le gambe di gru; et infiniti sciarpelloni, et passerotti. Et chi piu stranamente segli immaginava, quello era tenuto piu valente. Furono poi regolate, et per fregi, et spartimenti fatto bellissimi andari; cosi di stucchi mescolarono quelle con la pittura. Et si innanzi andò questa pratica, che in Roma, et in ogni luogo, dove i Romani risedevano, ve n’è ancora conservato qualche vestigio. Et nel vero tocche d’oro, et intagliate di stucchi, elle sono opera allegra, et dilettevole a vedere. Queste si lavorano di quattro maniere, l’una lavora lo stucco schietto; l’altra fa gli ornamenti soli di stucco, et dipigne le storie ne’ vani, et le grottesche ne’ fregi; La terza fa le figure parte lavorate di stucco, et parte dipinte di bianco, et nero, contrafacendo Cammei, e altre pietre. Et di questa spezie Grottesche, et stucchi, se n’è visto; et vede tante opere lavorate da’ moderni, i quali con somma grazia, e bellezza hanno adornato le fabbriche piu notabili di tutta l’Italia; che gli antichi rimangono vinti, di grande spacio. L’ultima finalmente lavora d’acquerello in su lo stucco, campando il lume con esso; et ombrandolo con diversi colori. Di tutte queste sorti, che si difendono assai dal tempo, se ne veggono delle antiche in infiniti luoghi a Roma, et a Pozzuolo vicino a Napoli. Et questa ultima sorte si puo anco benissimo lavorare con colori sodi a fresco, lasciando lo stucco bianco, per campo a tutte queste, che nel vero hanno in se bella grazia; et fra esse si mescolano paesi, che molto danno loro de l’allegro. Et cosi ancora storiette di figure piccole colorite. Et di questa sorte hoggi in Italia ne sono molti maestri, che ne fanno professione, et in esse sono eccellenti.


Del modo del mettere d’oro a bolo, et a mordente, et altri modi.

Cap. XXVIII.


F
U veramente bellissimo segreto, et investigatione sofistica il trovar modo, che l’oro si battesse in fogli si sottilmente, che per ogni migliaio di pezzi battuti, grandi un’ottavo di braccio per ogni verso, bastasse fra l’artificio, et l’oro, il valore solo di sei scudi. Ma non fu punto meno ingegnosa cosa, il trovar modo, a poterlo talmente distendere sopra il Gesso; che il legno, od altro ascostovi sotto, paresse tutto una massa d’oro. Ilche si fa in questa [p. 57 modifica]maniera. Ingessasi il legno con gesso sottilissimo, impastato con la colla piu tosto dolce che cruda: Et vi si da sopra grosso piu mani, secondo che il legno è lavorato bene, o male. In oltre raso il gesso, e pulito, con la chiara dell’uovo schietta, sbattuta sottilmente con l’acqua dentrovi, si tempera il bolo armeno, macinato ad acqua sottilissimamente. Et si fa il primo acquidoso, o vogliamo dirlo liquido, et chiaro; et l’altro appresso piu corpulento. Poi si da con esso al manco tre volte sopra il lavoro, sino, che e’ lo pigli per tutto bene. Et bagnando di mano in mano con un pennello con acqua pura dove è dato il bolo, vi si mette su l’oro in foglia, il quale subito si appicca a quel molle. Et quando egli è soppasso, non secco, si brunisce con una zanna di cane, o di lupo, sinche e’ diventi lustrante, et bello. Dorasi ancora in un’altra maniera, che si chiama a mordente, il che si adopera ad ogni sorte di cose, pietre, legni, tele, metalli d’ogni spezie, Drappi, et Corami; Et non si brunisce come quel primo. Questo Mordente, che è la maestra, che lo tiene, si fa di colori seccaticci a olio di varie sorti, et di olio cotto con la vernice dentrovi; Et dassi in sul legno, che ha havuto prima due mani di colla. Et poi che il mordente è dato cosi, non mentre, che egli è fresco, ma mezo secco, vi si mette su l’oro in foglie. Il medesimo si puo fare ancora con l’orminiaco, quando s’ha fretta; atteso che mentre si dà è buono; Et questo serve piu a fare selle, arabeschi, et altri ornamenti, che ad altro. Si macina ancora di questi fogli in una tazza di vetro con un poco di mele, et di gomma, che serve a i miniatori, et a infiniti, che col pennello si dilettano fare proffili, et sottilissimi lumi nelle pitture. Et tutti questi sono bellissimi segreti, ma per la copia di essi, non se ne tiene molto conto.


Del Musaico de’ vetri, et a quello, che si conosce il buono, et lodato.

Cap. XXIX.


