Le piacevoli notti/Notte VIII/Favola III
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FAVOLA III.
Se oggidì, graziose donne, e capi chierecati — ragionando però tuttavia di tristi e non di buoni, — attendessero a’ loro studi, dandoci buoni essempi, e vivendo santamente secondo la regola loro, gli uomini ignoranti e plebei non arrebbono tanto ardire con favole ragionar di loro: anzi li terrebbeno in tanta venerazione, che toccando le fimbrie delle lor vestimenta, si riputerebbeno salvi e beati. Ma perciò che si sono mescolati con secolari, dandosi al mondo ed alle lascivie, e facendo quello che a noi vietar dovrebbeno, senza riguardo alcuno e in publici ed in privati luoghi di loro ampiamente si ragiona. Essendo adunque così, non resterò di raccontarvi una favola d’un apostata; la quale, quantunque sia alquanto lunga, sarà nondimeno piacevole e ridicolosa, e forse di non poco sodisfamento vostro. Dicovi adunque che in Firenze, città nobile ed antica, fu un riverendo padre, maestro Tiberio per nome chiamato. Di qual ordine egli si fusse, non ardisco affermare; perciò che ora non mi soviene. Costui era uomo letterato, valente predicatore, sottilissimo disputante, ed in molta osservanzia e venerazione. Parve a lui per certi suoi rispetti, che mi sono incogniti, diporre l’abito fratesco e farsi prete. Ed avenga che dopo la diposizione dell’abito non fusse in quella venerazione che era prima, pur il nome suo restava appresso alcuni pochi gentil’uomini, e massimamente appresso la plebe. E perchè egli era buon confessore, se gli appresentò dinanzi per confessarsi una bellissima donna, chiamata Savia: nome veramente convenevole alla modestia di tanta donna, quanto ella era. Costei aveva per marito uno intagliatore di figure di legno; e chiamavasi maestro Chechino: e in quell’arte a’ tempi suoi non aveva superiore. Savia adunque, essendosi ingenocchiata dinanzi maestro Tiberio, disse: Padre, mi è mancato il mio confessore, col quale io comunicava i secreti miei; ed avendo inteso l’odore della fama e santità vostra, hovvi eletto in luogo suo per padre spirituale: pregandovi l’anima mia vi sia raccomandata. Maestro Tiberio, vedendola bella e fresca, che rassembrava mattutina rosa, e conoscendo la gagliardezza sua, e che era in su ’l più bel fiore che esser potesse, s’accese sì fattamente di lei, che confessandola era quasi impazzito, nè sapevala levarsi dinanzi. Venuto maestro Tiberio al peccato della lussuria, la interrogò: Avete voi mai, madonna mia, per alcun tempo avuta particolar affezione ad alcun prete o frate, del quale voi siate stata innamorata? Ed ella più oltre non considerando a che egli voleva venire, puramente rispose: Padre, sì. Io amava sommamente il mio confessore come padre, e gli portava quella riverenzia ed onore che ’l meritava. Intesa che ebbe maestro Tiberio l’ottima disposizione della donna, con dolci ed accorte parole si fece dire il nome e la condizione sua, ed ensignare la casa dove dimorava: raccomandandosi a lei, e pregandola che lo dovesse aver e tenere in quella buona grazia, che ella avuto e tenuto aveva il suo perduto confessore; e per segno di carità, passate le feste di pasca, la verrebbe a visitare, dandole alcuna consolazione spirituale. Di che molto lo ringraziò; e ricevuta l’assoluzione, si partì. Maestro Tiberio, partita Savia, cominciò tra sè minutamente considerare la bellezza della donna e le maniere sue: e di lei maggiormente s’accese, e nella mente sua determinò di ottenere l’amor suo; ma non gli andò fatto, perciò che egli non seppe così ben colorire, come desegnare. Passate le feste della resurrezione, Maestro Tiberio si mise a passiggiare dinanzi la casa di Savia; e quando la vedeva, le faceva cenno, e modestamente la salutava. Ma ella, che era prudente, teneva gli occhi bassi, e fingeva di non vederlo. Continovando maestro Tiberio e salutandola secondo il suo costume, venne in core alla donna di più non lasciarsi vedere, acciò che non nascesse alcuna sinistra sospezione che di lei aver si potesse. Il che gli fu di non picciolo dispiacere. Ma perciò che l’amore l’aveva sì fieramente legato, che per se stesso di leggieri sciogliere non si puoteva, deliberò di mandarle un chierichetto