Le rive della Bormida nel 1794/Capitolo VIII

Capitolo VIII

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CAPITOLO VIII.



In iscambio don Apollinare si trovava a certi passi, che non era il caso di poter pensare nè al padre Anacleto, nè a Giuliano.

I monti sui quali lo abbiamo lasciato colle turbe di Val di Bormida, in capo a quattro o cinque giorni, formicavano, come vi si fosse raccolto un esercito di barbari; pronti a calare dove loro fosse venuta bene la preda, per portarsela a quelle sedi alpestri e selvose. Aveva durato a venirvi gente dalle più remote parti delle Langhe; nè a ricordo d’uomini nè di libri, s’era visto nulla di simigliante. Lassù tutto era andato sossopra, rocce, zolle, alberi per far terrati e ripari: e come a star all’aperto, dì e notte, si diventa industriosi; con certi graticci che sapevano intrecciare assai bene, i boscaiuoli avevano fatto baracche pei capi, i quali dando pochi quattrini cansavano le infreddature. E questi capi erano tanti, che le baracche crebbero di numero, quasi da togliere a quelle montagne l’antico aspetto foresto.

Gli abitanti della marina là sotto, avevano paura di quelle plebi più che dei Francesi già vicinissimi; e ogni mattina guardavano se vi fossero ancora, e mandavano sui monti messaggi d’amicizia, e saluti, e notizie grosse; per tenerle all’erta, che ad esse non venisse il grillo di [p. 145 modifica]calare nei loro borghi, a farvi chi sa che tragedie. Le turbe ricambiavano i saluti, e invece di pensare a discendere laggiù, compiangevano chi vi stava.

Talvolta vedevano navi passare in vista facendo segni con bandiere; ma in quel pararsi di tanti colori non ci capivano nulla. I capi si strappavano fra loro i cannocchiali, e per non essere scortesi rispondevano a quei saluti, bruciando cataste di legna, da mandarne le fiamme alte come d’incendi.

Un di quei giorni erano capitati lassù alcuni uffiziali, dai campi alemanni e piemontesi, posti lontano poche miglia giù verso il mare. Veduto in qual conto s’avessero a tenere quelle strane milizie, e fatta correre la voce che fra breve tempo si sarebbero viste alla prova; se n’erano ripartiti, a quel che si sapeva, ben edificati del loro contegno. E in verità quella lode soldatesca era meritata; perchè durava l’ardore col quale s’erano messe all’impresa di difendere il trono e la religione: e la meglio parte di quella moltitudine, allevata alla vita travagliosa dei solchi e delle selve, non badava ai disagi. Mangiavano i neri pani che s’aveano recati nelle bolge; le quali portate, come usa da quelle parti, che una ne pende sul petto un’altra sul dorso, e bianche di colore, avevano l’aria d’assise bizzarre. Bevevano l’acqua pura delle fonti, per quelle montagne copiose e frequenti; e se alcuni serbavano qualche goccia di vino nei barletti, era per berlo e confortarsi, dove per mala sorte avessero toccata qualche ferita.

All’alba si levavano in piedi, liete come se nulla fosse stato della guazza, e delle brine che talvolta anco in quella stagione, il vento frizzante dell’Alpi porta nella contrada; dicevano ad alta voce le orazioni del mattino; poi facevano d’ogni sorta d’esercizi, visti a fare ai soldati. Due volte il giorno, i preti predicavano da qualche poggio ognuno alla sua compagnia; e parlando di Dio e del Re, tenevano deste le ire, e il desiderio di dar dentro a menar le mani in guisa, che dopo ogni [p. 146 modifica]predica le montagne suonavano di grida altissime, di strage e di vendetta. Non sapevano bene, ma tutti accozzavano nelle menti torbidi pensieri di religione, d’empietà, di re e di patiboli; i più ardenti aizzavano coi discorsi i compagni; chetarli era gran fatica; e ad ogni tratto si tornava da capo. Presi così alla grossa, s’accostumavano a quella vita assai bene.

Ma a don Apollinare, e a molti altri che avevano viso di condottieri, l’ore cominciavano a parer lunghe. Quattro giorni di disagi, erano stati d’avanzo a fare dar giù il bollore ai loro spiriti; e la prontezza d’animo con cui s’erano mossi, cedeva un po’ ogni giorno, alla stanchezza in tutti, in molti alla noia, in taluni alla paura. Perchè agli altri guai s’era aggiunta la vista di soldati regi ed imperiali; i quali passavano per quelli alpestri sentieri, tornando feriti o malconci dalle scaramuccie, che seguivano giù giù, tra quel d’Oneglia e quel di Loano. I poveretti camminavano da sè a fatica, o portati da certi muli, spasimando, ogni poco, per i squassi crudeli: ed erano quali mesti, quali baldanzosi, alcuni bestemmiavano, altri mostrando le ferite toccate, dicevano a quelle genti affollate a vedere, come laggiù laggiù, di palle e di baionettate i Francesi ne avessero in serbo anche per esse. Quelle parole non erano atte a sgomentare la moltitudine; ma i capi ponendo gli occhi stupiti in quelle piaghe mal fasciate, si sentivano frizzare le carni; e pensavano alle famiglie, ai quieti piaceri, ai loro villaggi, nei quali avevano vissuto sino a quel punto, cullati da quel buon popolo che gli adorava e temeva, e lassù si sarebbe fatto in pezzi per essi. Volgendosi addietro, potevano vedere i loro campanili biancheggiare lontani a poche miglia, e si lasciavano cogliere dalla nostalgia; la malavoglia cresceva; ma non v’era chi osasse primo abbandonare la spedizione, per non parere da meno del vicino o del rivale in amori o in averi. Pregavano, ognuno in suo cuore, che la ventura cui s’erano messi, un po’ per forza un po’ per [p. 147 modifica]genio, volgesse in qualche guisa al suo compimento; pur di cavarsela colle ossa e colla riputazione inoffese, quasi quasi avrebbero fatta la pace colla repubblica di Francia.

