Le notti degli emigrati a Londra/Maurizio Zapolyi/IX
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IX.
L’esercito austriaco, non vedendosi inseguito, si fermò a Presburgo. Noi riprendemmo l’offensiva, nella speranza di battere gli Austriaci prima che le orde dello czar traboccassero su di noi. Noi avevamo nelle regioni superiori del Danubio 55,000 uomini e 230 cannoni contro un esercito di 82,000 uomini e 324 bocche da fuoco. Görgey contro Haynau, quell’Haynau che il macello di Brescia aveva posto in evidenza, e che la correzione inflittagli dagli operaj della birreria Barclay e Berkins a Londra rese celebre. Haynau era una delle jene dell’esercito austriaco, che, generalmente, è rispettabile. Görgey, per una aberrazione inqualificabile, seguiva la riva sinistra del Danubio, che è la linea più lunga, frastagliata da torrenti e seminata di paludi omicide.
Il combattimento glorioso di Csorna, guadagnato da Kmeti, inaugurò bene la campagna. Ma questi ultimi sorrisi della vittoria erano più un’ironia che un favore del destino. Io raggiunsi Görgey a Perod, il 21 giugno. Kossuth m’aveva addetto allo stato-maggiore.
Görgey mi ricevette ancor peggio di prima; e se non mi mise agli arresti per essermi battuto a Buda, invece di presentarmi al suo quartier generale, si fu perchè avevamo avuto nel giorno precedente degli scontri disgraziati, e dovevamo batterci nel giorno stesso. Il 21 giugno ci fu altrettanto funesto che il 20. Russi ed Austriaci ci oppressero colle loro forze. Io mi battei come un semplice soldato. Haynau si preparò a marciare sopra Pesth per la riva diritta del Danubio, rimasta libera, mentre Görgey intrigava e si allontanava continuamente dall’esercito, cumulando il grado di generalissimo con quello di ministro della guerra. Al 28, subimmo un’altra disfatta a Raab, e fummo obbligati ad abbandonare il terreno. Francesco Giuseppe assisteva alla battaglia. Görgey scrisse a Kossuth d’abbandonare Pesth entro tre giorni, e finiva il suo dispaccio con queste parole: «Quanto a me, abbandonatemi al mio destino». Grido d’allarme calcolato. Significava: rimettetemi i poteri concentrati, la dittatura. Egli non mirava oramai che a questo, e non sognava che colpi di Stato.
In questo momento, l’esercito russo arrivato dal nord, sotto gli ordini di Paskevitch, formava un insieme di 130,000 uomini. Lo czar l’aveva passato in rivista a Zmygrod. Il granduca Costantino lo seguiva da dilettante. Di già Lüders, nel sud, aveva invaso la Transilvania, il 19 giugno, alla testa di 50,000 uomini. In breve, il 1.° luglio c’erano in Ungheria 191,587 Russi e 130,000 Austriaci. Contro questa massa formidabile l’Ungheria non potè opporre che 150,000 uomini sopra un’estensione immensa: per mancanza d’armi, non per mancanza d’uomini. Non potendo far fronte a quella valanga, si cercò la salvezza nella strategia. Dembinski concepì il piano di campagna, prendendo per base d’operazione il Banato, provvisto di due difese naturali, la Tisza e la Maros. Görgey, che era, l’ho già detto, incapace di formare egli stesso un piano, promise d’eseguire quello del suo inimico, piano, del resto, discusso ed approvato da un Consiglio di guerra. Ma egli non vi si conformò. E fece ancor peggio. Abbandonò il fiume Czonczo, che copriva la via di Buda-Pesth, e si ritirò nel campo trincerato di Comorn, lasciando il terzo Corpo isolato sulla Vag. Cinquantamila Austriaci vennero ad offrirci battaglia. L’accettammo senza esitare.
