Le ore inutili/La verità
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LA VERITÀ.
Ella volle conoscere finalmente la verità.
Rimasta sola discese a gran fatica dal letto, indossò una vestaglia e a piccoli passi, reggendosi ai mobili, andò a spalancare le imposte, quindi si pose dinanzi allo specchio.
Dapprima, abbagliata dalla soverchia luce non distinse nulla, poi a poco a poco un volto a contorni indecisi incominciò ad emergere dalla lucentezza del cristallo, vi si illuminò, prese forma e colore, le apparve in tutta la sua nuda realtà. Ma quel volto ch’ella fissava e che la fissava con occhi foschi, smarriti, atterriti non era più il suo. Ella non lo riconosceva e continuava a interrogarlo con lo sguardo, con uno sguardo di stupore folle, torcendosi come una forsennata e trattenendosi a mala pena dall’urlare: — Ma sono io quella donna? È mia quella faccia contorta, solcata di cicatrici, deformata, grottesca, spaventevole?
Eppure non c’era dubbio: quello era il volto di Flora Conti, era la nuova maschera umana che il beffardo destino, valendosi d’un fatto qualsiasi, dell’urto di due automobili nella notte, aveva impresso recentemente su quella forma di donna, la quale brillava fino a poche settimane innanzi di chiara grazia e di mirabile freschezza.
Sposa ad Attilio Conti da appena un anno, poco più che ventenne, adorata amante del giovine marito, lo aveva visto partire per la guerra chiamato fra i primi e da allora seguendolo giorno per giorno di lontano con l’ansia vigilante della sua passione, le era sembrato di proteggerlo contro il pericolo, si era illusa di salvarlo dal dolore e dalla morte mettendo il suo amore, la sua tenerezza, tutta se stessa fra lui ed il nemico.
Una sera, mentre Flora si trovava in villeggiatura con sua madre ricevette la lettera di un’amica la quale la informava storditamente che suo marito doveva passare il domani con alcuni compagni d’armi qualche ora in città, in seguito ad un improvviso ordine del Comando.
La notizia non era che una vaga diceria raccolta nei discorsi di un comune conoscente giunto allora in licenza, ma la giovine donna vi credette e meravigliata di non averne ricevuto dal marito stesso l’annunzio, piena di impazienza e di inquietudine, si procurò immediatamente un’automobile e non ostante i consigli della madre volle tornare la sera medesima in città per ricevere il domani fra le braccia il suo Attilio.
Nella notte buia, tempestosa, percorsa da raffiche di vento e da ondate di pioggia, ella ad occhi chiusi rannicchiata in fondo alla vettura, impaurita e felice, correva velocemente incontro al suo amore e in mezzo a quell’agitazione della natura fra la luce dei lampi e il rombo dei tuoni le sembrava quasi di vivere un poco la vita ormai consueta di lui fra i balenii e gli scoppi formidabili degli assalti.
A un tratto ella sentì che la vettura convergeva per uno svolto improvviso e subito dopo le parve di udire alcune voci di allarme seguite da un urlo altissimo. La sua mente non potè formulare alcun pensiero che già ella si sentiva sbalzata con violenza terribile incontro al vetro della parete di fronte e per lo strazio perdeva i sensi.
Li ricuperò molte ore dopo distesa nel suo letto con la madre al fianco, e s’accorse d’avere tutta la faccia bendata, con un solo breve spiraglio per gli occhi dal quale il suo sguardo annebbiato, stupefatto, ancora assente, s’aggirava interrogando.
Giorni e giorni, settimane e settimane erano passati così nella completa immobilità di quel letto, nella quasi completa oscurità di quella stanza. Un medico sconosciuto veniva di quando in quando a sbendarle il volto, a medicarlo, a ribendarlo ancora e se ne andava quasi senza parola accompagnato dalla madre che gli parlava supplicando ansiosamente a bassa voce.
L’inferma distesa nel suo letto in un’inerzia più tetra che rassegnata non chiedeva nulla, quasi non pensava a nulla. Era riuscita mediante uno sforzo di volontà aiutato dallo stato di prostrazione in cui si trovava a fare nel suo cervello il vuoto, l’ombra o quella nebulosità appena trasparente del pensiero che permette di sorvolare sulle cose senza approfondirle, senza considerarle, senza lasciarle penetrare nell’anima con tutta la crudezza della loro realtà presente e futura.
Soltanto le lettere di Attilio riuscivano a trarla dal suo cupo torpore. Attraverso allo spiraglio delle sue bende ella s’impadroniva con lo sguardo, con la carne, con l’anima di ciascuna delle sue parole e vi si indugiava per assaporarla di più, per imprimerle in sè maggiormente, per rivivere con lui l’attimo felice in cui erano state pensate e scritte pel suo conforto.