Mattia mostrava in quei giorni d’aver animo più alto del suo padrone; e se ne stava lassù colla testa su due guanciali, come il maggior pericolo fosse stato quello di vedere il mare levarsi a quell’altezza, e d’affogarvi dentro. Stato uomo da sbarragli tutta la giovinezza, stimava cose da beffe le brighe presenti; e il suo più gran da fare, era di reggere il cuore al pievano. Il quale per tenerselo amico, gli dava a mangiare i polli arrostiti, che il Rettore di Montefreddo faceva portare dalla sua cura poco discosta; e il sagrestano ben pasciuto, sempre lieto, sempre ritto, pareva l’anima dello stormo di D.... Lassù nessuna molestia per lui, nè di famiglia nè di mestiere; non campane da suonare, non ceri da accendere, non morti da seppellire: e se pure di questi un qualche giorno ve n’aveva a essere; tra l’averli nudi, avvolti in un lenzuolo, e vederseli ai piedi vestiti e non frugati, ci correva la moneta che avrebbe trovata nelle loro saccoccie. Eppoi lassù non aveva quella noia della moglie, e quell’altra di gente cui dovesse roba o danaro; mentre a D...., eh! a D.... erano litanie che non finivano mai.

Stava egli adunque in barba di miccio; ma la quinta notte, dacchè campeggiava lassù colle turbe, gli avvenne caso da fargli dire, che proprio gente contenta sulla terra non ve ne può durare.

Sedeva col dorso appoggiato alla capanna che aveva formata pel pievano; e faceva la guardia, come l’altre notti, perchè questi potesse dormire tranquillo. Tenendosi desto a fatica, guardava i suoi compatriotti addormentati là intorno; e colla mente che gli pareva avere avvolta di nebbia, pensava: «Eh! Mattia, chi direbbe, che dei parenti di costoro ne hai messi nelle buche le centinaia! Centinaia? Altro che centinaia! di certo non durerai da seppellirsene altrettanti...» — E provandosi a [p. 148 modifica]contare, rammentandoli, i morti che aveva sepolti in sua vita; non riesciva alle due dozzine che la testa cominciava a cascargli, or su l’una, ora sull’altra spalla, or sul petto; e allora si scuoteva, tossicchiava, e badava alle stelle se indovinasse l’ora.

Una di queste volte, alzando il capo, si vide là ritto dinanzi un uomo, che appoggiate le mani su d’un lungo e grosso bastone, sulle mani reggeva il mento, anzi si poteva dire la persona, a vedere come vi pesava sopra curvo ed intento.

«Fatti in là che così desterai il pievano! — sclamò Mattia, rabbioso — chi t’ha creanzato?

«Mattia, a qual giuoco abbiamo fatto sino ad ora?

«A qual giuoco? Ognuno secondo le carte, io per esempio faccio la guardia al signor pievano....

«Ed io la faccio a voi; perchè i desinari, le cene, le paia di capponi, ed anco le doppie che aveste da me, stanotte ve le farò costar care, se non mi menerete a cavare il tesoro, che m’avete promesso mille volte....!

«Oh! siete voi Zirione?» — disse Mattia fingendo le meraviglie; e levatosi in piedi fece segno di voler tirare in disparte il villano, che don Apollinare non avesse a udire quei suoi imbrogli. Ma l’altro, piantato come era là innanzi, mosse al tirar di Mattia come a un soffio di vento, e soggiunse tentennando il capo:

«Sì....! fate le viste di ravvisarmi adesso...! Io invece penso a voi da tre giorni; e non ho fatto che misurare cogli occhi le distanze dai nostri monti a questi; mi sono messo in tutte le posture, e ho capito alla fine, che noi siamo appunto su quelle cime che voi mi additavate dicendo che erano la nostra Spagna, che vi era un tesoro, e che un giorno o l’altro ci saremmo venuti.... Eccoci.... ci siamo, e il can per l’aia non lo meno più.... Poche parole! se il tesoro l’avete cavato voi, datemi la parte mia....