a parlarle: pregandola che ella si degnasse di far sì che egli potesse venire in casa, come padre spirituale, a visitarla. La donna, veduto il chierichetto e intesa la proposta, come prudente e savia, nulla rispose. Maestro Tiberio, che era astuto, inteso che la donna nulla aveva risposo, fra se medesimo fece giudicio lei esser prudentissima, e che più fiate bisognava picchiare l’uscio; perchè la ben fondata torre non combattuta agevolmente si mantiene. Onde deliberò di non mancare dalla cominciata impresa; e di continovo le mandava ambasciate, e ovunque andava, la seguiva. Savia, vedendo la perseveranzia di maestro Tiberio, e temendo dell’onor suo, molto si sdegnò; e un giorno al marito disse: Chechino, sono molti giorni che mastro Tiberio, mio padre spirituale, ha mandati diversi messi a parlarmi: e ovunque mi vede, non pur mi saluta, ma mi persegue ragionandomi dietro; ed io per levarmi dalle spalle questa seccaggine non mi lascio più vedere, nè son donna più d’alzare gli occhi nè di comparere in luogo alcuno. — E tu, disse maestro Chechino, che cosa gli rispondi? — Nulla, rispose la moglie. — Tu t’hai portata da savia come sei; ma fa che quando egli più ti saluti e che ti dica cosa alcuna, tu prudentemente gli rispondi con quello onesto modo che convenevole ti parerà. Dopo raccontarammi quello che serà seguito. Essendo un giorno dopo desinare Savia in bottega, — perciò che maestro Chechino era andato per certi suoi negozii, — sopraggiunse maestro Tiberio; e vedendola sola in bottega, le disse: Buon giorno, madonna mia. Ed ella graziosamente gli rispose: Buon giorno ed il buon anno, padre mio. Maestro Tiberio, sentendosi rendere il saluto, il che più per l’adietro ella fatto non aveva, pensò avere addolcita la sua tanta durezza; e più focosamente di lei s’infiammò. Ed entrato in bottega, si mise amorevolmente a ragionare con lei; e stette più d’un’ora. Ma perchè temeva che maestro Chechino non ritornasse a casa, trovandola a ragionar seco, prese licenza: pregandola che lo dovesse confermare nella sua grazia, offerendosi pronto e parato ad ogni suo bisogno. Di che ella il ringraziò assai, ed a lui tutta s’offerse. Partito maestro Tiberio, sopraggiunse maestro Chechino; a cui ordinatamente raccontò quello era seguito. Disse maestro Chechino: Tu ti hai portata bene, e risposo da prudente. Ma ritornando a te un’altra volta, tu gli farai buona ciera, facendogli quelle accoglienze che oneste ti pareranno. E così di fare disse la moglie. Maestro Tiberio, che già aveva gustato e dolci ragionamenti dell’amata donna, cominciò a mandarle alcuni onorevoli presenti; i quali da Savia furono accettati. E poi con umanissime e ben fondate parole richiese l’amor suo: pregandola che quello non gli negasse, perchè, negandoglielo, ella sarebbe causa della irreparabile sua morte. Rispose la donna: Io, padre mio, adempirei il voler vostro e mio; ma dubito di non essere scoperta dal marito, e perdere in un punto l’onore e la vita. Queste parole a maestro Tiberio spiacquero assai; e furono causa di farlo allora in presenza della donna quasi morire. Pur riavuto alquanto, la pregò che di sua morte non fusse cagione. Savia, fingendo di avergli compassione, deliberò di contentarlo; e mise ordine di trovarsi la sera seguente con lui, perchè il marito era la mattina per partirsi, e andava fuori della città per comprare legnami. Maestro Tiberio, udendo questo, fu il più contento uomo che mai si trovasse; e tolta licenzia, si partì. Venuto maestro Chechino a casa, la moglie chiaramente li raccontò ciò che operato aveva. Ed egli disse: Non basta questo; ma voglio che noi gli facciamo uno scorno, che gli uscisca di mente la casa, nè mai più sia oso di molestarti. Va, ed onorevolmente apparecchia il letto; e movi tutto quello che si trova in camera, fuori le casse che vi sono in torno; dopo metterai e duoi armai, che sopra nulla vi resti; ed io altresì netterò la bottega, ed asconderò il tutto; indi voglio che li faciamo la festa che ti conterò. E puntalmente le narrò quello che aveva ad operare. Savia, inteso il voler del marito, gli promise di contentarlo. Pareano a maestro Tiberio mille anni che venisse la notte per essere agli stretti abbracciamenti della