Le odi e i frammenti (Pindaro)/Odi per Cirene/Ode Pitia IX
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ODE PITIA IX
In questa ode che è la piú antica delle tre cirenaiche (fu composta nel 474), si espongono i miti piú remoti di quella terra. Il primo di essi riguarda la primissima origine di Cirene.
In Tessaglia, il fiero paese dalle eccelse montagne, una Naiade, Creusa, è amata dal fiume Penèo, e genera Issèo, re dei Lapiti, i prodi e feroci antichissimi abitatori della Tessaglia. Da Issèo nasce la fanciulla Cirene, che spregia le opere femminili, e trascorre la vita cacciando fiere. Apollo ne invaghisce, scende sul Pelio, e, sorpresala mentre lottava, senz’arme, con un leone, la rapisce, e la reca, su un cocchio d’oro, nella costa settentrionale dell’Africa, sacra alla ninfa Libia. Afrodite accoglie i due amanti, e Libia dona a Cirene una parte del suolo ferace di alberi e di fiere (un’oasi), che rimanga per sempre suo retaggio. Da Cirene nasce un figlio bellissimo, Aristèo, che viene adorato come Nume; e Numi tutelari della città rimangono sempre egli e sua madre Cirene. Col tempo arrivano poi gl’isolani di Tera, guidati da Batto, e si ragunano sopra un colle circondato da piani. E comincia il glorioso periodo dei Battíadi, che, mentre Pindaro cantava, toccava il suo fiore.
Un’altra leggenda riguarda la stirpe di Telesícrate. Un signore di Libia, Anteo, re di Nomadi, che dimorava nella città d’Irasa, provò nella corsa i pretendenti di sua figlia, come aveva già fatto Danao, che con uno spediente analogo aveva collocate in una mattina sola le sue quarantotto figliuole. E vincitore della gara fu Alessídamo, uno degli antenati di Telesícrate, che già aveva riportato altre vittorie nei giuochi ellenici.
La terza leggenda, riferita da Pindaro in una digressione, è tebana. Iolao, nipote e fedele seguace d’Eracle, giunto ormai a vecchiaia, vide il crudele Euristeo perseguitare i discendenti d’Eracle. Chiese a Giove di tornar giovane per un’ora; e tagliò la testa al tristo signore. Perciò i Tebani gli diedero sepolcro nel tumulo stesso dove giaceva Anfitrione, suo avolo e padre di Eracle ed Ificle, gemelli nati da Alcmena.
A chi abbia presenti questi fatti, l’ode non presenta difficoltà. Dal principio sino ai primi tre versi dell’epodo III, il poeta narra gli amori di Cirene. Negli ultimi versi di questo epodo, incomincia a parlare del vincitore Telesicrate, e a lui torna al fine dell’antistrofe IV, per non abbandonarlo piú, e per mescere alle sue lodi le lodi dell’avo Alessidamo. La strofe IV e l’antistrofe IV, meno gli ultimi due versi, contengono una digressione sul mito di Iolao, che serve di esemplificazione alla massima che somma saggezza è saper cogliere il momento opportuno — come lo ha colto adesso Pindaro per esaltare Telesicrate. Il perché di simile digressione, che ci sembra un po’ lunga, specie perché da Iolao si passa ad Anfitrione, ad Alcmena e ad Eracle, è da cercare in quello che Pindaro dice nell’antistrofe IV. Eracle ed Ificle gli avevano concessa una grazia. Egli scriverà per gli eroi gemelli un inno apposito; ma intanto, coglie anche qui l'occasione di ricordarli.
Rimane da chiarire qualche espressione. Il «terzo pollone del mondo» (verso 8) è l’Africa: gli altri due sono l’Asia e l’Europa. Suada (Peithó: verso 39) è la Dea che induce all’amore. Il «Vecchio del mare» (verso 95) è Nereo, al quale si tribuivano saggi detti e virtú profetiche. Cirene e Libia sono per Pindaro, prima che una città ed una regione, le Ninfe che davano il nome all’una e all’altra, e le proteggevano. Notevole è poi l’introduzione di Chirone. Pindaro nutriva simpatia specialissima per il centauro divino. E qui, in una leggenda tessala, gli fu buon giuoco presentarlo per esporre fatti sotto la forma profetica, che pur gli era cara, e che conferisce a molte delle sue odi carattere sacro e solenne.