«Ah! — sclamò Mattia mostrandosi offeso: — se non mi stimate più per un galantuomo, allora....! [p. 149 modifica]

«Galantuomo? Ebbene se lo siete...., il tesoro l’andremo a cavare insieme e adesso....

«Ma non pensate, che bisogna avere un palo di ferro, una marra, un diavolo che ci porti voi e me?

«L’ho qua io l’arnese....; ci aveva pensato....»

Mattia guardò il bastone su cui il villano si reggeva, e vide che era un badile. Si pentì allora della magra scusa trovata, e con aria di voler capacitare l’altro, diceva: «ma.... vedete, amico....

«Che amico!» — interruppe costui, facendo mazzo delle dita e picchiandosi sulla saccoccia del panciotto, dove aveva un gruzzolo di monete che suonavano assai chiaramente: — i miei amici sono questi! e voi li conoscete, perchè a furia di merende e di presti, mi costate più d’un paio di bovi....!»

Al suono di quelle monete, Mattia aveva veduto i milioni di scintille, come se gli avessero dato le ditate negli occhi; e da uomo esperto a trovar modo di scroccare il prossimo, nella mente le aveva già fatte sue. Nè sarebbe rimasto dal suo proposito, se lo stesso pievano fosse uscito dalla capanna, a pronosticargli che sarebbe morto nell’impresa.

«Date retta, — disse al villano — quando si fanno le cose, ci si deve aver pensato prima e bene. A trovare il tesoro, gli è come a trovare giù nella terra le sorgenti d’acqua... A questo son buoni i nati a sette mesi....; a trovare il tesoro ci vuole qualche altra virtù....; per esempio, la pietra del fulmine dà soventi nei campanili nevvero?..... ecco..... così oro fa oro..... e a scoprir il punto della terra dove si sa che dev’essere un tesoro nascosto, bisogna avere oro in mano, perchè tra questo e quello corrono misteri che ora non vi posso dire...; basta! verremo un’altra volta.... porteremo con noi qualche collana, qualche anello, vostra moglie ne avrà...»

Il pover’uomo infinocchiato a questo discorso, pose la mano sulla mano di Mattia quasi per rattenerlo, e disse pieno di speranza: [p. 150 modifica]

«E se fosse oro di moneta?

«È sempre oro! — rispose grave Mattia.

«Eccone qua! — soggiunse l’altro affrettandosi a picchiar di nuovo sulla saccoccia.

«E quanto avete? — chiese il sagrestano, cui cresceva in bocca la saliva e la lingua.

«Dieci doppie!

«Possono bastare:» — degnò di dire lo scaltro — ci proveremo...: un momento e sono con voi....»

E messa la testa nella capanna, udito che il pievano dormiva della migliore, tolse l’aspersorio, e il breviario, se li cacciò sotto il giubbone, poi data un’occhiata alla giumenta se fosse legata per bene, arzillo e gaio, disse al villano: «andiamo.»

Si misero in cammino che era l’ora di mezzanotte, cauti, e cansando le sentinelle che vegliavano ai varchi, all’usanza dei soldati. Mattia aveva gran pratica dei luoghi, essendovi passato assai volte da giovinotto, per servizio di quel tal marchese; il quale soleva spacciarlo ai suoi nobili amici della riviera e massime d’Albenga, con presenti di selvaggina o di primizie dei suoi poderi. Di che non durò fatica a uscir dal campo inosservato, col suo compagno; e discesa la costa meridionale del Settepani, andando ruzzoloni parecchie volte, giunsero alle ruine d’una torre che guerniva una gola ai tempi degli Spagnuoli, e si chiamava la torre di Melogno.

«Segnatevi — disse basso Mattia — qui v’ha sempre qualche spirito...»

Il villano si serrò a lui segnandosi tre volte; ed egli strizzando l’occhio, come a qualcuno che fosse d’accordo con lui nelle tenebre, disse tra sè: «l’uomo è nostro!»

Di là a pochi passi furono alle falde di Montecalvo; la vetta del quale essendo deserta, Mattia l’aveva scelta per compiervi il maleficio. Il monte a guardarlo da certi punti ha l’aspetto d’un cranio smisurato; e forse aveva questa immagine in capo, chi prima gli diede il nome. Squallido, ignudo, con due cavità che formano le [p. 151 modifica]occhiaie, sembra contemplare il golfo di Genova che gli stà dinanzi. Nell’ora in cui Mattia e il suo compagno camminavano; essendo la notte senza luna, non appariva altrimenti che una mole oscura, la quale a chi avesse voluto salire in cima riusciva difficile e faticosa.

Cominciarono a inerpicarsi per un sentiero ronchioso, angusto, a ogni tratto ingombro di rovi; e si valevano quasi ad un modo dei piedi e delle mani. Mattia raccomandava all’amico di star zitto e di tenere il fiato: il poveraccio, quanto al parlare aveva tutt’altra voglia e obbediva; ma quanto al fiato gli si veniva facendo sì grosso, che più non sarebbe stato se avesse patito d’asma.