E
Ssendosi assai largamente detto di sopra nel vi. Capitolo che cosa sia il Musaico, et come e’ si faccia; continuandone qui, quel tanto che è proprio della Pittura diciamo, che egli è maestria veramente grandissima, condurre i suoi pezzi cotanto uniti, che egli apparisca di lontano, per honorata pittura, et bella. Atteso, che in questa spezie di lavoro bisogna, et pratica, et giudizio grande, con una profondissima intelligenza nell’arte del disegno, perche chi offusca ne’ disegni il musaico, con la copia, et abbondanza delle troppe figure nelle istorie, e con le molte minuterie de’ pezzi, le confonde. Et però bisogna, che il disegno de’ cartoni, che per esso si fanno; sia aperto, largo, facile, chiaro, et di bontà, et bella maniera continuato. Et chi intende nel disegno la forza degli sbattimenti, et del dare pochi lumi, et assai scuri; con fare in quegli certe piazze, o campi, Costui sopra d’ogni altro, lo farà bello, et bene ordinato.

Vuole havere il musaico lodato, chiarezza in se: con certa unita scurità verso l’ombre, et vuole essere fatto con grandissima discrezione, lontano dall’occhio, acio che lo stimi pittura, et non tarsia commessa. La onde i musaici, che haranno queste parti, saranno buoni, et lodati da ciascheduno; et certo è che il musaico è la piu durabile pittura che sia. Imperò che l’altra col tempo si spegne; et questa nello stare fatta di continuo s’accende. Et in oltre la Pittura manca, et si consuma per se medesima; Ove il Musaico, per la sua lunghissima vita, si puo quasi chiamare eterno. Perloche scorgiamo noi in esso, non solo la [p. 58 modifica]perfezione de’ Maestri vecchi; ma quella ancora degli antichi, mediante quelle opere, che hoggi si riconoscono dell’età loro. Come nel tempio di Bacco a Santa Agnesa fuor di Roma, dove è benissimo condotto tutto quello, che vi è lavorato. Similmente a Ravenna n’è del vecchio bellissimo in piu luoghi. Et a Vinezia in san Marco. A Pisa nel Duomo, et a Fiorenza in san Giovanni la tribuna. Ma il più bello di tutti è quello di Giotto nella nave del portico di San Piero di Roma; perche veramente in quel genere è cosa miracolosa. Et ne’ moderni quello di Domenico del Ghirlandaio sopra la porta di fuori di santa Maria del Fiore, che va alla Nuntiata. Preparansi adunque i pezzi da farlo; in questa maniera. Quando le fornaci de’ vetri sono disposte, et le padelle piene di vetro, se li vanno dando i colori a ciascuna padella il suo; Avvertendo sempre, che da un chiaro bianco, che ha corpo, et non è trasparente, si conduchino i piu scuri di mano in mano, in quella stessa guisa, che si fanno le mestiche de’ colori, per dipignere ordinariamente. Appresso, quando il vetro è cotto, et bene stagionato, et le mestiche sono condotte, et chiare, et scure, et d’ogni ragione, con certe cucchiaie lunghe di ferro si cava il vetro caldo. Et si mette in su uno marmo piano, et sopra con un’altro pezzo di marmo si schiaccia pari. Et se ne fanno rotelle, che venghino ugualmente piane; e restino di grossezza la terza parte dell’altezza d’un dito. Se ne fa poi con una bocca di cane di ferro pezzetti quadri tagliati; et altri col ferro caldo lo spezzano inclinandolo a loro modo. I medesimi pezzi diventano lunghi, et con uno smeriglio si tagliano; il simile si fa di tutti i vetri, che hanno di bisogno. Et se n’empiono le scatole, et si tengono ordinati, come si fa i colori quando si vuole lavorare a fresco, che in varij scodellini si tiene separatamente la mestica delle tinte piu chiare, et piu scure per lavorare. Ecci un’altra spezie di vetro, che si adopra per lo campo, et per i lumi de’ panni, che si mette d’oro; questo quando lo vogliano dorare, pigliano quelle piastre di vetro, che hanno fatto; et con acqua di gomma bagnano tutta la piastra del vetro, et poi vi mettono sopra i pezzi d’oro. Fatto cio mettono la piastra su una pala di ferro, et quella nella bocca della fornace, coperta prima con un vetro sottile tutta la piastra di vetro, che hanno messa d’oro, e fanno questi coperchi, o di bocce, o a modo di fiaschi spezzati, di maniera, che un pezo cuopra tutta la piastra; Et lo tengono tanto nel fuoco, che vien quasi rosso, et in un tratto cavandole, l’oro viene con una presa mirabile a imprimersi nel vetro, et fermarsi; e regge all’acqua, et a ogni tempesta; Poi questo si taglia, et ordina come l’altro di sopra. Et per fermarlo nel muro usano di fare il cartone colorito, et alcuni altri senza colore; il quale cartone calcano, o segnano a pezzo a pezzo in su lo stucco; et di poi vanno commettendo appoco appoco quanto vogliono fare nel musaico. Questo stucco per esser posto grosso in su l’opera gli aspetta duoi di, et quattro secondo la qualità del tempo: E fassi di trevertino, di calce, mattone pesto, Draganti, et chiara d’uovo, e fattolo, tengono molle con pezze bagnate, cosi dunque pezo, per pezo tagliano i cartoni nel muro, et lo disegnano su lo stucco calcando fin che poi con certe mollette si pigliano i pezzetti degli smalti; et si commettono nello stucco, et si lumeggiano i lumi, et dassi mezi a mezi, et scuri agli scuri; contrafacendo l’ombre, i lumi, et i mezi minutamente, come nel cartone; et cosi lavorando con diligenza si conduce appoco appoco a perfezione. Et chi piu lo conduce [p. 59 modifica]unito, si che e’ torni pulito, et piano; colui è piu degno di loda, et tenuto da piu degli altri. Impero sono alcuni tanto diligenti al musaico, che lo conducono di maniera, che egli apparisce pittura a fresco. Questo, fatta la presa, indura talmente il vetro nello stucco; che dura in infinito; come ne fanno fede i musaici antichi, che sono in Roma, et quelli che sono vecchi; et anco nell’una, et nell’altra parte i moderni a i di nostri n’hanno fatto del maraviglioso.