A TELESICRATE DI CIRENE
VINCITORE DELLA CORSA IN ARME A PITO
I
Strofe
Telesícrate io voglio cantare
dal clipeo di bronzo: giungendo
con le Grazie dai pepli fluenti, vi annunzio che a Pito
ei vinse, e, felice, d’un serto recinse l’equestre Cirene.
Cirene, cui Febo chiomato, dai gioghi del Pelio rombanti di vento
un giorno rapiva; e l’addusse, sovra aureo cocchio, selvaggia fanciulla,
là dove la fece signora d’un suolo ferace di greggi, ferace di biade,
che il terzo pollone del mondo le fosse gradita dimora.
Antistrofe
Afrodite dal socco d’argento
accolse qui l’ospite delio,
su la biga divina poggiando la palma leggera.
E infuse per essi nel dolce giaciglio pudore ed amore,
in nozze concordi stringendo col Nume la figlia del valido Issèo,
eroe che dei fieri Lapíti reggeva in quegli evi lo scettro: disceso
egli era secondo da Ocèano: nei celebri anfratti del Pindo, la figlia di Gea,
Creúsa, la Ninfa che il talamo godé di Penèo, gli die’ vita.
Epodo
Ed ei generò la fanciulla
Cirene dall’omero bianco, che mai non amò del telaio
le vie ricorrenti, né in casa restare e danzar con le amiche;
ma sí con zagaglie di bronzo,
col ferro affilato, le fiere selvagge cacciar, procacciando
ai greggi del padre dïurni sereni riposi;
e il sonno, compagno a chi giace soave, ben poco accoglieva,
sol quando ai lucori dell’alba
repéale sovresse le ciglia.
II
Strofe
Il Signor dall’immane farètra,
Apollo, la colse mentr’ella
combatteva un orrendo leone, soletta, senz’arme.
E tosto, levando la voce, chiamò dai suoi tetti Chirone:
«O figlio di Fílira, lascia la sacra spelonca, stupisci l’ardire,
l’immane vigor d’ una donna. Che lotta sostiene l’impavido cuore!
Fanciulla: ma l’anima supera la gesta che affronta; né il seno terrore le ingombra:
Qual uomo la dice sua figlia? Da quale radice divelta,
Antistrofe
tra gli ombrosi recessi dei monti
cimenta l’immensa prodezza?
È concesso ad un Nume distendere sovr’essa la mano?
Il miele dell'erbe falciare dai floridi prati è concesso?» —
E a lui l'animoso Centauro, raggiando la mite serena pupilla
d’un placido riso, rispose: «Oh Febo, Suada saggissima tiene
nascoste le chiavi dei sacri sponsali; ed i Numi e i mortali s’adontan del pari
con brama palese il dí primo ascendere il talamo dolce.
Epodo
Te pur, cui Menzogna non tange,
sospinse ad infinte parole la brama d’amore. La stirpe
qual sia della vergine chiedi, Signor, tu che l’esito certo,
che i tramiti sai d’ogni evento,
e quante vermene germogliano pei campi alla nuova stagione,
e quante nel mare e nei fiumi si volgono sabbie
agli urti dei flutti e dei venti, che quanto sarà ben prevedi,
e donde sarà? Pur, se debbo
oracoli esporre al profeta,
III
Strofe
parlerò. Queste balze cercasti
per esser suo sposo. E fra poco
oltre il mare con te l’avrai tratta, di Giove al verziere;
e qui di città la farai signora, una gente isolana
insieme adunando su clivo recinto di piani. Qui Libia, l’augusta
dai pascoli grandi, benevola nell’aurëa sede la sposa accorrà;
e súbito a lei della terra darà, che rimanga legittimo suo bene, una parte
ove alberi dànno ogni sorta di frutti, e dimorano fiere.