Erano più che a mezza costa, quando udirono uno scoccar d’ore dall’orologio della parrocchia di B...., piccolo villaggio che siede sul fianco delle montagne dalla parte di mezzogiorno. Quel suono improvviso fece dare un gran giro al sangue del contadino; il quale osò chiedere a Mattia, da qual campanile venisse.

«Da B.... — rispose questi — Come vi sentite? Riposiamo un tantino, date qua le monete, e non abbiate paura....»

Il villano porse il borsellino, senza dire parola, poi ripresero a salire: ed egli non udiva altro che la pedata di Mattia; il gran battere del proprio cuore; e dietro, in lontananza, il grido misurato e lamentoso delle sentinelle paesane, che gli tornava dolce come di voci amiche. Mattia, tenendo in pugno il gruzzolo, coll’unghia del pollice contava le monete.

Alfine toccarono la vetta del monte; dove bisognando risolvere in qualche maniera l’impresa, il sagrestano si fermò, e guardò l’amico per capire di che animo stesse.

«Eccoci sul posto! — bisbigliò — ancora pochi passi e saremo sopra il tesoro: ma vogliono essere fatti in punta di piedi..., animo, non abbiate paura, venite....»

Fatti que’ pochi passi ch’ei volle, con gran rispetto come camminasse su l’ossa dei morti; si volse a un [p. 152 modifica]tratto al compagno, e con voce commossa, gli disse: «animo, animo! che tutto questo è nulla!» Poi lo prese per un braccio, lo fece girare tre volte sopra sè stesso, e colla mano tesa gli segnò intorno l’infinito tenebroso, soggiungendo cupo:

«Siamo in mezzo a tre vescovadi: Mondovì.... Albenga... e Savona.»

Sagrestano da più che quarant’anni e seppellitore di morti, Mattia sapeva, occorrendogli, pigliare un’aria mistica o paurosa. Aveva udito cento volte, alla spiegazione del Vangelo, come un giorno il diavolo, condotto Gesù sulla cima d’un monte, gli avesse mostrati i regni della terra; ed egli vecchio profanatore di tombe ed altari, prese l’atteggiamento di Satana, quale se l’era sempre immaginato. L’amico, che aveva lasciato cadere il badile, lo guardava senza muovere costa; e sentiva farsi alla fronte e giù per la schiena un senso, come stesse per pigliargli male. Mattia cavato di sotto i panni il breviario, che nell’oscurità pareva un mattone, glielo pose aperto tra le mani tremanti, e cominciò un brontolio di salmi, che guai a lui se l’avesse udito don Apollinare, tanto era scellerata la sconciatura delle parole latine. Il villano, credendo che Mattia leggesse davvero nel libro che ei gli teneva aperto dinanzi a mala pena; non osò neanco chiedergli come potesse vedere in quel buio: la sua fantasia s’accese via più; le orecchie gli fischiarono quasi ci avesse dentro due serpi; a tratti avrebbe giurato di vedere bagliori grandi, e di udire qualcosa che s’appressasse: e tremava a verga a verga.

Mattia s’avvide come il tapino stesse per isvenire; e levato in alto l’aspersorio, per dargli il tuffo, segnava a destra ed a manca croci e crocioni, mormorando certe parole da incantesimi; quando un grido come d’uomo irato, gli ruppe l’atto e la voce. Quel grido, un rumore d’armi e di passi frettolosi, gli parvero la cosa più terribile che avesse intesa in sua vita; e di subito, pensando d’essere cascato in mano ai Francesi, si buttò [p. 153 modifica]per disperato a fuggire, verso la parte per cui era venuto alla ribalderia.

Il compagno correva più di lui; ma erano inseguiti, e assai da vicino. «Ferma! ferma!» gridavano alle loro spalle, molte voci straniere; e alle voci s’aggiunse una schioppettata, e una palla fischiò tra i due malcapitati, che entrambi credettero d’averla nella nuca, nelle spalle, nelle reni ad un tempo. Mattia aperse le braccia, cadde sulle ginocchia, chiuse gli occhi, e sclamò: m’arrendo! signori Francesi, m’arrendo! Sono cristiano anch’io!»

Egli s’era sentito afferrare, come da mano poderosa, per la lunga coda, e udendo le pedate del compagno che fuggiva libero senza darsi pensiero di lui, lo maledisse. Poi alzò gli occhi adagio adagio..., e non vide nessuno: fece atto di levarsi in piedi, nessuno lo teneva...; s’accorse che la coda gli era rimasta intricata in un roveto, la districò; e raccogliendo nel petto tutta la forza e tutta la baldanza che potè:

«M’arrendo un fico! — proruppe — neanco se fosse qui tutta la Francia, no!»

E via, di quella gamba che è facile a immaginarsi ripigliò la fuga. Ma una bocca di schioppo gli chiuse la via; un’altra se ne vide alle tempia; in un fiato si trovò affollato, agguantato nel petto, squassato da averne schiantati i visceri fosse stato un elefante; dieci voci gli suonarono intorno, e di quelle non capì altro che d’essere caduto in mano agli Alemanni, e che era preso per uno ispione.