Dell’istorie, et delle figure, che si fanno di commesso ne’ Pavimenti, ad imitazione delle cose di chiaro, et scuro.     Cap. XXX.


H
Anno aggiunto i nostri moderni maestri al musaico di pezzi piccoli, un altra specie di musaici di marmi commessi, che contrafanno le storie dipinte di chiaro scuro. Et questo ha causato il desiderio ardentissimo di volere, che e’ resti nel mondo a chi verrà dopo, se pure si spegnessero l’altre spezie della pittura, un lume, che tenga accesa la memoria de’ pittori moderni; et cosi hanno contrafatto con mirabile magisterio storie grandissime, che non solo si potrebbono mettere ne pavimenti, dove si camina; Ma incrostarne ancora le facce delle muraglie, et di palazzi, con arte tanto bella, et meravigliosa, che pericolo non sarebbe ch’el tempo consumasse il disegno di coloro, che sono rari in questa professione. Come si puo vedere nel Duomo di Siena, cominciato prima da Duccio Sanese, et poi da Domenico Beccafumi a di nostri seguitato, et augumentato. Questa arte ha tanto del buono, del nuovo, et del durabile, che per pittura commessa di bianco, et nero poco più si puote desiderare di bontà, e di bellezza. Il componimento suo si fa di tre sorte marmi, che vengono de’ monti di Carrara; L’uno de’ quali è bianco finissimo, et candido; l’altro non è bianco, ma pende in livido, che fa mezzo a quel bianco, et il terzo è un marmo bigio di tinta, che trahe in argentino, che serve per iscuro. Di questi volendo fare una figura, se ne fa un cartone di chiaro, e scuro, con le medesime tinte; et cio fatta, per i dintorni di que’ mezi, et scuri, et chiari a luoghi loro: si commette nel mezo con diligenza il lume di quel marmo candido; et cosi i mezi, et gli scuri allato a que’ mezi, secondo i dintorni stessi, che nel cartone ha fatto l’artefice. Et quando cio hanno commesso insieme, et spianato di sopra tutti i pezzi de’ marmi, cosi chiari come scuri, et come mezi; piglia l’artefice, che ha fatto il cartone un pennello di nero temperato, quando tutta l’opra è insieme commessa in terra; et tutta sul marmo la tratteggia, et proffila, dove sono gli scuri, a guisa, che si contorna, tratteggia, et proffila con la penna una carta, che havesse disegnata di chiaro scuro. Fatto cio lo scultore viene incavando co i ferri, tutti quei tratti, et proffili, che il pittore ha fatti, et tutta l’opra incava, dove ha disegnato di nero il pennello. Finito questo si murano ne’ piani a pezi, a pezi, et finito con una mistura di pegola nera bollito, o asfalto, et nero di terra, si riempiono tutti gli incavi, che ha fatti lo scarpello; Et poi che la materia è fredda, et ha fatto presa, con pezzi di Tufo, vanno levando, et consumando cio, che sopra avanza; et con rena mattoni, e acqua si va arrotando, et spianando tanto, che il tutto resti ad un piano, cioè il marmo stesso, et il ripieno. Il che fatto, resta l’opera in una maniera, che ella pare veramente pittura in piano. Et ha in se grandissima forza con arte, et con [p. 60 modifica]maestria. Laonde è ella molto venuta in uso per la sua bellezza; Et ha causato ancora, che molti pavimenti di stanze hoggi si fanno di mattoni, che siano una parte di terra bianca, cioè di quella, che trae in azurrino, quando ella è fresca, e cotta diventa bianca; et l’altra della ordinaria da fare mattoni, che viene rossa quando ella è cotta. Di queste due sorti si sono fatti pavimenti commessi di varie maniere a spartimenti, come ne fanno fede le sale papali a Roma al tempo di Raffaello da Urbino; et hora ultimamente molte stanze in castello Santo Agnolo, dove si sono con i medesimi mattoni fatte imprese di gigli, commessi di pezi, che dimostrano l’arme di Papa Paulo; et molte altre imprese. Et in Firenze il pavimento della libreria di San Lorenzo, fatta fare dal Duca Cosimo; et tutte sono state condotte con tanta diligenza, che piu di bello non si puo desiderare in tale magisterio. Et di tutte queste cose commesse fu cagione il primo musaico. Et perche, dove si è ragionato delle pietre, et marmi di tutte le sorti, non si è fatto menzione d’alcuni misti nuovamente trovati dal signor Duca Cosimo, dico che l’anno 1563 sua Eccellenza ha trovato ne’ monti di Pietrasanta presso alla villa di Stazzema un monte, che gira 2. miglia. et altissimo; la cui prima scorza è di marmi bianchi ottimi per fare statue. Il di sotto è un mischio rosso, e gialliccio; e quello che è piu adentro, è verdiccio, nero, rosso, e giallo, con altre varie mescolanze di colori, e tutti sono in modo duri, che quanto piu si va à dentro, si trovano maggior saldezze, et insino a hora vi si vede da cavar colonne di quindici, in venti braccia. Non se n’é ancor messo in uso; perche si va tuttavia facendo d’ordine di Sua Eccellenza una strada di tre miglia, per potere condurre questi marmi dalle dette cave alla marina: i quali mischi saranno, per quello, che si vede molto a proposito per pavimenti.