Antistrofe
Un fanciullo qui genera. Ermète
lo toglie alla madre diletta,
e lo reca alla Terra ed all’Ore dai fulgidi troni,
che il pargolo bello depongono sui loro ginocchi, stupite
lo ammirano, e nèttare e ambrosia gli stillan sui labbri, lo fanno immortale;
e Giove lo chiamano, e Apollo, diletto degli uomini puro, custode
dei greggi, signore dei campi, dei pascoli; ed anche Aristèo nomato sarà.» —
Cosí favellando, lo accese a compier le nozze soavi.
Epodo
Or quando lo affrettano i Numi,
veloce è l’evento, le vie son brevi. Compiuto quel giorno
fu quello: si strinser d’amore nel talamo d’oro di Libia. —
Or Febo la insigne nei giuochi
città luminosa tutela: e lei di Carnèade il figlio
partecipe fe’ di sua gloria coi serti di Pito.
Qui giunse, coprendo Cirene d’onore; e le donne sue belle
l’accolgon, che torna da Delfo
recando l’amabile gloria.
IV
Strofe
Sono fonte di molte parole
le insigni virtú; ma l’uom saggio
presta orecchio a chi poco fra il molto sa eleggere ed orna;
e nulla val meglio che cogliere l’istante opportuno. Ben Tebe
conobbe che non lo spregiava Iolào; con la tempra del brando recise
il capo d’Euriste; e i Tebani sotterra lo ascosero, nel tumulo fondo
dell’avo Anfitríone: quivi giaceva il signor che di Sparta fu ospite un giorno,
e poscia abitò le contrade cadmèe dalle bianche puledre.
Antistrofe
Fu sua sposa e fu sposa di Giove
Alcmèna animosa, che a un parto
generò la possanza guerriera dei gemini figli.
Ben muto è quell’uomo che tace la gloria d’Alcide, né sempre
rammemora l'acque di Dirce che lui con Ifícle nutrirono. Ad essi,
che un bene invocato concessero a me, debbo un canto di grazia levare. —
Deh, mai delle Càriti il puro fulgor non mi lasci! Vi affermo che vinse in Egina
tre volte, e sul clivo di Nisa, di gloria cingendo Cirene,
Epodo
sfuggendo al Silenzio, retaggio
d’inetti, con l’opera. Onde ora gli amici, e, se n’ha, gli avversarî,
la gesta a comune vantaggio compiuta, non tacciano, e onorino
del Vecchio del mar la sentenza.
Ei disse che pure al nemico, quand’operi bene, equa lode
largire convien di gran cuore. Nei giuochi di Pàllade
te videro vincer sovente le vergini — e senza parola
o sposo o figliuolo ciascuna
bramava d’aver Telesícrate —
V
Strofe
e in Olimpia, e nei giuochi di Gea
dal seno profondo, ed in quanti
la sua terra ne celebra. — Or mentre la sete di canto
che m’arde io lenisco, qualcuno mi spinge che pure la gloria
io desti degli avoli tuoi remoti, che per la donzella di Libia
andaron d’Iràsa alla rocca, a gara chiedendo la nobile figlia
d’Antèo, dalla fulgida chioma. Lei molti cercavano sposa signor’ di sua patria,
lei molti stranieri: ché troppo lucea la persona sua bella.
Antistrofe
E a lei d’Ebe dall’aureo serto
il florido pomo rapire
desïavan. Ma il padre, apprestando piú illustri sponsali,
pensò come in Argo già Dànao le sue quarantotto figliuole
in nozze sollecite strinse avanti che il giorno toccasse il suo mezzo.
Schierato lo stuolo di tutte le vergini presso la mèta del circo,
stimò che la gara del corso decider dovesse tra tutti gli eroi convenuti
suoi generi, quale ognun d’essi tenere sua sposa dovrebbe.
Epodo
Cosí pure il sire di Libia
eletto consorte alla figlia cercò. Tutta adorna la pose
al limite presso del corso, mèta ultima: e via l’adducesse
chi primo sfiorava il suo peplo.
Or quivi Alessídamo, il corso rapace compiuto, per mano
prendendo la vergine pura, fra i Nomadi accolti
l’addusse. Su lui molte frondi gittarono, molte ghirlande.
E già pria, col serto dell’ali
l'avea redimito Vittoria.