Ella aveva permesso a malincuore a sua madre di informarlo dell’avvenuto disastro, poichè anche i giornali ne portavano qualche cenno, ma la gravità della disgrazia gli era stata nascosta ed egli credeva già sua moglie guarita o convalescente con appena qualche piccola traccia del male sofferto, sul suo fresco volto di bambina, qualche piccolo segno roseo come l’impronta di un bacio troppo forte.
Così egli si esprimeva nelle sue calde pagine, piene di nostalgia e di desiderio, fra la monca descrizione di un assalto notturno e la notizia della morte di un compagno caduto al suo fianco.
Qualche volta al termine della sua lettura che durava intere ore ella s’accorgeva d’aver bagnato di pianto le bende intorno agli occhi, ma non si ricordava quasi più d’aver sofferto o d’essersi commossa o intenerita leggendo.
Solo le rimaneva nel cuore un senso di oppressione e di sgomento ch’ella non voleva definire, quasi l’intuizione oscura d’essere circondata di un abisso nel quale ella si rifiutava di gettare lo sguardo per paura di misurarne la spaventosa profondità.
E venne il giorno in cui le sue ferite furono cicatrizzate e la sua faccia potè finalmente essere sbendata. Ella non osò guardare negli occhi sua madre. Ma ad un tratto, rimasta sola nella sua camera, una smania terribile di sapere, di vedersi, di giudicarsi la prese, la costrinse ad alzarsi, a spalancare le imposte, a guardarsi in uno specchio.
Allora soltanto ella conobbe fino a qual segno il destino l’avesse colpita, allora seppe in quale miserevole orrore la sua bellezza, la sua freschezza, la grazia del suo sorriso si fossero brutalmente mutate, e le mancarono le forze per sostenere tutto il suo strazio. La trovarono poco dopo svenuta ai piedi dello specchio e rimessa a letto, febbricitante, delirò tutta la notte, ora chiamando in aiuto il suo Attilio, ora supplicando che l’uccidessero prima ch’egli tornasse.
Da quel giorno la sua idea fissa fu quella di morire innanzi ch’egli la rivedesse. Il pensiero che il marito, per il quale ella continuava a vivere nell’immaginazione e nel ricordo creatura di dolce bellezza e di deliziosa giovinezza, la potesse ritrovare ridotta a una maschera deforme e pietosa di donna, la sconvolgeva a segno che le pareva d’impazzire, e tutto, anche la morte, le sembrava preferibile a questo terrore.
Furono costretti a vigilarla di continuo, a costringerla con preghiere e con astuzie a nutrirsi quel tanto che occorreva per tenerla in vita e a nasconderle tutti gli specchi nei quali si guardava ogni momento smaniando come una demente.
Da due settimane anche le lettere di Attilio mancavano e ciò la rendeva ancora più agitata e smarrita.
Sebbene avessero nascosta a tutti la gravità della sua sventura, ella giungeva a supporre che qualcuno, segretamente informato, gli avesse rivelato la verità e che il marito disgustato di lei e offeso del suo silenzio, pensasse ormai di abbandonarla sola alla sua miserabile sorte.
Ella ne parlava a sua madre come d’una possibilità quasi certa ed imminente, sogghignando con la sua bocca contorta, stirata verso sinistra da una cicatrice che le solcava la guancia, e il suo sogghigno aveva qualcosa di così fosco, di così macabro pur nel suo ironico scherno, che sua madre ne fremeva e chiudeva gli occhi per non vederlo.
Ma dopo un’altra settimana giunse invece un breve biglietto di Attilio in cui egli si diceva convalescente di una grave ferita e pregava la moglie di venire a visitarlo nell’ospedale in cui lo avevano trasportato.
Flora lesse parecchie volte le poche linee prima di comprenderle, poi si accasciò su se stessa come un cencio, combattuta fra un dolore e una gioia così strazianti da fermarle i battiti del cuore. Ma subito si sollevò risolutamente, pensò ch’egli soffriva, che la voleva presso di sè, e decise di andare.
Per tutto il giorno, durante i preparativi del viaggio ella evitò di fermare la sua mente su altra cosa che non fosse Attilio, la ferita di Attilio, il male di Attilio, e sulla felicità affannosa di rivederlo. Ma al momento di uscire di casa, ponendosi istintivamente dinanzi allo specchio per mettersi il cappello, la terribile realtà riapparve d’un tratto dinanzi ai suoi occhi. Una crisi di disperazione la prese, la scosse, le strappò lacrime, gemiti e grida, la lasciò quasi inebetita, in uno stato di accasciamento cupo ed inerte.
Sua madre che doveva accompagnarla approfittò di quella specie di atonia per completare il suo abbigliamento da viaggio, per avvolgerle il volto in un velo fittissimo, per trascinarla alla stazione e collocarsi con lei nel treno appena in tempo per partire.