Del musaico di legname, cioè delle Tarsie: et dell’istorie, che si fanno di legni tinti, et commessi a guisa di Pitture.     Cap. XXXI.


Q
Uanto sia facil cosa l’aggiugnere all’invenzioni de’ passati qualche nuovo trovato sempre; assai chiaro ce lo dimostra non solo il predetto commesso de pavimenti, che senza dubbio vien dal musaico; ma le stesse Tarsie ancora, et le figure di tante varie cose, che a similitudine pur del musaico, et della pittura, sono state fatte da’ nostri vecchi di piccoli pezzetti di legno commessi, et uniti insieme nelle tavole del noce, et colorati diversamente; Ilche i moderni chiamano lavoro di commesso, benche a’ vecchi fosse Tarsia. Le miglior cose, che in questa spezie gia si facessero, furono in Firenze nei tempi di Filippo di ser Brunellesco: et poi di Benedetto da Maiano. Il quale nientedimanco giudicandole cosa disutile, si levò in tutto da quelle, come nella vita sua si dira. Costui, come gli altri passati le lavorò solamente di nero, et di bianco. Ma fra Giovanni Veronese, che in esse fece gran frutto, largamente le migliorò; dando varij colori a’ legni, con acque, et tinte bollite, e con olij penetrativi; per havere di legname i chiari, e gli scuri, variati diversamente, come nella arte della Pittura. Et lumeggiando con bianchissimo legno di Silio sottilmente le cose sue. Questo lavoro hebbe origine primieramente nelle prospettive. Perche quelle havevano termine di canti vivi, che commettendo insieme i pezi facevano il profilo; et pareva tutto d’un pezzo il piano dell’opera [p. 61 modifica]loro, se bene e’ fosse stato di piu di mille. Lavorarono però di questo gli antichi ancora nelle incrostature delle pietre fini, come apertamente si vede nel portico di san Pietro, dove è una gabbia con un’uccello in un campo di porfido, e d’altre pietre diverse, commesse in quello con tutto il resto degli staggi et delle altre cose. Ma per essere il legno piu facile, et molto piu dolce a questo lavoro; hanno potuto i Maestri nostri lavorarne piu abbondantemente, et in quel modo, che hanno voluto. Usarono gia per far l’ombre, abbronzarle col fuoco da una banda: il che bene imitava l’ombra; ma gli altri hanno usato di poi olio di zolfo, et acque di solimati, et di arsenichi, con le quali cose hanno dato quelle tinture, che eglino stessi hanno voluto; Come si vede nell’opre di fra Damiano in San Domenico di Bologna. Et perche tale professione consiste solo ne’ disegni, che siano atti a tale esercizio, pieni di casamenti, et di cose che habbino i lineamenti quadrati; et si possa per via di chiari, et di scuri dare loro forza, et rilievo; hannolo fatto sempre persone, che hanno avuto piu pacienza, che disegno. Et cosi s’è causato, che molte opere vi si sono fatte. Et si sono in questa professione lavorate storie di figure, frutti, et animali, che in vero alcune cose sono vivissime; ma per essere cosa, che tosto diventa nera, et non contrafa se non la pittura, essendo da meno di quella, et poco durabile per i tarli, et per il fuoco, è tenuto tempo buttato in vano, anchora, che e’ sia pure, et lodevole, et maestrevole.