bramata donna; ed andatosene in piazza, comperò molte cose, e mandolle a casa di Savia: facendole sapere che ogni cosa diligentemente cucinasse, che all’ora debita verrebbe a cenare con lei. Savia, ricevute le robbe, cominciò apparecchiare la cena; e maestro Chechino si ascose, aspettando che maestro Tiberio se ne venisse. Stando adunque maestro Chechino in aspettazione, ecco maestro Tiberio venire, ed entrare in casa: e veduta l’amante che preparava la cena, volse darle un bascio; ma ella fece resistenza, e disseli: Sofferete un poco, anima mia, poi che patito avete tanto; che non è convenevole che io, così lorda dalla cucina, vi tocchi; e tuttavia acconciava e polli nel schidone e la vitellina carne nella pentola. Maestro Chechino erasi messo ad un pertugio secreto che guardava nella camera; e stavasi ad ascoltare ciò che fra loro dicevano, e a vedere ciò che facevano: temendo forse che la berta non andasse doppia. Stando adunque Savia ne gli suoi termini e fingendo di far or l’una or l’altra cosa, pareva a maestro Tiberio che l’anima dal corpo si partisse; ed acciò che più tosto ella si espedisse, le porgeva mano ad apparecchiar le cose; ma ella meno s’affrettava. Vedendo maestro Tiberio la cosa andar in lungo, e parendogli l’ora oltre modo passare, disse alla donna: Tanto è il desiderio d’esser con esso voi, che mi è fuggita la voglia di mangiare; nè intendo questa sera altrimenti cenare. E trattesi le vestimenta di dosso, se n’andò a letto. Savia, che di lui se n’arrideva, berteggiando gli disse. Qualche pazza resterebbe di cenare. Se voi, padre, siete pazzo a non voler cenare, il danno sia vostro: io ora non voglio privarmi della cena; e così dicendo continovava far gli servigi suoi. Maestro Tiberio pur la sollecitava che a letto se n’andasse; ed ella maggiormente tardava. Pur alla fine vedendolo astoso, per accontentarlo disse: Padre mio, io mai non dormirei con uomo che tenga la camiscia in dosso la notte; se volete che io venga a letto appresso a voi, levatela di dosso, che poi mi arrete pronta ad ogni vostro piacere. Tiberio, inteso il suo volere, e parendoli cosa leggiera, subito si trasse la camiscia; e rimase nudo come nacque. Savia, vedendo aver condotto il buon padre dove ella voleva, prese la camiscia con tutte le vestimenta sue, e posele in una cassa, e quella chiuse; dopo finse di volersi spogliare, lavare e profumare: e pur faceva alcuni suoi servigi per casa, di modo che il meschinello e semplice nel letto solo si consumava. Maestro Chechino, che per lo pertuggio aveva veduto il tutto, chetamente uscì di casa, e picchiò all’uscio. La donna, sentito il picchiare del marito, finse di smarrirsi; e tutta tremante disse: Ohimè, messere, chi è colui che picchia all’uscio? Certo egli è il mio marito. O dolente me, come faremo che quivi non vi trovi o che non siate da lui veduto? Disse maestro Tiberio: Tosto datemi e miei panni, che io mi vestirò, e asconderommi sotto il letto. — No, disse la donna; non cercate altrimenti e panni, che troppo tardereste; ma salite l’armaio, che è dal canto destro della camera, che io vi aiuterò ascendere: ed ivi distendetevi colle braccia aperte; perciò che il marito venendo in camera e vedendovi star in croce, penserà che voi siate un crocefisso di quelli che egli il giorno lavora, e non penserà più oltre. E pur il marito, l’uscio fortemente pichiava. Maestro Tiberio, non penetrando più oltre, nè considerando all’inganno del marito, ascese l’armaio: ed in guisa di croce con le braccia aperte si distese: nè punto si moveva. Savia, andatasene giù, aperse la porta al marito; il qual mostravasi adirato, perchè la moglie non l’aveva così tosto aperto: e giunto in camera e fingendo di non veder maestro Tiberio, si pose con la moglie a cena; e, cenato che ebbero, se ne andorono ambiduoi a riposare. Quanto questo fusse noioso a maestro Tiberio, il lascio considerare a voi che provati avete i fieri colpi d’amore, e massimamente sentendo il marito pascersi di quel cibo che egli si focosamente bramava, e vedendosi per giunta avere il danno e le beffe. Già l’aurora si cominciava dimostrare, ed a poco a poco vedevasi Apollo con e suoi ardenti rai uscir dalle maritime onde, quando maestro Chechino