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FAVOLA III.
Se oggidì, graziose donne, e capi chierecati — ragionando però tuttavia di tristi e non di buoni, — attendessero a’ loro studi, dandoci buoni essempi, e vivendo santamente secondo la regola loro, gli uomini ignoranti e plebei non arrebbono tanto ardire con favole ragionar di loro: anzi li terrebbeno in tanta venerazione, che toccando le fimbrie delle lor vestimenta, si riputerebbeno salvi e beati. Ma perciò che si sono mescolati con secolari, dandosi al mondo ed alle lascivie, e facendo quello che a noi vietar dovrebbeno, senza riguardo alcuno e in publici ed in privati luoghi di loro ampiamente si ragiona. Essendo adunque così, non resterò di raccontarvi una favola d’un apostata; la quale, quantunque sia alquanto lunga, sarà nondimeno piacevole e ridicolosa, e forse di non poco sodisfamento vostro. Dicovi adunque che in Firenze, città nobile ed antica, fu un riverendo padre, maestro Tiberio per nome chiamato. Di qual ordine egli si fusse, non ardisco affermare; perciò che ora non mi soviene. Costui era uomo letterato, valente predicatore, sottilissimo disputante, ed in molta osservanzia e venerazione. Parve a lui per certi suoi rispetti, che mi sono incogniti, diporre l’abito fratesco e farsi prete.