Il combattimento ebbe principio all’alba. Ad un’ora gli Austriaci, posti in rotta all’ala sinistra, piegavano anche al centro, sotto una irresistibile carica di ventiquattro squadroni di Ussari condotti da Görgey. Io ne comandava quattro, e fui testimonio d’un attentato che mi addolorò, quantunque lo trovassi salutare: un ussaro misurò a Görgey, per di dietro, un colpo di sciabola alla testa — per liberare il paese ch’egli tradiva. Noi credemmo assicurata la vittoria. Da un punto all’altro, dinanzi agli Austriaci dispersi e Francesco Giuseppe che fuggiva, apparve la riserva russa, che smascherò cinquanta pezzi posti in batteria. Era la tela del destino, che si alzava per mostrarci la voragine nella quale la patria doveva perdersi. La notte, che scese, mise fine alla pugna, e coprì la nostra disfatta.
Görgey inviò al Governo un dispaccio ribelle, che provocò la sua dimissione; ma si commise il fallo di lasciargli il portafogli della guerra. Kossuth si faceva ancora illusione, o voleva ancora, a forza di magnanimità, ritardare il tradimento di quell’infame. L’esercito, commosso dai commentarii insolenti del colonnello Bayer, capo dello stato-maggior generale, si mostrò scontento della destituzione di Görgey. Un Consiglio di guerra nominò due delegati, Klapka e Nagy-Sandor, per andar a pregare Kossuth di levare a Görgey, piuttosto il portafogli della guerra, che il comando in capo. Io pregai Nagy-Sandor di condurmi seco a Pesth. Sentivo che, se fossi restato presso Görgey, l’avrei ucciso.
Partimmo. Il 5 luglio, i delegati furono ammessi dinanzi al Consiglio dei ministri, e la loro domanda fu accordata; ma il Consiglio insistette sulla pronta partenza dell’esercito dell’alto Danubio per andare a concentrarsi colle truppe che dovevano operare sulla Tisza. L’accecamento era incurabile: Dio, che voleva perderci, colpiva di demenza il Governo e l’esercito! Più Görgey s’inoltrava nella via del tradimento, più la sua popolarità aumentava. A lui si attribuivano tutti i successi, mentre egli rigettava sopra questi e sopra quegli la responsabilità dei falli e dei disastri. Pure, le più brillanti vittorie dell’esercito del Danubio non erano state riportate da lui. Guyon aveva guadagnata quella di Braniczko; Gaspar quella di Hatvan; Demjanich quella di Bicske; quella di Isacszeg fu principiata senza di lui; egli non assisteva nè a quella di Vacz, nè a quella di Nagy-Sarlo, nè a quella di Buda. Si dimenticava tutto ciò. Si era già entrati in quella vertigine che spinge all’abisso.
Görgey non obbedì alle ultime ingiunzioni. Egli non partì. Al contrario, tentò di rompere le linee nemiche intorno a Comorn. L’esercito si battè tutta la giornata dell’11 luglio, senza riescirvi. Alla sera, dopo la disfatta, dovette rientrare nel suo campo trincerato. Görgey diede finalmente il segnale della partenza.
Era troppo tardi, perchè i Russi occupavano già Debreczin, e gli Austriaci Buda-Pesth. Haynau lanciò nella capitale un proclama, ove l’orribile gareggiava col grottesco. D’altra parte, Guyon aveva battuto Jellachich parecchie volte, e gli Ungheresi rioccupavano la regione posta fra la Tisza ed il Danubio. Ma Szeged, ove il Governo trasferì la sua sede, era minacciata.