Del dipignere le finestre di vetro; et come elle si conduchino co’ piombi, e co’ ferri da sostenerle senza impedimento delle figure.     Cap. XXXII.


C
Ostumarono gia gl’antichi, ma per gl’huomini grandi o almeno di qualche importanza; di serrare le finestre in modo, che senza impedire il lume; non vi entrassero i venti, o il freddo; et questo solamente ne’ bagni loro, ne’ sudatoi, nelle stufe, et negli altri luoghi riposti, chiudendo le aperture, o vani di quelle con alcune pietre trasparenti, come sono le Agate, gli Alabastri, et alcuni marmi teneri, che sono mischi, o che traggono al gialliccio. Ma i moderni, che in molto maggior copia hanno havuto le fornaci de’ vetri, hanno fatto le finestre di vetro, di occhi, et di piastre, a similitudine, od imitazione di quelle, che gli antichi fecero di pietra. Et con i piombi accanalati da ogni banda, le hanno insieme serrate, et ferme; et ad alcuni ferri messi nelle muraglie a questo proposito, o veramente ne’ telai di legno, le hanno armate, et ferrate come diremo. Et dove elle si facevano nel principio semplicemente d’occhi bianchi, et con angoli bianchi, o pur colorati; hanno poi imaginato gli artefici, fare un musaico de le figure di questi vetri, diversamente colorati, et commessi ad uso di pittura. Et talmente si è assottigliato l’ingegno in ciò, che e’ si vede hoggi condotta questa arte delle finestre di vetro a quella perfezzione, che nelle tavole si conducono le belle pitture, unite di colori, et pulitamente dipinte; si come nella vita di Guglielmo da Marzille Franzese, largamente dimostrerremmo. Di questa arte hanno lavorato meglio i Fiaminghi, et i Franzesi, che l’altre nazioni. Atteso, che eglino come investigatori delle cose del fuoco, et de colori hanno ridotto a cuocere a fuoco i colori, che si pongono in sul vetro. A cagione che il vento, l’aria, et la pioggia, non le offenda in [p. 62 modifica]maniera alcuna. Dove gia costumavano dipigner quelle di colori velati con gomme et altre tempere, che col tempo si consumavano. Et i venti, le nebbie, et l’acque se le portavano di maniera, che altro non vi restava, che il semplice colore del vetro. Ma nella età presente veggiamo noi condotta questa arte a quel sommo grado, oltra il quale non si può appena desiderare perfezione alcuna, di finezza, di bellezza, et di ogni particularità, che a questo possa servire; con una delicata et somma vaghezza, non meno salutifera, per assicurare le stanze da’ venti, et dall’arie cattive; che utile et comoda per la luce chiara, et spedita che per quella ci si appresenta. Vero è che per condurle, che elle siano tali, bisognano primieramente tre cose, cioè una luminosa trasparenza ne’ vetri scelti; un bellissimo componimento di cio che vi si lavora; et un colorito aperto senza alcuna confusione. La trasparenza consiste nel saper fare elezione di vetri, che siano lucidi per se stessi. Et in cio, meglio sono i Franzesi, Fiaminghi, et Inghilesi, che i Veniziani; perche i Fiaminghi sono molto chiari, et i Veniziani molto carichi di colore. Et quegli, che son chiari, adombrandoli di scuro, non perdono il lume del tutto, tale, che e’ non traspaino nell’ombre loro. Ma i Veniziani, essendo di loro natura scuri, et oscurandoli di piu con l’ombre, perdono in tutto la trasparenza. Et ancora, che molti si dilettino d’havergli carichi di colori, artifitiatamente soprapostivi, che sbattuti dall’aria, et dal sole mostrano non sò che di bello piu, che non fanno i colori naturali. Meglio è nondimeno aver i vetri di loro natura chiari, che scuri; a cio che da la grossezza del colore non rimanghino offuscati. A condurre questa opera, bisogna havere un cartone disegnato con profili, dove siano i contorni delle pieghe de’ panni, et delle figure, iquali dimostrino dove si hanno a commettere i vetri; Di poi si pigliano i pezi de’ vetri, rossi, gialli, azurri, et bianchi; et si scompartiscono secondo il disegno, per panni, o per carnagioni, come ricerca il bisogno. Et per ridurre ciascuna piastra di essi vetri a le misure disegnate sopra il cartone si segnano detti pezzi in dette piastre, posate sopra il detto cartone, con un pennello di biacca; Et a ciascuno pezo s’assegna il suo numero, per ritrovargli piu facilmente nel commettergli, i quali numeri finita l’opera, si scancellano. Fatto questo, per tagliargli a misura, si piglia un ferro appuntato affocato, con la punta del quale havendo prima con una punta di smeriglio intaccata