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Gaio Valerio Catullo - Poesie (I secolo a.C.)
Traduzione dal latino di Mario Rapisardi (1889)
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Che tu dal fato e da rei casi oppresso
     Questo foglio m’invii scritto col pianto,
     Perch’io ti tragga dall’irato flutto
     Che te naufrago errante agita e sbalza,
     5E dal varco di morte ti richiami,
     Or che nel freddo talamo deserto
     Sfiorar più non t’assente i molli sonni

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     Venere santa, nè delizia alcuna
     Recano al tuo pensier che veglia e geme
     10I dolci doni delle Muse antiche,
     Ciò grato è a me, però che tuo mi credi
     Verace amico, e all’amicizia mia
     Cerchi di Cipri e delle Muse i fiori.
     Ma perchè, Manlio, a te non sieno ignoti
     15Gli affanni miei, nè tenga mai che aborra
     Dagli officj di grato ospite, ascolta
     In quali flutti abbia me pur sommerso
     La rea fortuna, a ciò che lieti doni
     Da un misero ch’io son tu non ti aspetti.

20Dacchè data mi fu la bianca veste,
     E i giocondi anni miei fioria l’Aprile,
     Assai di carmi ebbi vaghezza: ignara
     Non è di noi la dea, che mescer suole
     Qualche dolce amarezza a’ nostri affanni.
     25Ma da’ cari miei studj mi distolse
     Del fratello la morte. O fratel mio
     A me tolto infelice, ogni mio bene
     Con la tua morte, o fratel mio, si franse;
     Giace sepolta la paterna casa.
     30Tutta con te, con te perîr le gioje
     Che alimentavi col tuo vivo amore.
     Al morire di lui tutti fugai
     Gli amati studj dalla mente, tutte
     Le delizie dal core. E se tu scrivi,

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     35Ch’al vergognoso starmene a Verona,
     Mentre costì nel mio deserto letto
     Scalda le membra ogni gentil garzone,
     Credi, Manlio, non già d’onta, ma degno
     Di pietade son io. Se dunque i doni,
     40Che la sventura mi rapì, non t’offro,
     Perdonami, non posso. In compagnia
     D’assai copia di libri io qui non vivo;
     Io faccio vita in Roma: ivi il mio tetto,
     Ivi le sede, ivi si svolge il filo
     45Degli anni miei; di tanti scrigni un solo
     Mi segue; eccoti il vero: e tu non darmi
     Taccia d’alma scortese e di bugiardo,
     Se al tuo doppio desio non sodisfaccio;
     Più ti darei, se facoltà ne avessi.
     50Tacer non posso, o Dee, quanto e in che modo
     M’abbia Manlio giovato, onde non sia
     Che in cieca notte alle obliose genti
     Covra il tempo fugace un tanto affetto.
     A voi, Muse, il dirò; voi lo ridite
     55Ai cento, ai mille, e fate sì che questa
     Pagina a’ più lontani anni il ripeta.
     . . . . . . . . . . . . . . . . . .
     Dell’ estinto ognor più cresca la fama,
     Nè mai di Manlio al derelitto nome
     60La tenue tela ordisca intorno Aragne.
     Voi ben sapete, o Dee, quanto travaglio
     La duplice Amatusia al cor m’inflisse,

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     E in qual amor cacciommi, allor che pari
     Alla trinacria rupe e a la bollente
     65Fra le gole oetée màlia fontana,
     Misero, ardeva, ed in assiduo pianto
     Gli afflitti occhi struggendo, umide ognora
     Della triste rugiada avea le gote.
     Come ruscel che nitido dal masso
     70Spiccia, d’un monte su l’aerea cima,
     Precipitoso ne la fonda valle
     Volvendosi da prima, alla frequente
     Strada se n’esce, e cheto l’attraversa:
     N’ha gran ristoro il passeggier, che tutto
     75Di sudor molle anela, allor che grave
     L’estiva arsura i campi aridi fende;
     O qual dolce alitar d’aura seconda
     A nocchier che da un turbo atro ravvolto
     A Castore e Polluce alzi le palme,
     80E lungamente il lor favore aspetti,
     Tal fu di Manlio a me l’ajuto: il breve
     Limite del mio campo egli dischiuse,
     Donna e casa ei mi diede ov’io potessi
     Esercitare i corrisposti amori.
     85E quivi entrò col morbidetto piede
     La mia candida diva, e la frequente
     Soglia sfiorando con la sòla arguta
     Del fulgido calzar, stette alla guisa
     Che d’amor tutta ardente alla mal presta
     90Reggia protesilèa Laodamia venne,