Kossuth mi aveva nominato colonnello, e Bem mi chiamava nel suo esercito, riservandomi un comando. I miei voti erano esauditi. Mi posi in cammino. Avevamo ora la speranza della disperazione: perderci nel naufragio! Il naufragio ci pareva inevitabile, poichè l’acciecamento ed il tradimento s’eran messi della partita. Io era terribilmente triste. Incontravo sui margini delle strade dei gruppi di giovani, che ritornavano dall’esercito, laceri, dimagriti, terribilmente consumati dalla febbre, tremanti sotto un sole pesante, denso, giallastro, che divorava tutto ciò che toccava, agonizzanti, assetati e non avendo da bere che l’acqua limosa, verdastra e pestilenziale delle paludi. La puszta non era più quell’antico lago di 500 chilometri di diametro cangiato in prateria, che alla primavera sembrava un mare di verdura ondulante, limitato dalla gran curva del Danubio, da Pesth a Belgrado, ed il semicerchio delle montagne azzurre dei Carpazii; era un mare giallo, gonfiato qua e là da vapori bianchi, che strisciavano sotto l’aspirazione esausta del sole, — la nebbia avvelenata delle paludi, ove il toro bianco e la cavalla selvaggia degli Czikos, si trascinavanoFonte/commento: Pagina:Petruccelli Della Gattina - Le notti degli emigrati a Londra, Milano, Treves, 1872.djvu/376 essi stessi, sonnolenti ed oppressi. La Tisza e la Maros travolgevano delle onde melmose d’un verde livido. Tutto aveva l’itterizia e l’ardore divorante della febbre. La caldura annientava le forze. Nei villaggi si vedevano degli uomini, validi ancora, accovacciati agli angoli delle strade, la pipa in bocca, aspettare l’ignoto, che pesava sovr’essi e li stringeva da ogni parte. Non un soffio d’aria, non una goccia di rugiada: sempre l’alito snervante e malaticcio, che corre sulle acque tenebrose delle paludi, come quello d’un demone. Io sentiva la voglia di piangere. Affrettavo il passo, seminando consolazioni ed incoraggiamenti, che erano accettati col sorriso della rassegnazione. Due uomini soli non disperavano ancora, Kossuth e Bem.
Bem aveva già cominciate le sue operazioni. Egli aveva sotto i suoi ordini 20,000 uomini effettivi, e con questo pugno di coscritti doveva far fronte a 13,000 Austriaci e 50,000 Russi, e impedir loro d’entrare in Transilvania. Quest’impresa prendeva le proporzioni d’un miracolo; la storia si tagliava le ciarpe della leggenda. Ma in guerra i grossi battaglioni finiscono sempre col divorare i piccoli. I Russi, venendo dalla Valacchia e dalla Bucovina, presentandosi a tutte le entrate in una volta, avevano finito col forzarle sotto la pressione delle loro possenti colonne. Essi penetravano nella Transilvania da sei passi.
Io incontrai Bem il 10 luglio, di mattina, al momento che i Russi l’attaccavano, presso Besztercze. Egli non volle ripiegarsi, e subimmo un grosso scacco. Sei giorni dopo, a Szered-falva, fummo nuovamente battuti. Bem aveva subito già due altre disfatte presso Teke, malgrado i prodigi che seppe fare con poche centinaia d’uomini, circondati dai Cosacchi, come il mare circonda un’isola. Nondimeno corremmo nel paese siculo a dar battaglia a Clam-Gallas. Vincemmo due giorni di seguito, il 21 e 22 luglio, poi con 2,500 uomini entrammo in Valacchia per fare una diversione ai Russi. I Moldo-Valacchi non risposero alla nostra chiamata, quantunque l’avessero promesso, e ritornammo sui nostri passi.
Nell’andare, avevamo molto maltrattato i Russi che volevano tagliarci la strada. Al ritorno, Lüders accampava già in Segesvar, quando Bem venne, poco lungi dalla città, a dargli battaglia. Ai primi colpi di cannone, egli fu ferito e rovesciato in un fosso. Non potendo più stare a cavallo a causa della sua prima ferita, Bem comandava correndo in una piccola vettura tirata da due focosi inkers attaccati all’ungherese, con delle bardature chiamate csalang, da cui pendono da tutte le parti dei cuoi adornati da piastrine di ottone e da piccole strisce di panno pavonazzo come nappe. Vettura, cocchiere, cavalli e padrone furono rovesciati nel ruscello fangoso. Bem vi si tenne quatto a tutta prima. Poi, strisciando nella belletta, andò a nascondersi fino alla notte nelle paludi. Io feci tutto il possibile per scacciare i Russi da quel sito. Mettendo in esecuzione quella eterna manovra di respingere i Cosacchi, ebbi il terribile spettacolo, che non può più cancellarsi dai miei occhi: la morte di Petöfy.
