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calare nei loro borghi, a farvi chi sa che tragedie. Le turbe ricambiavano i saluti, e invece di pensare a discendere laggiù, compiangevano chi vi stava.
Talvolta vedevano navi passare in vista facendo segni con bandiere; ma in quel pararsi di tanti colori non ci capivano nulla. I capi si strappavano fra loro i cannocchiali, e per non essere scortesi rispondevano a quei saluti, bruciando cataste di legna, da mandarne le fiamme alte come d’incendi.
Un di quei giorni erano capitati lassù alcuni uffiziali, dai campi alemanni e piemontesi, posti lontano poche miglia giù verso il mare. Veduto in qual conto s’avessero a tenere quelle strane milizie, e fatta correre la voce che fra breve tempo si sarebbero viste alla prova; se n’erano ripartiti, a quel che si sapeva, ben edificati del loro contegno. E in verità quella lode soldatesca era meritata; perchè durava l’ardore col quale s’erano messe all’impresa di difendere il trono e la religione: e la meglio parte di quella moltitudine, allevata alla vita travagliosa dei solchi e delle selve, non badava ai disagi. Mangiavano i neri pani che s’aveano recati nelle bolge; le quali portate, come usa da quelle parti, che una ne pende sul petto un’altra sul dorso, e bianche di colore, avevano l’aria d’assise bizzarre. Bevevano l’acqua pura delle fonti, per quelle montagne copiose e frequenti; e se alcuni serbavano qualche goccia di vino nei barletti, era per berlo e confortarsi, dove per mala sorte avessero toccata qualche ferita.
All’alba si levavano in piedi, liete come se nulla fosse stato della guazza, e delle brine che talvolta anco in quella stagione, il vento frizzante dell’Alpi porta nella contrada; dicevano ad alta voce le orazioni del mattino; poi facevano d’ogni sorta d’esercizi, visti a fare ai soldati. Due volte il giorno, i preti predicavano da qualche poggio ognuno alla sua compagnia; e parlando di Dio e del Re, tenevano deste le ire, e il desiderio di dar dentro a menar le mani in guisa, che dopo ogni