Le piacevoli notti/Notte VIII/Favola IV

Favola IV

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FAVOLA IV.


Maestro Lattanzio sarto ammaestra Dionigi suo scolare; ed egli poco impara l’arte che gli insegna, ma ben quella che ’l sarto teneva ascosa. Nasce odio tra loro, e finalmente Dionigi lo divora: e Violante figliuola del re per moglie prende.


Varii sono i giudicii degli uomini e varie le volontà; e ciascaduno — come dice il savio — nel suo senso abbonda. Da qua prociede che degli uomini alcuni si danno al studio delle leggi, altri all’arte oratoria, altri alla speculazione della filosofia, e chi ad una cosa, e chi a l’altra: così operando la maestra natura, la quale, come pietosa madre, muove ciascaduno a quel che gli aggrada. Il che vi fia noto, se al parlar mio benigna audienza presterete.

In Sicilia, isola che per antiquità tutte le altre avanza, è posta una nobilissima città; la quale per lo sicuro e profondissimo porto è chiara, e volgarmente è detta Messina. Di questa nacque maestro Lattanzio; il quale aveva due arti alle mani, e di l’una e di l’altra era uomo peritissimo: ma una essercitava publicamente, e l’altra di nascosto. L’arte che egli palesemente essercitava, era la sartoria; l’altra, che nascosamente faceva, era la nigromanzia. Avenne che Lattanzio tolse per suo gargione un figliuolo d’un pover uomo, acciò che imparasse l’arte del sarto. Costui, che era putto, e Dionigi si chiamava, era sì diligente ed accorto, che quanto gli era dimostrato, tanto imparava. Avenne che, sendo un dì maestro Lattanzio [p. 101 modifica]solo e chiuso nella sua camera, faceva certe cose di negromanzia. Il che avendo persentito Dionigi, chetamente s’accostò alla fessura che nella camera penetrava; e vidde tutto quello che Lattanzio suo maestro faceva. Laonde, invaghito di tal arte, puose ogni suo pensiero alla nigromanzia, lasciando da canto l’essercizio del sarto; non però osava scoprirsi al maestro. Lattanzio, vedendo Dionigi aver mutata natura, e di diligente e saputo esser venuto pigro ed ignorante, nè più attendere, come prima, al mestero del sarto, diègli licenza, e mandollo a casa di suo padre. Il padre, che poverissimo era, veduto che ebbe il figliuolo, molto si duolse. E poscia che castigato ed ammaestrato l’ebbe, lo ritornò a Lattanzio, pregandolo sommamente che lo dovesse tenere, castigarlo e nodrirlo; nè altro da lui voleva se non che l’imparasse. Lattanzio, che conosceva il padre del gargione esser povero, da capo l’accettò, e ogni giorno gl’insegnava cuscire; ma Dionigi si dimostrava d’addormentato ingegno, e nulla apparava. Per il che Lattanzio ogni giorno con calzi e pugna lo batteva; e il più delle volte li rompeva il viso, e facevagli uscir il sangue: ed insomma più erano le battiture, che i bocconi che egli mangiava. Ma Dionigi ogni cosa pazientemente sofferiva; e la notte alla fessura della camera n’andava, e il tutto vedeva. Vedendo Lattanzio il gargione esser tondo di cervello, nè poter apparare cosa che li fosse mostrata, non si curava più di far la sua arte nascosamente, imaginandosi che, s’egli non poteva apparar quella del sarto, che era agevole, molto minormente appararebbe quella di nigromanzia, che era malagevole. E però Lattanzio non si schifava più da lui, ma ogni cosa in sua presenzia faceva. Il che era di molto contento a Dionigi; il quale, quantunque fosse giudicato tondo e [p. 102 modifica]grossolone, pur molto leggermente apparò l’arte negromantica, e divenne sì dotto e sofficiente in quella, che di gran lunga il maestro avanzò. Il padre di Dionigi, andatosene un giorno alla bottega del sarto, vidde suo figliuolo non lavorare, ma portar le legna e l’acqua che bisognava per cucina, scopar la casa e far altri vilissimi servigi. Onde assai si duolse; e fatta tuor buona licenza dal maestro, a casa lo condusse. Aveva il buon padre per vestir il figliuolo molti danari spesi, acciò che apparasse l’arte del sarto; ma vedendo non potersi prevaler di lui, assai si ramaricava; ed a lui diceva: Figliuolo mio, tu sai quanto per farti un uomo ho per te speso; nè dell’arte tua mi ho mai prevalesto nelle bisogne mie. Onde mi trovo in grandenissima necessità, nè so come debba far in nodrirti. Io vorrei, figliuol mio, con qualche onesto modo tu ti affaticassi per sovenirti. A cui rispose il figliuolo: Padre, prima vi ringrazio delle spese e fatiche fatte per me; indi pregovi che non vi affannate, ancor che io non abbia apparato l’arte del sarto, sì come era il desiderio vostro; perciò che io ne apparai un’altra, che ne sarà di maggior utile e contento. State adunque cheto, padre mio diletto, nè vi smarrite, perciò che presto vedrete il profitto che io fei, e del frutto la casa e la famiglia sovenir potrete. Io per nigromantica arte trasmuterommi in un bellissimo cavallo; e voi fornito di sella e briglia mi menerete alla fiera, e mi