si levò di letto; e preparato gli stromenti e’ ferri suoi, voleva lavorare. Nè appena aveva incominciato, che sopraggiunsero due monache converse d’un monastero ivi vicino; e dissero: Maestro, la madre badessa nostra ci ha mandate qui a voi, pregandovi che ne debbiate dare il crocefisso che per l’addietro vi ordinò. Rispose maestro Chechino: Madre mie, dite alla madre badessa che ’l crocefisso è principiato, ma non ancora fornito: e tra duoi giorni al più sarà servita. Dissero le donne: Maestro mio, non abbiate a male; la madre nostra ne ha data espressa commissione che, fornito o disfornito, glielo portiamo; perciò che troppo lungamente l’avete tenuto. Maestro Chechino, fingendo moversi dall’importuno stimolo delle suori, come adirato, disse: Donne mie, entrate qua in camera, che lo vedrete principiato e non fornito. Entrate le suori in camera, disse maestro Chechino: Levate gli occhi a quell’armaio, e vedetelo: e consideratelo per voi stesse, se gli è a buoni termini, e se poco li manca ad esser fornito: e riferite alla madre badessa averlo veduto con li propri occhi. Le monache, levati gli occhi in su, videro il crocefisso; e con grandissima ammirazione dissero: maestro, come l’avete fatto somigliante al naturale! Egli veramente par vivo e di carne come noi. Certo che è bellissimo, e piacerà molto alla madre ed alle monache. Ma una sol cosa — dissero le suori, — ne dispiace assai, che voi non avete provisto che sì scopertamente non si vedesse quel fastidio che dinanzi tiene: perciò che tal cosa potrebbe partorire non picciolo scandolo a tutto il monastero. Disse maestro Chechino: Non vi dissi io che ancora non era ben fornito? Non prendete di ciò affanno: fosse così rimedio alla morte, come potrò rimediare a questo; ed in presenza vostra ve lo farò vedere. E preso in mano uno di suoi ferri che radeva, disse alle monache: Fatevi inanzi e ponete ben mente che tutto gli leverò via senza mio disconcio. Maestro Tiberio, che fin ora era stato sì cheto che quasi morto pareva, udito il ragionamento e veduto maestro Chechino col ferro di nuovo aguzzato in mano, senza aspettar più tempo nè dir parole, si gettò giù dell’armaio, e così nudo si mise a fuggire; e maestro Chechino col ferro in mano li corse dietro per levarli il fastidio che dinanzi teneva. Savia, temendo che alcuno vergognoso caso non avvenisse, prese il marito per le vestimenta e lo ritenne, acciò che il padre più agevolmente fuggisse. Le monache, che stavano attente, cominciarono ad alta voce gridare: Miracolo, miracolo, che ’l crocefisso è fuggito! — nè si potevano dalle grida astenere. Al crido corse infinità di genti, e intesa la causa come era, ne prese gioco; e maestro Tiberio, presi altri panni, della città si partì: e donde andasse non si sa, ma questo solo so, che mai più fu veduto.
Aveva Arianna già posto fine alla ridicolosa favola, nè vi era alcuno che si potesse astenere dal ridere, quando la Signora, percuotendo mano con mano, fece atto che ogniuno tacesse; dopo, voltatasi verso Arianna, comandòle che con uno festevole enimma seguisse: la qual, per non parer da meno delle altre, così disse.
Donne, ho una cosa soda, dritta e bianca,
Liscia d’intorno, e nel capo forata.
Un palmo è di lunghezza, o poco manca:
Dura di nervo, e di sopra lordata.
Ed è si avvezza, che mai non si stanca.
Quantunque su e giù sia dimenata.
E questa cosa, donne, che vi ho detto,
Di ciascun dichiarisse il gran concetto.
Risero assai gli uomini; ma non intendevano dell’enimma il suo significato. Ma Alteria, a cui il quarto luogo toccava, galantemente in questa guisa l’espose: Altro questo enimma non significa, eccetto la penna da scrivere: la quale è soda, diritta, bianca e nerbuta, ed è nel capo forata, e lorda per l’ingiostro; nè mai si stanca, e dal scrittore e in publico ed in segreto è su e giù menata. — Commendato fu da tutti l’acuto ingegno di Alteria in esponere il sottil enimma; non però fu senza grave sdegno di Arianna, la qual sola credeva sapere la sua isposizione. La Signora, vedendola accesa nel viso, disse: Arianna, acquetati ora, perciò che un’altra volta verrà la tua. E voltatasi verso Alteria, le comandò che la sua favola cominciasse. Ed ella con allegro viso così disse.