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     Quando ancora l’eroe d’ostia veruna
     Non avea sparso il sangue, e alcun dei numi
     Fatto propizio ai maritali alberghi.
     Deh, a me, Ramnusia vergine, non piaccia
     95Dar mai principio ad alcun opra, a caso,
     Senza l’auspicio degli Dei! Ben quanto
     Bramin di sangue pio l’are digiune,
     Laodamia il seppe, al cui tenace amplesso
     Fu divelto anzi tempo il collo amato
     100Del novello marito. E non avea,
     Misera, ancor di due verni sapute
     Le lunghe notti, e saziato ancora
     L’avido amor, sì che tradur potesse
     Nell’improvvisa vedovanza i giorni!
     105Ma le Parche sapean, ch’egli dovea
     Già non guari perir, se d’armi cinto
     Andasse ad oppugnar d’Ilio le mura;
     Però che alla fatale Ilio in quei giorni
     Correa per la rapita Elena quanto
     110Fior di senno e di forza avean gli Argivi.
     O fatale e nefanda Ilio, sepolcro
     D’Asia insieme e d’Europa, Ilio funesta
     Che tanti fra le tue ceneri chiudi
     Incliti fatti e gloriosi eroi,
     115Tu desti al mio fratel misera fine
     Al dolce fratel mio tolto al mio core,
     O fratello infelice, o lieto raggio
     Rapito a noi! Con te giace sepolta

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     L’orba casa paterna, e teco insieme
     120Le gioje del mio cor tutte perîro,
     Che alimentavi del tuo vivo amore.
     Nè fra’ patrj sepolcri, alle cognate
     Ceneri accanto, l’ossa tue composte
     Dormono, ma lontan tanto, in estrana
     125Terra, in lido remoto, in tra la polve
     Di tante stragi oscena Ilio le serra.
     Ivi accorrean, siccome è grido, in folla
     E d’ogni parte i giovanetti achivi,
     E deserto faceano il santo foco
     130Del domestico lare, onde nel cheto
     Letto più non gioisse ozj sereni
     Paride in braccio alla rapita ganza.
     Tolto allora ti fu, Laodamia bella,
     Il dolce sposo, a te più che la vita
     135Più che l’anima caro; e allor dal sommo
     Vertice dell’amor, da un turbinoso
     Flutto assorbita, in sì profondo abisso
     Precipitasti, che non fu più cupo
     Il baratro che aprì, se vero è il mito,
     140Al cillenio Penèo la mal supposta
     Prole d’Anfitrion, quando all’impero
     Del feroce tiranno ubbidiente,
     A prosciugar la putrida palude,
     I reconditi visceri diruppe
     145Della montagna, e di Stinfale i mostri
     Tutti colpì dell’infallibil dardo,

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     Indi, perchè de’ numi il popol cresca,
     E vergine perpetua Ebe non viva,
     Del ciel si schiuse al vincitor la soglia.
     150Ma di baratro tal ben più profondo
     Fu l’amor, ch’alla tua cervice indoma
     Il duro giogo a tollerare apprese.
     Nè tanto caro a genitor cadente
     È d’un tardo nipote il piccioletto
     155Capo, cui gli educò l’unica figlia,
     E del diffuso patrimonio avito
     Tosto ei segna e destina unico erede,
     Disperdendo così l’empie speranze
     Del deriso gentil, che alla canuta
     160Testa, avvoltojo insidioso, rota;
     Nè colomba giammai lieta fu tanto
     Del suo niveo compagno, a cui sul rostro
     Che la morseggia avida figge i baci
     Con maggior voluttà che donna alcuna,
     165Chè donna per natura è mobil sempre;
     Quanto al tuo cor, fida Laodamia, il biondo
     Sposo fu caro, a cui l’amor ti aggiunse.
     Così la luce mia, la mia fanciulla,
     Che poco o nulla è a te di ceder degna,
     170S’abbandonò tra le mie braccia. Amore
     Tutt’alba il volto, e tutto oro le vesti
     Le danzava dintorno alla persona
     Splendidissimamente. E ben che paga
     Del sol Catullo essa non viva, io soffro

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     175Rari e cauti i suoi furti, onde non farmi,
     Com’è da stolti, oltre il dover molesto.
     Giunone, anch’essa delle dee la prima,
     Spesso la prorompente ira divora
     Alle colpe di Giove, e ben sa quanti
     180Furti a lei fa l’onnivolo marito.
     Ma iniquo è l’assembrar gli uomini a’ numi.
     . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
     Soffri d’un egro padre il peso ingrato.
     Nè dalla man paterna al tetto mio
     185Fu tra sirj profumi ella condotta;
     Ma, dal seno del suo proprio marito
     Involandosi, a me trasse, e furtivi
     Nella tacita notte i doni suoi
     Soavissimi doni ella a me diede.
     190Oh pago esser degg’io, s’anco un sol giorno
     Del più candido sasso ella mi segni.

Questo di tanti beneficj in prezzo
     Umil carme inviar, Manlio, poss’ io,
     Perchè ruggine scabra i vostri nomi
     195Per questa ed altre età punto non tocchi.
     Aggiungano gli Dei quanti favori
     Ai pii mortali un dì Temi assentìa;
     E te prosperi il Cielo e la tua vita
     E quella casa in cui la mia signora
     200Fece con me le dilettose prove,
     Ed Ànsere che a te pria mi fe’ noto

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     E da cui nacque ogni ventura mia,
     E primamente e sovra ognun colei
     Ch’amo più di me stesso, e alla cui luce,
     205Finchè viva ella sia, viver m’è grato.