«Io spione? — gridava arrangolato — io spione? Io sono il sagrestano di D.... e ho servito a mensa le loro signorie in casa al mio padrone. Signori generali, badino per carità, io sono un amico..., sono qui per loro servizio.»

Aveva un bel dire, ma quei feroci non capivano; e per farla finita col suo molesto vociare, uno d’essi che pareva il capo, dandogli una gran palmata sulla bocca lo [p. 154 modifica]fece star zitto. Egli tacque; e per non buscar la seconda, si lasciò trarre verso la banda opposta a quella, che aveva pigliato fuggendo.

Erano davvero Alemanni, andati in pattuglia fuori del campo, che (indietreggiando sempre coll’esercito Sardo) avevano posto, sul far di quella notte, vicino al Finale. Costoro smarrita la via per le alture, non sapevano neanch’essi in che modo erano capitati lassù, a cogliere Mattia nel meglio dell’opera sua. Camminando un po’ a spintoni, un po’ trascinato, il pover’uomo apprese come il meglio a farsi, fosse porre il cuore in pace; e pensò che alla fin fine l’avrebbero condotto a qualcuno dei capitani, dal quale si sarebbe fatto riconoscere per quel che era. Allora, alla peggio, stato un par di giorni fra gli Alemanni, potrebbe tornarsi libero a rivedere i suoi compaesani; e già pensava le spacconate e i modi di ricattarsi dei disagi sofferti, colle doppie del compare scampato. Qui tremando non venisse in mente ai soldati di frugarlo, si faceva docile, bonino, pronto in tutto ai loro voleri. Ma poichè, fu nel campo Alemanno, il guardare oltraggioso dei soldati che erano ai posti staccati, fece vacillare le sue speranze. Sebbene non facesse peranco l’alba, fu tratto al cospetto d’un generale, raccolto a consiglio coi capi, in una capanna da boscaiuolo. E questo generale era lo stesso che aveva svernato a C..., e desinato a D..., in casa al pievano. Mattia ravvisò lui e parecchi degli ufficiali che stavano là dentro; ma o la sua cera non piacesse al generale, o questi trovasse buono scaricare sopra un poveraccio le molte ire, che gli si andavano raccogliendo nell’animo, pei rovesci patiti nell’infelice difesa della riviera; lo strapazzò nelle guise più aspre; e volle che lo si giudicasse lì per lì, coi modi di guerra.

Povero Mattia! A vederlo pregare, piangere, proclamarsi più Alemanno degli Alemanni, chiamando in testimonio i Santi e Dio; qualcuno degli astanti si sarà sentito annodarsi il cuore; ma niuno osò parlare, par salvarlo. E buon per lui che d’improvviso s’udirono cavalieri per [p. 155 modifica]l’erta a spron battuto, venir annunziando, che laggiù oltre il Finale, i Francesi giungevano grossi all’assalto; e che le ordinanze Sarde, impotenti a reggere, già balenavano. Egli benedisse i repubblicani, pose in essi le sue combattute speranze, e quasi non credette a quella novella.

Ma era la verità: e l’alba che soleva vedere quel mare, coperto di burchielli, governati da pescatori mattinieri; quella spiaggia viva per frotte di donne intente a tirare le reti; quei colli popolati di gente affaccendata all’opere degli olivi; per tutto pace, canti e lavoro, a dar gloria a Dio padre! l’alba spuntava sopra quel lembo di terra, aspettata dagli uomini pronti a sgozzarsi.

Infatti giù giù, verso il mare, era cominciato il trarre delle artiglierie, cui rispondeva in guisa formidabile l’eco delle montagne, come si fossero accozzati là sopra tutti i tuoni del cielo. Il suono dei tamburi pareva un brontolio monotono; le trombe squillavano con certa rabbia guerriera; i Piemontesi davano dentro nella mischia per disperati. Gli Alemanni si schieravano, si serravano, guardavano i viluppi di fumo che parevano segnare l’avanzarsi dei Francesi; in breve ora furono anch’essi tirati nella battaglia; e tutto divenne offese, strage, a ferro, a fuoco, a pietrate, di che quelle rupi andarono sanguinose.

Mattia, sbalestrato di qua e di là, di su di giù, ora in mano degli Alemanni, ora dei Piemontesi; sempre chiedendo giustizia e sempre beffato e percosso: tentato a più riprese, e invano, di sgattaiolare; pesto, lacero, senza voce pel lungo sclamare, finì per cadere in man dei Francesi, con altri prigionieri parecchi. Pensando alle tante lame che s’era visto balenare sul capo; alle tante palle uditesi fischiare rasente gli orecchi; e vedendo che la battaglia durava accanita; tenne per un beneficio del cielo l’essere prigioniero dei repubblicani: ai quali, per dire il vero, avrebbe un’ora prima avvelenato il cibo, l’acqua, e sino l’aria se avesse potuto. Menato lontano parecchie miglia, al primo campanile che gli venne [p. 156 modifica]veduto torreggiare sopra una terricciuola della spiaggia, ricolse il fiato; diede un’occhiata alle campane e pianse, ma una lagrima sola; perchè i Francesi vincevano, e parevano risoluti quel giorno, a farla finita coi Sardi, cogli Alemanni, col diavolo se loro si fosse parato innanzi; e da prigioniero, sentiva di pericolare meno assai, che da libero colle turbe, pronte a far testa sul Settepani.