venderete: ed io lo sequente giorno ritornerò a casa nel modo che voi ora mi vedete; ma guardato di non dare in modo alcuno al compratore la briglia, perciò che io non potrei più ritornare a voi, e forse più non mi vedreste. Trasformatosi adunque Dionigi in un bellissimo cavallo, e menato dal padre in fiera, fu veduto da molti: i quai si maravigliavano di tanta bellezza e delle prove che il cavallo [p. 103 modifica]faceva. Avenne che in quell’ora Lattanzio si trovava in fiera; e veduto il cavallo, e conosciutolo esser sopra naturale, andò a casa: e trasformatosi in un mercatante, prese gran quantità di denari, ed in fiera ritornò. E avicinatosi al cavallo, espressamente conobbe quello esser Dionigi; e addimandato il patrone, se vender lo voleva, fulli risposo che sì. E fatti molti ragionamenti, il mercatante gli offerse dare fiorini ducento d’oro. Il patrone del prezio s’accontentò, con patto però che non intendeva che nel mercato fosse la briglia. Il mercatante tanto con parole e con danari fece, che ebbe anche la briglia, e menollo al proprio alloggiamento: e messolo in stalla, e strettamente legato, aspramente il bastonava; e questo ordine teneva e mattino e sera, di modo che ’l cavallo era venuto sì distrutto, che era una compassione a vederlo. Aveva Lattanzio due figliuole: le quali, vedendo la crudeltà de l’impio padre, si mossero a pietà; ed ogni dì andavano alla stalla, ed il cavallo accarezzavano, facendogli mille vezzi. E tra le altre una volta lo presero per lo capestro, e lo menorono al fiume per dargli da bere. Giunto il cavallo al fiume, subito nell’acqua si lanciò; e trasformatosi nel pesce squallo, s’attuffò nell’onde. Le figliuole, veduto il strano ed inopinato caso, si smarrirono; e ritornate a casa si misero dirottamente a piagnere, battendosi il petto e squarciandosi e biondi capelli. Non stette molto che Lattanzio venne a casa; e gitosene alla stalla per dar delle busse al cavallo, quello non trovò. Ma acceso di subita ira, e andato su dove erano le figliuole, vidde quelle dirottamente piagnere; e senza addimandarle la causa delle lagrime loro, perciò che s’avedeva dell’error suo, disse: Figliuole mie, senza timore dite presto quello è intravenuto del cavallo, che noi li provederemo. Le figliuole, assecurate dal [p. 104 modifica]padre, puntalmente gli narrorno il tutto. Il padre, inteso il sopradetto caso, senza indugio si spogliò le sue vestimenta: e andato alla riva del fiume, nell’acqua si gettò: e trasformatosi in un tuono, perseguitò il squallo ovunque nuotava per divorarlo. Il squallo, avedutosi del mordace tuono e temendo che non lo inghiottisse, s’accostò alla sponda del fiume; e fattosi in un preciosissimo robino, uscì fuori dell’acqua, e chetamente saltò nel canestro d’una damigella della figliuola del Re, la quale per suo diporto nel lito raccoglieva certe pietruzze: e tra queste si nascose. Tornata la damigella a casa, e tratte fuori le pietruzze del canestro, Violante, unica figliuola del Re, vidde l’anello: e preso, se lo pose in dito, e tennelo molto caro. Venuta la notte, e andatasene Violante a riposare, tenendo tuttavia l’anello in dito, l’anello si trasmutò in un vago giovanetto; il quale, messa la mano sopra il candido petto di Violante, trovò due popoline ritondette e sode. Ed ella, che ancora non s’era addormentata, si smarrì, e volse gridare. Ma il giovane, posta la mano sopra la bocca, di odor piena, non la lasciò gridare; e messosi in genocchione, le chiese mercè: pregandola che gli porgesse aiuto, perciò che non era ivi venuto per contaminare la sua casta mente, ma da necessità costretto; e raccontòle chi egli era, la causa perchè era venuto, e come e da chi era perseguitato. Violante, per le parole del giovane assicurata alquanto, e per la lampede, che era nella camera accesa, veggendolo leggiadro e riguardevole, si mosse a pietà; e disse: Giovane, grande è stata l’arroganzia tua a venir là dove non eri chiamato, e maggiore a toccar quello che non ti conveneva. Ma poscia ch’io intesi le sciagure a pieno da te raccontate, io, ch’io non sono di marmo nè ho il cuore di diamante, mi accingo e preparo a darti ogni [p. 105 modifica]possibile ed onesto soccorso, pur che il mio onore illeso sia riserbato. Il giovane prima le rese le debite grazie: indi, venuto il chiaro giorno, nell’anello si fece; ed ella il pose là dove erano le sue care cose: e spesse volte l’andava a visitare, e con lui, che si riduceva in forma umana, dolcemente ragionava, Avenne che al Re, padre di Violante, sopraggiunse una grave infermità: nè si trovava medico che ’l potesse guarire, ma tutti dicevano l’infermità incurabile: e di dì in dì il Re peggiorava. Il che venne all’orecchie di Lattanzio; il quale, vestitosi da medico, andò al palazzo regale: ed entrato in camera del Re, l’addimandò della sua infermità: poscia, guardatolo ben nella