Egli caricava, alla sua volta, con una dozzina di ussari leggieri. Una ondata di cavalieri russi piombò sopra lui, e sommerse i suoi compagni. Il suo cavallo, un diabolico tarkas della Puszta, partì con un salto di fianco, e lo trasportò traverso uno spazio ch’esso vide solitario. Ed era solitario per una buona ragione. Quello era uno stagno, coperto da una lanugine traditrice di erbe marcite, che prendevano la forma del terreno ove l’erba tentava di crescere. Il cavallo fece ancora alcuni passi sopra quella voragine di fango, aderente, tenace, viscoso. Pareva volare anzichè camminare, perchè sentiva il suolo venirgli meno sotto i piedi. Petöfy provò di farlo tornar indietro, ma lo slancio era preso. Egli penzolava già sopra una specie di vortice, che si sarebbe detto bollisse, tanto la melma si ingolfava con precipitazione nelle fessure del suolo. Io gettai un grido di spavento.
Petöfy volse il capo, e mi rispose con una specie di sorriso orribile. Egli scendeva già nell’abisso. Il cavallo si dibatteva dalla stretta formidabile del fango. Ma più egli si sforzava di sollevarsi, più scavava il vuoto che lo aspirava, più ingrandiva il buco da cui era inghiottito. Petöfy si rizzò sul corpo del cavallo, già quasi scomparso. Sperò per un momento che la sua cavalcatura colmasse la fessura della palude. Illusione della speranza! Derisione del destino! L’uomo che aveva vissuto di raggi, doveva morire soffocato nella melma. Lo vidi scendere, scendere sempre, immergersi fino a quel petto ove batteva un cuore così generoso e così eroico, fino alla testa ch’egli portava sì alta, malgrado il peso del pensiero, sotto l’aureola del genio! Vidi quel capo così fieramente caratteristico sparire, ed il fango rinchiudersi sopra il tutto, dopo questo orribile agguato dell’abisso, come se nulla fosse avvenuto, ed ogni cosa ritornare all’aspetto formidabilmente tranquillo dell’imboscata calma e silenziosa. Fuggii da quel sito.
Bem uscì dalla sua palude, come Mario, verso notte, e raggiunse il suo corpo. Trovò riuniti 7,000 uomini a Maros-Vasarhély. Si gettò sopra Nagy-Szeben, respinse gli Austriaci a Medgyes, rovesciò i Russi a Vizahna, prese d’assalto Nagy-Szeben. Lüders accorse all’indomani, e si presentò in ordine di battaglia sotto le mura della città. Bem non lo fece attendere. Gli andò incontro, dicendoci:
— Siamo civili con questo Calmucco.
I Sassoni di Nagy-Szeben ci gettarono dell’acqua bollente sul capo, e tirarono dalle finestre su noi. Lüders ci bombardò a meraviglia. Ritirandosi, Bem incontrò la staffetta del Governo, che lo richiamava in Ungheria in qualità di generalissimo. Kossuth ricalcitrava ancora all’idea di confidare la dittatura a Görgey. La proposta era stata fatta, e le circostanze la imponevano.
Görgey aveva eseguita la sua ritirata da Comorn con grande abilità, salvando i suoi 25,000 uomini dall’inseguimento dei 120,000 Russi, che gli erano sempre dietro, battendoli negli scontri di retroguardia, barcamenandosi fra l’esercito di Paskevitch, che lo balestrava da una parte, ed un nuovo esercito russo, che veniva alla sinistra dalla Gallizia, condotto da Osten-Sacken. Avrebbe anche potuto venire in soccorso di Nagy-Sandor, il quale, non avendo seco che 7 a 8000 uomini, era attaccato all’improvviso a Debreczin da 80,000 Russi.