Sul qual monte, sebbene confuso, lo strepito delle artiglierie era giunto sino dal rompere dell’alba; e aveva riscossa la gente degli stormi, che rimase in ascolto stupefatta, come di cosa mai più sentita. Io mi figuro quelle turbe quali fossero, rammentando l’atto di tale che vidi curvo al cratere del Vesuvio, porgere l’orecchio ai boati, che s’odono prorompere da quelle profondità tenebrose.

Come furono certe che, essendo il mare tranquillo, quel mugghiamento non poteva essere che cannonate, s’accesero gli animi; e chi aveva schioppo si diede a rivedere la pietra, a rinfrescare la polvere nello scodellino, a contare le palle che teneva in serbo; e gli armati di falci, ch’erano i più, cominciarono a menare le coti, facendo uno stridore, che aveva qualcosa di barbarico insieme e di grande,

«Dove sono? gridavano — dove sono gli scomunicati? Vengano, vengano! A noi toccherà finirli!

«Ed io — giurava uno altamente — se non avrò falciate le gambe a mezza dozzina di quei basilischi, non tornerò più a casa...!

«Animo! — dicevano da tutte le parti molti che forse da giovani erano stati soldati; — mettiamoci in ordine; vogliamo darci dentro come a falciare il fieno! Sangue ha da essere! sangue da vedersi scorrere a rigagni!

«Ohè! e i signori...? Signori capi, che cosa fanno...? Si va innanzi? Si va innanzi? Si sta? Che staremo qui a grattarsi le ginocchia sino al dì del giudizio...? All’armi, da bravi!» [p. 157 modifica]

Quelle povere genti, avvezzate da quattro anni a pensare dei Francesi come di tanti malfattori; aizzate dal pulpito e dal confessionale, avevano salutato l’avvenimento che s’appressava, come il giorno d’un gran voto da sciogliere. Il vecchio sangue ligure, sebbene assottigliato di molto traverso i secoli del feudalismo, tornava a ribollire nelle loro vene; e le braccia poderose e i petti irsuti, erano pronti a dare e a ricevere la morte con animo grande. Ma, vergogna a dirsi! i preti i primi, poi i vecchi gentiluomini, da ultimo i più giovani, cominciarono a parlar basso, tra loro, a buccinare freddure, a dar sulla voce ai più volenterosi fra i popolani: e quando sulle vette di Montecalvo, e nella gola di Melogno, apparvero i primi fuggiaschi Alemanni, i quali s’affannavano nella fuga, confusamente; allora quei preti, quei gentiluomini, si chiarirono donnicciolucce da rocca e da presepio.

«O che i soldati fuggono a quel modo? — sclamava uno che in C..., aveva carica di seniore.

«E se fuggono i soldati, dovremmo tener testa noi, senz’armi ed inesperti? — Cosi un altro che in D..., era tenuto in gran conto; e un terzo a fargli eco:

«Soldati rape, che sanno guerreggiare com’io fare orologi...!

«Ci faremo ammazzar noi, perchè i loro generali non sanno altro che mostrare i tacchi ai Francesi?

«I Francesi! I Francesi! Eccoli! Eccoli!....»

E qui uno, due, quattro, a pigliarsi la via tra le gambe, chi a cavallo, chi a piè, senza dare nè udire consigli: e tra i primi Don Apollinare, il quale, chiesto di Mattia a mezzo mondo, chiamatolo invano cento volte con quanta voce aveva in gola; aiutato da qualcuno della sua pieve montò sulla giumenta; e gridando: «vado a far gente, vado a far gente!» diè giù a rompicollo, pel primo sentiero che gli si offerse alla fuga.

Dato il mal esempio, le turbe stettero poco a diradarsi. Rimasero i migliori per animo e per forza; ma anco tra questi, alcuni presero a dire verità, chiare come il sole che avevano in faccia. [p. 158 modifica]

«Gli avete veduti i nostri padroni? Se ne vanno; e noi che utile abbiamo a star qui?

«A farsi scannare! Forse che non troveremo più posto nelle sepolture dei nostri vecchi?

«Respingere i Francesi! — sclamava un villano, forte a vederlo come un leone: — bella parola! Ma, che i Francesi vengono per far male a noi soli?

«Sì...! quell’ultimo pochino di male, che non ebbero tempo a farci gli amiconi Alemanni!

«E le donne? — diceva un giovinotto, che aveva viso di essere ammogliato di fresco: — i Francesi le oltraggieranno!

«O allora — rispondeva un vicino — perchè non si diede addosso agli Alemanni, che non le hanno rispettate?