faccia, e tóccogli il polso, disse: Sacra corona, l’infermità è grande e pericolosa: ma state di buon animo, che presto vi risanarete. Io ho una virtù, che vuol ben esser infermità gravissima, che non la curi in brevissimo tempo. State adunque di buona voglia, e non vi sgomentate. Disse il Re: Maestro mio, se voi curarete questa infermità, io vi guidardonerò di tal sorte, che per tutto il tempo della vita vostra contento vi troverete. Il medico disse che non voleva stato nè danari, ma una sola grazia. Il Re promise conciedergli ogni cosa che convenevole fosse. Disse il medico: Sacra corona, altro da voi non voglio, se non un robino legato in oro, che ora si trova in balìa della figliuola vostra. Il Re, intesa la picciola domanda, disse: Se altro da me non volete, state sicuro che la grazia vi sarà concessa. Il medico, diligente alla cura del Re, tanto operò, che in dieci giorni dalla gravosa infermità fu liberato. Risanato il Re e restituito alla pristina sanità, in presenza del medico fece il Re chiamare la figliuola; e comandòle che li portasse tutte le gioie che ella aveva. La figliuola, ubidiente al [p. 106 modifica]padre, fece quanto il Re le aveva comandato; non però gli portò quella che sopra ogni altra cosa teneva. Il medico, vedute le gioie, disse tra quelle non esser il rubino che egli desiderava: e che la figliuola riguardasse meglio, che lo troverebbe. La figliuola, che era già tutta accesa dell’amor del robino, denegava averlo. Il Re, questo udendo, disse al medico: Andate e ritornate dimani, che faremo sì fattamente con la figliuola, che voi l’arrete. Partitosi il medico, il padre chiamò Violante: e ambiduo chiusi in una camera, dolcemente l’interrogò del robino che voleva il medico. Ma ella costantemente dinegava il tutto. Partita dal padre Violante, ed andata nella sua camera, e chiusa sola dentro, si mise a piagnere; e preso il robino, l’abbracciava, basciava e stringeva, maladicendo l’ora che il medico in queste parti era venuto. Vedendo il robino le calde lagrime che da i be’ occhi giù scorrevano, ed i profondi sospiri che dal ben disposto cuore venivano, mosso a pietà, si converse in umana forma; e con amorevoli parole disse: Signora mia, per cui reputo aver la vita, non piangete nè sospirate per me che vostro sono, ma cercate rimedio al nostro affanno; perciò che il medico, che con tanta sollecitudine procaccia di avermi nelle mani, è il mio nemico che vorrebbe di vita privarmi: ma voi, come donna prudente e savia, non mi darete nelle sue mani, ma dimostrandovi piena di sdegno, mi trarrete nel muro; ed io provederò al tutto. Venuta la mattina sequente, il medico ritornò al Re; ed udita la cattiva risposta, alquanto si turbò: affermando veramente il robino esser nelle mani della figliuola. Il Re, chiamata la figliuola in presenzia del medico, disse: Violante, tu sai che per virtù di questo medico noi abbiamo riavuta la sanità: e per suo guidardone egli non vuole stati nè [p. 107 modifica]tesori, ma solamente un robino, il quale dice esser nelle tue mani. Io avrei creduto che per l’amor che mi porti, non che un robino, ma del proprio sangue mi avesti dato. Onde per l’amor che io ti porto e per le fatiche che ha portate tua madre per te, ti prego che non neghi la grazia che il medico addimanda. La figliuola, udita ed intesa la volontà paterna, ritornò in camera; e preso il robino con molte gioie, ritornò al padre, e ad una ad una le addimostrò al medico: il qual, subito che vidde quella che tanto desiderava, disse: Eccola! — e volse gettarli la mano adosso. Ma Violante, avedutasi dell’atto, disse: Maestro, state indietro, perciò che voi l’avrete. E tolto il robino con sdegno in mano, disse: Già che questo è il caro e gentil robino che voi cercate, per la cui perdita in tutto il tempo della vita mia rimarrò scontenta, io non vi lo do di mio volere, ma astretta dal padre; — e così dicendo, trasse il bel robino nel muro: il quale, giunto in terra, subito s’aprì, e un bellissimo pomo granato divenne, il quale aperto sparse le sue granella da per tutto. Il medico, vedute che ebbe del pomo le granella sparse, si trasformò in un gallo: e credendo col suo becco Dionigi di vita privare, rimase del tutto ingannato; perciò che un grano in tal modo si nascose, che dal gallo mai non fu veduto. Lo nascosto grano, aspettata l’opportunità, in un’astuta e sagace volpe si converse; ed accostatosi con fretta al crestuto gallo, quello per lo collo prese, uccise ed in presenza del Re e della figliuola il divorò. Il che vedendo, il Re stupefatto rimase: e Dionigi, ritornato nella propria forma, narrò al Re il tutto, e di consentimento suo prese Violante per sua legittima moglie: con la quale visse lungo tempo in tranquilla e gloriosa pace; e di Dionigi il [p. 108 modifica]padre di povero grandissimo ricco divenne, e Lattanzio, d’invidia e odio pieno, ucciso rimase.