— Ecco Nagy-Sandor, che riceve una bastonata! sclamò sorridendo Görgey, udendo tuonare il cannone.
Görgey aveva giurato la distruzione di Nagy-Sandor e del suo corpo. Quando egli aveva emessa l’idea di una dittatura militare, Nagy-Sandor aveva detto:
— Se c’è qualcuno che vuol divenir Cesare, io sarò il suo Bruto.
Finalmente Görgey aveva ricondotto l’esercito ad Arad. Ma il Governo aveva dovuto abbandonare anche Szeged. Dembinski vi aveva riunito circa 35,000 uomini in una specie di campo trincierato, appena abbozzato. Nonostante, la posizione non sembrandogli tenibile sotto le valanghe di Russi e di Austriaci che affluivano da tutte le parti, aveva dato l’ordine di abbandonarla e di stabilirsi un po’ più lungi, a Szöreg.
Haynau, che comprendeva il suo vantaggio di numero e di posizione, non gli lasciò il tempo di condurre a fine il suo cambiamento di posto. Attaccò le truppe, che cominciavano a prender stanza a Szöreg. La battaglia ebbe principio il 5 agosto di sera. Gli Ungheresi avevano gli occhi abbagliati dal sole che tramontava ed impediva loro di vedere l’inimico. Essi non furono sconfitti, ma piuttosto cedettero il terreno, protetti dagli ussari, che rinnovando delle ammirabili cariche, tennero in iscacco gli Austriaci.
Dembinski aveva a scegliere allora fra due linee di ritirata: Arad, ove Görgey doveva arrivare il giorno stesso; o Temesvar, fortezza che era nelle mani degli Austriaci, ma dove sperava di tirare a sè il corpo di Kmety. Il vecchio generale polacco preferì, per fatalità, Temesvar, la cui guarnigione, credeva egli, non poteva resistere lungamente. Il Governo seguiva il corpo d’armata di Dembinski. La Dieta si era aggiornata sine die. Il principe Nyraczi e sua figlia si ritiravano coll’esercito, cacciati dall’ultima loro dimora di Szeged e spinti dalla tempesta, che li travolgeva dinanzi a sè.
C’era un’altra ragione. Il nipote del principe, che comandava il suo battaglione di volontarii, era stato ucciso. Gli ufficiali avevano domandato al principe di scegliere un nuovo capo per condurli.
— Io stessa, gridò Amelia.
— Sotto ai miei ordini, rispose il principe.
E prese il comando.
Li ritrovai a Temesvar, ove arrivai con Bem il 9 agosto.
Ove arrivava Bem, arrivava la pugna. Egli prese immediatamente dalle mani del suo compatriotta Dembinski il comando in capo come generalissimo, schierò i battaglioni magiari, mise l’artiglieria in posizione, ed aprì il fuoco contro il nemico. Haynau rotto, sconvolto, fece avanzare la riserva russa. Di un tratto, il fuoco ungherese si estingue. Mancano le munizioni. Bem ordina la ritirata. Scende la notte.
Ci eravamo impegnati in una stretta nel mezzo d’un bosco, ove i nostri distaccamenti si confondevano gli uni cogli altri, sfiniti, affamati, non avendo mangiato fino dal giorno innanzi. Dei nugoli di Cosacchi ci seguivano come corvi, raccogliendo tutti quelli che restavano indietro, ritardando la nostra marcia, obbligandoci ad ogni istante di far fronte per respingerli. Bem, con un pugno di ussari che io comandava, e col battaglione del principe Nyraczi, copriva la ritirata. In un istante, l’avanguardia, sbucando da una stretta fra due avvallamenti di colline, si trovò di faccia all’inimico, — il corpo di Lichtenstein, che Bem aveva voluto evitare, cessando la lotta. Un fremito straordinario côlse il nostro esercito. Bem si slanciò in avanti per prendere la testa dell’avanguardia, ma per un indietreggiare delle file anteriori, il suo cavallo s’impennò, e cavallo e cavaliere caddero rovesciati. Mi precipitavo in suo soccorso, quando un lungo grido dietro di noi mi annunziò un altro pericolo. Guardai: il battaglione del principe Nyraczi era intieramente ravvolto in un turbine di Cosacchi, come un giallo d’uovo nella sua albumina. In mezzo ai volontarii, o piuttosto alla loro testa, si trovava Amelia.