«Incendieranno le chiese! uccideranno i preti....!

«Bravi i preti! Gli avete visti? Hanno spulezzato i primi...!

«To, to! guarda da quella parte là di Montecalvo! E laggiù a quella forra! Sono essi... i Francesi..., gli Alemanni... i Piemontesi..., tutti! È finita, è finita... scampi chi può... scampi chi può!...»

Fu l’ultimo grido! Quel popolo, così pronto, sofferente ai disagi ed audace, abbandonato dai suoi capi, non accostumato ad amare la patria, pensando che la libertà di mangiare pan nero, di bere al pozzo, di coricarsi sulla paglia, e d’assaettarsi dì e notte a lavorare, Francesi, Piemontesi, o Alemanni che fossero i dominatori l’avrebbe sempre avuta; era diventato come un’onda vituperevole di codardi. Ruppero in fuga disordinata, recandosi tra loro ferite, che peggio non potevano toccarne dai nemici; non uno ne rimase neanco a vedere se i Francesi fossero davvero mescolati cogli Alemanni vinti; e quelle vie fatte nell’andata gridando il finimondo, le affollarono nel ritorno, portando le novelle più orribili che le loro fantasie potessero creare.

Il pievano di D..., cavalcando come se avesse inforcato [p. 159 modifica]un prunaio, galoppò, galoppò, galoppò senza dar tregua alla giumenta meschina; tanto era il battisoffio e l’agonia di giungere al suo presbiterio. Traversò i villaggi della vallata, non badando a che si parasse innanzi; e le selci delle vie gettavano faville al suo passaggio, le donne imprecazioni per i bimbi che rischiavano d’andare schiacciati. Imprecazioni, inconscie d’essere scagliate a tant’uomo; perchè tale era la foga di lui, tali gli strappi de’ suoi panni; tanto aveva arruffata la testa per essergli caduto (e non se n’era accorto) il cappello, che niuno poteva discernere s’ei fosse un prete.

Non s’aspettava di rivederlo così sciamannato donna Placidia, alla quale i quattro o cinque giorni passati dalla partenza di lui, s’erano fatti anni, sebbene a vederla paresse tranquilla. E della sua solitudine, s’avevano preso pensiero la meglio parte delle donne del borgo, e la signora Maddalena anch’essa, afflitta come era di suo, aveva deciso quel giorno d’andarla a trovare. Dopo il desinare, non pensando manco per ombra al ritorno del pievano, messasi in capo la cuffia, e indosso una guarnacca cenerognola, s’era avviata passo passo, con molta contentezza di Marta, seccata d’udirsi chiedere da tutti, se la padrona, non uscendo quasi più di casa, fosse ammalata.

«Gesù — diceva tra sè la signora, soffermandosi per l’erta del castello, ogni tantino, a ricogliere il fiato, — Gesù come mi batte il cuore, e come gli occhi mi si fanno torbidi!»

Quetato l’affanno, ripigliava la via. E così stentando giunta in castello, s’accostò per riposare al muricciolo, che coronava la volta del colle e guardò l’orizzonte.

La vista dell’alpi le parve bella come non l’aveva vista mai. Oh! quel Monviso, che sembra il faro del Piemonte, e pare sempre vicinissimo da qualunque parte lo si scopra; quel Monviso come torreggiava sublime nella luce del sole, che andava sotto! Come appariva più cupo il solco, che ha nel fianco, e da lungi somiglia a una crepa, [p. 160 modifica]ed è invece una fondura ampia, selvosa e sonante di molte acque! La donna mesta, pensava a suo figlio, che forse guardava in quell’istesso momento e più da vicino il gran monte; e mandò a questo uno sguardo d’amore: poi come si sentì le lagrime negli occhi, se n’andò diffilata nel presbiterio.

«O signora Maddalena!» — sclamò donna Placidia venendole incontro, a passi leggeri come d’un lepre, e tendendole le braccia che apparivano in tutta la loro esilità, nelle maniche della veste strettissime secondo l’usanza d’allora: — ha fatto pur bene a venire quassù un poco, sono così sola che dalla gran noia mi butterei ai pesci....»

E così dicendo, e ascoltando le scuse della signora, la condusse nel salotto; dove s’era seduta pochissime volte con tanta libertà, e da padrona come quel giorno.

«Ho pensato — diceva la signora mettendosi a sedere di faccia a donna Placidia: — ho pensato anch’io, che ella si doveva annoiare, e dissi tra me: lasciami andare a vedere come sta.... intanto potrò avere notizie dei nostri paesani, che chi sa in quali acque si troveranno...

«Non ne so nulla io, — rispondeva l’altra: — ma pensiamo un po’; sono alla guerra e basta! Oh! chi l’avrebbe detto che anche al signor pievano sarebbe toccato pigliare uno schioppo.... Per me quasi pensavo sin qui che le fossero cose da celia.... e invece....! E sapesse quanti ammalati, hanno fatto chiamare mio fratello, di questi giorni! Pare proprio che si sian data l’ora.... e già ne son morti due lassù nei boschi, senza prete; e ad uno che era più vicino, sono andata a raccomandare l’anima io stessa.... l’ho benedetto coll’acqua santa.... gli ho messa la stola sul letto.... mi sono ingegnata....!»