alquanto la prima superficie dove si vuole cominciare, e con un poco di sputo bagnatovi, si và con esso ferro lungo que’ dintorni, ma alquanto discosto. Et a poco, a poco muovendo il predetto ferro il vetro si inclina, et si spicca dalla piastra. Dipoi, con una punta di smeriglio si va rinettando detti pezzi, et levandone il superfluo; Et con un ferro, che e’ chiamano Grisatoio, o vero Topo, si vanno rodendo i dintorni disegnati, tale che’ venghino giusti da potergli commettere per tutto. Cosi dunque commessi i pezzi di vetro, in su una tavola piana si distendono sopra il cartone, et si comincia a dipignere per i panni l’ombra di quegli, laquale vuol essere di scaglia di ferro macinata, et d’un’altra ruggine, che alle cave del ferro si trova, la quale è rossa, o vero matita rossa, e dura macinata, et con queste si ombrano le carni, cangiando quelle col nero, et rosso, secondo che fa bisogno. Ma prima è necessario alle carni velare con quel rosso tutti i vetri, et con quel nero fare il medesimo a panni, con temperargli con la gomma, apoco apoco dipignendoli, et ombrandoli come sta il cartone. Et [p. 63 modifica]appresso, dipinti, che e’ sono, volendoli dare lumi fieri si ha un pennello di setole corto, et sottile, et con quello si graffiano i vetri in su il lume, et levasi di quel panno, che haveva dato per tutto il primo colore; Et con l’asticiuola del pennello si và lumeggiando i capegli, le barbe, i panni, i casamenti, e paesi come tu vuoi. Sono però in questa opera molte difficultà, et chi se ne diletta puo mettere varij colori sul vetro, perche segnando su un colore rosso, un fogliame, o cosa minuta, volendo, che a fuoco venga colorito d’altro colore si puo squamare quel vetro quanto tiene il fogliame, con la punta d’un ferro, che levi la prima scaglia del vetro cioè, il primo suolo, et non la passi, perche faccendo cosi, rimane il vetro di color bianco, et se egli dà poi quel rosso fatto di piu misture, che nel cuocere mediante lo scorrere, diventa giallo. Et questo si puo fare su tutti i colori, ma il giallo meglio riesce sul bianco, che in altri colori, l’azurro a campirlo, divien verde nel cuocerlo, perche il giallo, et l’azurro mescolati, fanno color verde. Questo giallo non si dà mai se non dietro, dove non è dipinto, perche mescolandosi, e scorrendo guasterebbe, et si mescolarebbe, con quello il quale cotto rimane sopra grosso il rosso, che raschiato via con un ferro, vi lascia giallo. Dipinti, che sono i vetri, vogliono esser messi in una teghia di ferro con un suolo di cenere stacciata, et calcina cotta mescolata: et a suolo, a suolo i vetri parimente distesi, et ricoperti dalla cenere istessa; poi posti nel fornello, il quale a fuoco lento a poco a poco riscaldati, venga a infocarsi la cenere, e i vetri, perche i colori, che vi sono su infocati, in rugginiscono, et scorrono, et fanno la presa sul vetro. Et a questo cuocere bisogna usare grandissima diligenza, perche il troppo fuoco violento, li farebbe crepare; et il poco non li cocerebbe. Ne si debbono cavare finche la padella, o teghia dove e’ sono non si vede tutta di fuoco, et la cenere con alcuni saggi sopra, che si vegga quando il colore è scorso. Fatto ciò si buttano i piombi in certe forme di pietra, o di ferro, i quali hanno due canali, cioè da ogni lato uno, dentro al quale si commette, e serra il vetro. Et si piallano, et dirizano, et poi su una tavola si conficcano, et a pezzo per pezzo s’impiomba tutta l’opera in piu quadri; et si saldano tutte le commettiture de’ piombi con saldatoi di stagno; et in alcune traverse, dove vanno i ferri, si mette fili di rame impiombati, accioche possino reggere, et legare l’opra: la quale s’arma di ferri, che non siano al dritto delle figure, ma torti secondo le commettiture di quelle, a cagione, che e’ non impedischino il vederle. Questi si mettono con inchiovature ne’ ferri, che reggono il tutto. Et non si fanno quadri, ma tondi accio impedischino manco la vista: Et da la banda di fuori si mettono alle finestre, et ne’ buchi delle pietre s’impiombano, et con fili di rame, che ne’ piombi delle finestre saldati siano a fuoco, si legano fortemente. Et perche i fanciulli, o altri impedimenti non le guastino, vi si mette dietro una rete di filo di rame sottile. Le quali opre, se non fossero in materia troppo frangibile durerebbono al mondo infinito tempo. Ma per questo non resta, che l’arte non sia difficile, artificiosa, et bellissima.