Era già giunta al suo termine la dilettevole favola da Alteria recitata, ed a tutti universalmente piaciuta, quando la Signora le fe’ motto che con l’enimma seguisse. Ed ella lieta in tal guisa il propose.

L’amante mio, che troppo m’ama e prezza,
     Con diletto or mi stringe, ed or mi tocca;
Ora mi bascia, ed ora m’accarezza,
     Ed or la lingua sua mi mette in bocca.
Dal menar nasce poscia una dolcezza
     Così soave, che l’alma trabocca.
E forza è trarlo, per sciugarlo, fuore.
     Dite, donne, se ciò e quel fin d’amore.

L’enimma diede agli uomini non poco che dire: ma Arianna, che poco innanzi era sta’ schernita da Alteria, disse: Signori, non vi turbate, e cessino i cuori vostri pensar male; perciò che l’enimma, da que' mia sorella raccontato, altro non dimostra eccetto il trombone: il quale dal suonatore vien menato su e giù, e vien sciugata l’acqua, che vi è dentro, per meglio suonare. Alteria, intesa la vera interpretazione del suo enimma, confusa rimase, e volse quasi adirarsi; ma poscia che ella conobbe esserle stato reso il cambio, s’acquetò. E la Signora commise a Lauretta che dicesse. Ed ella immantinente alla sua favola diede incominciamento, così dicendo.