Proprio in questo punto, arrivava don Apollinare grondante sudore, e colla giumenta ridotta che se avesse avuto a fare un altro quarto di miglio gli sarebbe cascata sotto. Smontò a fatica, tanto avevò indolenzite le gambe; e lasciata la bestia che andi, [p. 161 modifica]da sè nella stalla, si mise dentro la porta di quel presbiterio, che non gli era paruto mai così bello, così agiato, così casa sua.

Donna Placidia, fattasi incontro a lui sulla soglia del salotto, rimase a mirarlo trasecolata, come se egli tornasse dall’altro mondo; e la signora Maddalena, vedendolo così trafelato, in quell’arnese gramo; sclamò spaurita: «che abbiamo?

«Guai! guai! guai! — gridò egli lasciandosi cadere sul suo seggiolone; — guai più grossi di quelli del libro delle sette trombe! Ma io non so nulla...! Io non sono uomo di sangue.... io sono venuto via...; perchè..., perchè.... da sacerdote non era al mio posto....

«Dunque i nostri saranno mezzi morti!» chiesero le due donne ad un tempo.

«Morti? — rispose il pievano — altro che morti! Scriva, scriva al suo Giuliano, gli scriva che venga a benedire la rivoluzione di Francia! Sciocchi! sciocchi! sciocchi!...... Basta! sia che Dio vuole, io non me ne immischio; Placidia, io me ne vado a letto, che non mi reggo più...!»

A quella tirata di Don Apollinare, la signora Maddalena, rimase coll’anima come rannicchiata e timorosa. E stava per chiedere licenza d’andarsene; quando s’udì fuori sul piazzale un gridar forte di donne, e un piagnisteo di fanciulli, che parevano in grande desolazione.

«Che son già qui i Francesi?» sclamò don Apollinare balzando in piedi; e Placidia:

«No..., sono donne che vengono a chiedere dei loro uomini....

«Non so nulla.... non so nulla io!.... aspettino e vedranno... vado a dormire..., non so nulla..., sono ammalato!...»

E senza dire nè ai nè bai, alla signora Maddalena; s’andò a chiudere in camera, si mise a letto, si coperse di quante coltri e panni potè trovare; e colla testa tra due guanciali, stette come fosse mezzo dicembre, [p. 162 modifica]non addandosi del calore, della fame, della sete, di nulla.

La signora Maddalena prese commiato da donna Placidia, e lasciolla a far spallucce colle mani e cogli occhi alzati al soffitto, come a dire: «rimettiamoci nel Signore». Fuori del presbiterio fu affollata dalle donne piangenti, alle quali diede speranze e parole cortesi; e tornò a casa sua pensando sempre a Giuliano; il quale, se un certo guizzo visto negli occhi di don Apollinare, non mentiva, o prima o poi avrebbe avuto a fare col prete implacabile. Di che fu persuasa ognora più, che le bisognava stare tutt’occhi, perchè costui non l’avesse a cogliere in qualche maniera.

Quella notte poi, e l’indomani, e il giorno appresso, giunsero alla sfilata quei della pieve, tornati dall’impresa infelice. Ne spuntavano da tutte le parti; e chi avendo gettate le armi, chi camminando carico di falci, di forcoli o d’altri arnesi in capo a quei due giorni, tutti erano rivenuti, salvo che Mattia. Del quale non si riseppe nulla: perchè il villano che l’aveva visto cadere in mano degli Alemanni, o paura o vergogna tacque di quella ventura. Pochi si dolsero per lui, perchè ognuno aveva a rallegrarsi di sè stesso; nè lo pianse la moglie. Costei, l’aspettò una settimana giusta; e quando le parve d’avere aspettato invano, sedendo al telaio e pigiando le calcole, cantò una sua frottola con questo ritornello strano:

E se non torna il cuculo in aprile,
È morto è morto, il povero animale.

Non v’era rima; ma essa pigliava diletto a cantare, perchè le pareva di dire al mondo, che nulla le spiaceva d’essere al buio sulle sorti di suo marito: dal quale aveva sempre buscato più ceffate che carezze.

A poco a poco il terrore della calata dei Francesi si quetò; e si rimase nella vallata con questa notizia, che gli Alemanni s’erano tenuti in forza sui monti di San [p. 163 modifica]Giacomo, del Settapani e degli altri, i quali a foggia di cortina stanno tra le valli della Bormida e il mare. A quel che si diceva, i Francesi sebbene vincitori, non osavano avventurarsi di qua dell’Apennino: i popoli respirarono; ognuno attese a mettere in salvo le cose di pregio; non si vedeva l’ora d’aver tirato in casa i ricolti; i preti tornavano a predicare la crociata contro gli invasori ma non erano creduti; e intanto si avanzavano i grandi giorni d’estate.