Del niello, e come per quello habbiamo le stampe di rame; et come

s’intaglino gl’argenti, per fare gli smalti di basso

rilievo, et similmente si ceselino le gros

serie.      Cap. XXXIII.


[p. 64 modifica]
I
L Niello, il quale non è altro, che un disegno tratteggiato, et dipinto su lo argento, come si dipigne, et tratteggia sottilmente con la penna; fu trovato da gli Orefici fino al tempo degli antichi; essendosi veduti cavi co’ ferri, ripieni di mistura negli ori, et argenti loro. Questo si disegna con lo stile su lo argento, che sia piano, et s’intaglia col bulino, che è un ferro quadro tagliato a unghia, da l’uno degli angoli a l’altro per isbieco, che cosi calando verso uno de’ canti, lo fa piu acuto, et tagliente da due lati, et la punta di esso scorre, e sottilissimamente intaglia. Con questo si fanno tutte le cose, che sono intagliate ne’ metalli, per riempierle, o per lasciarle vote, secondo la volontà dell’artefice. Quando hanno dunque intagliato, et finito col bulino; pigliano argento, et piombo, et fanno di esso al fuoco una cosa, che incorporata insieme è nera di colore, et frangibile molto, et sottilissima a scorrere. Questa si pesta, et si pone sopra la piastra dell’argento dov’è l’intaglio, il qual’è necessario, che sia bene pulito; et accostatolo a fuoco di legne verdi, soffiando co’ mantici, si fa, che i raggi di quello, percuotino dove è il Niello. Il quale per la virtù del calore fondendosi, et scorrendo, riempie tutti gli intagli, che haveva fatti il bulino. Appresso, quando l’argento è raffreddo; si và diligentemente co’ raschiatoi levando il superfluo; et con la pomice appoco appoco si consuma, fregandolo, e con le mani, et con un quoio tanto, che è si truovi il vero piano; et che il tutto resti pulito. Di questo lavorò mirabilissimamente Maso Finiguerra Fiorentino, il quale fu raro in questa professione, come ne fanno fede alcune paci di niello in san Giovanni di Fiorenza, che sono tenute mirabili. Da questo intaglio di bulino son derivate le stampe di rame; onde tante carte, e Italiane, e Tedesche veggiamo hoggi per tutta Italia, che si come negli argenti s’improntava, anzi che fussero ripieni di niello, di terra, et si buttava di zolfo, cosi gli Stampatori trovarono il modo del fare le carte su le Stampe di rame col torculo, come hoggi habbiam veduto da essi imprimersi. Ecci un’altra sorte di lavori in argento, o in oro, comunemente chiamata Smalto, che è spezie di pittura mescolata con la scultura. Et serve dove si mettono l’acque, si che gli smalti restino in fondo. Questa dovendosi lavorare in su l’oro, ha bisogno d’oro finissimo. Et in su l’argento, argento almeno a lega di Giulij. Et è necessario questo modo, perche lo smalto ci possa restare, et non iscorrere altrove, che nel suo luogo; bisogna lasciarli i profili d'argento, che disopra sian sottili e non si vegghino. Cosi si fa un rilievo piatto, et in contrario a l’altro; accioche, mettendovi gli smalti, pigli gli scuri, et chiari di quello dall’altezza et dalla bassezza dello intaglio. Pigliasi poi smalti di vetri di varij colori, che diligentemente si fermino col martello. Et si tengono negli scodellini con acqua chiarissima, separati, et distinti l’uno da l’altro. Et quegli che si adoperano a l’oro, sono differenti da quegli che servono per l’argento. Et si conducono in questa maniera. Con una sottilissima Palettina d’argento si pigliano separatamente gli smalti; et con pulita pulitezza si distendono a’ luoghi loro; et vi se ne mette, et rimette sopra secondo, che ragnano, tutta quella quantità, che fa di mestiero. Fatto questo si prepara una pignatta di terra, fatta a posta, che per tutto sia piena di buchi, et habbia una bocca dinanzi; Et vi si mette dentro la Mufola, cioè un coperchietto di Terra bucato, che non lasci cadere i carboni a basso; et dalla Mufola in su si empie di carboni di cerro, et si accende ordinariamente. Nel voto [p. 65 modifica]che è restato sotto il predetto coperchio, in su una sottilissima piastra di ferro, si mette la cosa smaltata, a sentire il caldo a poco a poco, et vi si tiene tanto, che fondendosi gli smalti, scorrino per tutto quasi come acqua. Ilche fatto si lascia rafreddare; et poi con una frassinella ch’è una pietra da dare filo a i ferri, e con rena da bicchieri si sfrega, et con acqua chiara, finche si truovi il suo piano. Et quando è finito di levare il tutto si rimette nel fuoco medesimo, acciò il lustro nello scorrere l’altra volta vada per tutto. Fassene d’un’altra sorte a mano, che si pulisce con gesso di Tripoli, et con un pezzo di cuoio; del quale non accade fare menzione; ma di questo, l’ho fatto, perche, essendo opra di pittura, come le altre, m’è paruto a proposito.


Della Tausia, cioè Lavoro a la Damaschina.     Cap. XXXIIII.