Viaggiarono parte della notte quasi sempre sole in quello scompartimento semibuio, in un fosco silenzio rotto soltanto da quel rombo ritmico delle ruote che sembra il pulsare d’un possente cuore in movimento. E su quel ritmo continuo la giovine donna stesa sul divano, nell’ombra, premeva nel petto il suo piccolo cuore traboccante di dolore e ripeteva all’infinito a se medesima una tragica promessa che sola riusciva a consolarla: — Lo vedrò e morrò.
Giunsero all’alba nella cittadina di provincia fredda, muta, quasi spopolata che ospitava nel suo ospedale i feriti. Scesero in un vecchio albergo vuoto e pretenzioso sulla piazzetta della stazione e attesero l’ora di visitare il malato.
— Andrò io sola, — disse con risolutezza Flora a sua madre mentre aspettava, seduta in una poltrona, col cappello, il mantello, i guanti, immobile e tetra sotto l’ombra del suo denso velo nero.
L’altra non osò opporsi, ma quando ella uscì e si diresse verso l’ospedale, la seguì furtivamente di lontano e l’attese all’angolo della strada deserta.
— Lo vedrò e morrò, — si ripeteva Flora ad ogni passo che la portava verso la sua ultima tortura, e crudamente cercava di immaginare l’espressione di terrore e di orrore che avrebbe sconvolto la faccia di Attilio quand’ella avesse sollevato dinanzi a lui il velo che copriva la deformità del suo volto.
— Forse la mia figura gli sembrerà così grottesca ch’egli si metterà a ridere, — pensava con una brutalità feroce verso se stessa. E le pareva di udire quella risata, lunga e stridente, di sentirla già nell’orecchio un po’ falsa ma quasi gaia, come ne aveva talvolta Attilio dinanzi a qualche nemico odiato e ridicolo che lo metteva in un cinico buon umore.
Quando Flora Conti entrò nell’ospedale e chiese di vedere suo marito mostrando la lettera che la chiamava e le carte personali che s’era procurate, la pregarono di aspettare in una saletta imbiancata a calce, piena di sole, con un crocifisso nero nel centro della parete.
Il suo cervello s’era fatto di nuovo vuoto ed assente come nei giorni della malattia quando ella ignorava ancora l’atroce verità della sua sventura. Solo un martellare sordo, doloroso, profondo in mezzo al petto l’avvertiva che un attimo orrendamente decisivo della sua vita s’avvicinava.
Entrò una monaca attempata, dal viso magro e intelligente sotto la cornetta candida, che le sorrise con commossa tenerezza e le strinse le mani sedendole accanto.
— Lei è la moglie del tenente Conti? Suo marito fu ferito gravissimamente ma non permise mai durante i giorni nei quali fu in pericolo di vita che la signora fosse avvertita. Soltanto ora poichè sta meglio e il pericolo è scomparso ha chiesto di vederla e le ha scritto. Soltanto ora.
Pareva che la suora s’indugiasse in vani e prolissi discorsi per preparare sè a dire e la sua ascoltatrice a udire qualche cosa di molto grave e di molto difficile a rivelarsi, una di quelle notizie per cui le parole umane sembrano persino troppo dure e precise e a cui non si sa per quali tortuose e leggiere ambiguità del linguaggio si vorrebbe giungere, per non colpire mortalmente con una sillaba cruda e senza pietà.
— Guarirà, suora? È in via di guarigione, non è vero? Mi dica, mi dica tutto.
D’impeto la giovine donna interrogava ansimando, scuotendo le mani della monaca, sentendo confusamente fra sè e lei una cosa oscura, ancora più terribile di tutte le altre e ancora sconosciuta.
— Abbia forza, signora, abbia forza, — incominciò ad incoraggiare la suora dopo una lunga pausa d’esitazione.
— Ma che c’è, Dio mio, che cosa mi nasconde? Dica, dica, dica subito, la supplico. Non mi tenga in questo stato.
La voce della donna tremava con una convulsione di spasimo, come tremavano le sue mani e tutte le membra del suo corpo.
— Si metta nelle mani di Dio, signora, e gli offra il suo sacrificio....
— Ma vi sono nelle mani di Dio, sono da tre mesi sotto i suoi colpi più crudeli. Che cosa si vuole ancora da me? Mio marito è mutilato, forse, è rimasto invalido e infermo per tutta la vita? È questo che non mi si vuol dire?
— Forse, signora, è qualcosa di ancora più triste.
— Non so, non so, parli, Dio mio, io non so....
Ella balbettava ormai fra i singhiozzi sotto il suo fitto velo nero, con una piccola voce di bambina sperduta che non sa ritrovarsi e guardava la suora coi suoi grandi occhi chiari rimasti limpidi e belli nel povero volto devastato, con una muta domanda che chiedeva e insieme temeva la risposta.
La monaca ebbe ancora una pausa di perplessità, quindi le circondò le spalle col suo braccio quasi temesse di vederla cadere e disse:
— Suo marito è cieco, signora.
Poi raccolse contro di sè la creatura dolorante, soffocò contro di sè il suo urlo selvaggio che parve un grido di strazio e insieme di liberazione.