La scôrsi da lontano, al crepuscolo della notte che sorgeva dal piano, vestita da amazzone, fieramente rizzata sugli arcioni, sciabolare i Russi. Ella aveva perduto il suo kalpak di velluto celeste guarnito di cigno, col pennacchietto di perle, ed il suo dolman violetto agramentato d’oro ed argento. Le treccie disciolte dei capelli ondeggiavano sulle sue spalle. La sua sciabola brillava d’un corruscamento fosco e rossastro, sotto i colpi che dava o parava. La si sarebbe detta l’angelo scaduto dell’Ungheria che lanciava i suoi ultimi raggi avanti di eclissarsi. Non una parola le usciva di bocca. Il lavoro terribile che compieva, l’assorbiva. Ma i Cosacchi, alle prese con una giovine donna, bella di una bellezza più splendida di tutte le loro madonne bizantine, gettavano degli urli grotteschi, feroci, lascivi, pieni di desiderii, di paura e di ammirazione nell’istesso tempo. I volontarii ungheresi ruggivano alla loro volta, scagliandosi sui Cosacchi per respingerli, o cadendo sotto i ferri dei loro cavalli. Io mi spinsi avanti colla paura della disperazione, calpestando sotto i piedi amici e nemici onde arrivare sino a lei. La siepe si faceva più fitta. Cadaveri e viventi ostruivano lo stretto passaggio, che io aveva a varcare.
Il principe Nyraczi fu più fortunato di me. Io lo credetti almeno per un istante, vedendolo accorrere dall’altra estremità della gola, quasi al galoppo, abbattendo come spighe, sotto la sua vecchia sciabola, tutti quelli che incontrava.
Egli non aveva più ottant’anni. Il pericolo cui correva la vita e soprattutto l’onore di sua figlia gli dava una nuova giovinezza. Giunse alfine. Giunse nel momento in cui il cavallo d’Amelia cedeva sotto di lei, ed i Cosacchi piombavano sulla loro preda, come un branco di pesci-cani sopra una persona caduta in mare. Il principe la vide sparire e parve disperato, poichè tirò una pistola dai suoi arcioni. Tuttavolta, per un istante, la mischia si calmò. Egli la vide, e la vidi io pure, quasi nuda ormai sotto quelle mani immonde. Il principe non ebbe che un secondo di quella vista orrenda, che a me parve un’eternità. Ciò bastò. Armò, puntò la sua pistola, mirò, tirò un colpo, e sua figlia cadde all’indietro colla testa franta da una palla. I Cosacchi, non sapendo d’onde venisse quel colpo, si rialzarono. Il principe Nyraczi sembrava un gigante ritto sulle staffe, la mano ancora tesa, lo sguardo profondo, fisso, perduto, spaventevole. Egli faceva paura.
— Sono con voi, sono con voi, gli gridai da lontano. Tenete fermo ancora un minuto.
La mia voce lo fece trasalire. Levò lo sguardo dal cadavere e mi scôrse. Mi riconobbe.
— No! urlò egli; non voglio l’aiuto d’un servo che ho fatto frustare come un ladro.
E, dicendo queste insensate parole, continuava il molinello colla sua sciabola, e mieteva i Cosacchi. Mi fermai. Ebbi torto. Avrei potuto forse salvarlo suo malgrado. Lo vidi cadere un istante dopo sotto i kandjari dei Russi, e coprire col suo corpo il cadavere di sua figlia. Non distinsi più nulla. Non so come e da chi fui trasportato a Lugos. Credo di essere svenuto.