H
Anno ancora i moderni ad imitazione degli antichi rinvenuto una spezie di commettere ne metalli intagliati d’argento, o d’oro, faccendo in essi lavori piani, o di mezo, o di basso rilievo; Et in cio grandemente gli hanno avanzati. Et cosi habbiamo veduto nello acciaio l’opere intagliate a la Tausia altrimenti detta a la Damaschina, per lavorarsi di cio in Damasco, et per tutto il Levante eccellentemente. La onde veggiamo hoggi di molti bronzi, et ottoni, et rami commessi di argento, et oro, con arabeschi, venuti di que paesi: Et negli antichi habbiamo veduto anelli d’acciaio con meze figure, et fogliami molto belli. Et di questa spezie di lavoro sene son fatte a di nostri armadure da combattere lavorate tutte d’arabeschi d’oro commessi, et similmente staffe, arcioni di selle, et mazze ferrate, Et hora molto si costumano i fornimenti delle spade, de pugnali, de’ coltelli, et d’ogni ferro che si voglia riccamente ornare, et guernire; et si fa cosi. Cavasi il ferro in sotto squadra, et per forza di martello si commette l’oro in quello, fattovi prima sotto una tagliatura a guisa di lima sottile, si, che l’oro viene a entrare ne’ cavi di quella, et a fermarvesi. Poi con ferri si dintorna, o con garbi di foglie, o con girare di quel che si vuole; et tutte le cose co’ fili d’oro passati per filiera si girano per il ferro, et col martello s’amaccano; et fermano nel modo di sopra. Avvertiscasi nientedimeno, che i fili siano piu grossi; et i proffili piu sottili, a ciò si fermino meglio in quegli. In questa professione infiniti ingegni hanno fatto cose lodevoli, et tenute maravigliose: et però non ho voluto mancare di farne ricordo, dependendo dal commettersi, et essendo scultura, et pittura, cio è cosa che deriva dal disegno.


De le Stampe di legno; et del modo di farle, et del primo Inventor loro; et

come con tre stampe si fanno le carte, che paiono disegnate; et mo

strano il lume, il mezzo, e l’ombre.     Cap. XXXV.


I
L primo inventore delle stampe di legno di tre pezzi, per mostrare oltra il disegno, l’ombre, i mezi, et i lumi ancora, fu Ugo da Carpi, il quale a imitazione delle stampe di Rame, ritrovò il modo di queste, intagliandole in legname di pero, o di bossolo, che in questo sono eccellenti sopra tutti gli altri legnami. Fecele dunque di tre pezzi, ponendo nella prima tutte le cose [p. 66 modifica]proffilate, et tratteggiate: Nella seconda, tutto quello, che è tinto a canto al proffilo con lo acquerello per ombra, et nella terza i lumi, et il campo, lasciando il bianco della carta in vece di lume, et tingendo il resto per campo. Questa, dove è il lume, et il campo si fa in questo modo. Pigliasi una carta stampata, con la prima, dove sono tutte le proffilature, et i tratti, et cosi fresca fresca si pone in su l’asse del pero, et agravandola sopra con altri fogli, che non siano umidi, si strofina, in maniera, che quella che è fresca lascia su l’asse la tinta di tutti i proffili delle figure. E allora il pittore piglia la biacca a gomma, et dà in su ’l pero i lumi; I quali dati, lo intagliatore gli incava tutti co’ ferri secondo, che sono segnati. Et questa è la stampa, che primieramente si adopera; perche ella fa i lumi, et il campo, quando ella è imbratata di colore ad olio: et per mezo della tinta, lascia per tutto il colore, salvo, che dove ella è incavata, che ivi resta la carta bianca. La seconda poi è quella delle ombre, che è tutta piana, et tutta tinta di acquerello, eccetto che dove le ombre non hanno ad essere, che quivi è incavato il legno. Et la Terza, che è la prima a formarsi, è quella, dove il proffilato del tutto è incavato per tutto, salvo, che dove e’ non ha i proffili tocchi dal nero della penna. Queste si stampano al torculo, et vi si rimettono sotto tre volte, cio è una volta per ciascuna stampa si che elle habbino il medesimo riscontro. Et certamente, che cio fu bellissima invenzione. Tutte queste professioni, et arti ingegnose si vede che derivano dal disegno: il quale è capo necessario di tutte: et non l’havendo non si ha nulla. Perche se bene tutti i segreti, et i modi sono buoni; quello è ottimo, per lo quale ogni cosa perduta si ritrova, et ogni difficil cosa, per esso diventa facile, come si potrà vedere nel leggere le vite degl’artefici; i quali dalla natura, et dallo studio aiutati, hanno fatto cose sopra humane per il mezo solo del disegno. Et cosi faccendo qui fine alla introduzzione delle tre Arti, troppo più lungamente forse trattate, che nel principio non mi pensai; Me ne passo a scrivere le Vite.