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per disperato a fuggire, verso la parte per cui era venuto alla ribalderia.
Il compagno correva più di lui; ma erano inseguiti, e assai da vicino. «Ferma! ferma!» gridavano alle loro spalle, molte voci straniere; e alle voci s’aggiunse una schioppettata, e una palla fischiò tra i due malcapitati, che entrambi credettero d’averla nella nuca, nelle spalle, nelle reni ad un tempo. Mattia aperse le braccia, cadde sulle ginocchia, chiuse gli occhi, e sclamò: m’arrendo! signori Francesi, m’arrendo! Sono cristiano anch’io!»
Egli s’era sentito afferrare, come da mano poderosa, per la lunga coda, e udendo le pedate del compagno che fuggiva libero senza darsi pensiero di lui, lo maledisse. Poi alzò gli occhi adagio adagio..., e non vide nessuno: fece atto di levarsi in piedi, nessuno lo teneva...; s’accorse che la coda gli era rimasta intricata in un roveto, la districò; e raccogliendo nel petto tutta la forza e tutta la baldanza che potè:
«M’arrendo un fico! — proruppe — neanco se fosse qui tutta la Francia, no!»
E via, di quella gamba che è facile a immaginarsi ripigliò la fuga. Ma una bocca di schioppo gli chiuse la via; un’altra se ne vide alle tempia; in un fiato si trovò affollato, agguantato nel petto, squassato da averne schiantati i visceri fosse stato un elefante; dieci voci gli suonarono intorno, e di quelle non capì altro che d’essere caduto in mano agli Alemanni, e che era preso per uno ispione.
«Io spione? — gridava arrangolato — io spione? Io sono il sagrestano di D.... e ho servito a mensa le loro signorie in casa al mio padrone. Signori generali, badino per carità, io sono un amico..., sono qui per loro servizio.»
Aveva un bel dire, ma quei feroci non capivano; e per farla finita col suo molesto vociare, uno d’essi che pareva il capo, dandogli una gran palmata sulla bocca lo