Le notti degli emigrati a Londra/Maurizio Zapolyi/X
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X.
Il resto non m’importava più. L’Ungheria aveva soccombuto. Io voleva morire. Ma avrei voluto vedere, prima, la punizione di Görgey.
Görgey trattava già coi Russi.
Egli propose di offrire la corona di Ungheria al principe di Leuchtemberg. Il Governo approvò questa idea. Kossuth non vi si oppose. La nazione, che ritta dietro lui, l’aveva sostenuto per due anni, era atterrita sotto il peso di 350,000 soldati austro-russi1 e sotto l’influenza del suo proprio esercito abbattuto. L’11 agosto, Kossuth diede la sua dimissione, e decretò la dittatura a Görgey. «Ami egli il suo paese, disse Kossuth alla nazione nel suo proclama, col disinteresse che l’ho amato io stesso, e più fortunato di me pervenga ad assicurare la felicità della patria. Così il Dio di giustizia e di misericordia sia con essa».
Paskewich rispose: «L’unico scopo dell’esercito russo è di combattere. Se Görgey vuol fare la sua sommissione al suo sovrano legittimo, si rivolga al comandante in capo dell’esercito austriaco».
— Morremo tutti combattendo, allora, replicò Görgey.
Egli aveva aperto le trattative per rendersi ai Russi colla clausola espressa «di non deporre le armi senza condizioni dinanzi gli Austriaci».
Görgey non tanto detestava l’Austria, quanto era geloso di Kossuth. Ma egli sapeva cosa sarebbe avvenuto dopo una reddizione agli Austriaci. Di già Haynau aveva fatto appiccare Guber e Mednyanszky, ufficiali ungheresi. La proposizione di Görgey fu alfine accettata da Paskewich, e subita da Haynau. Görgey lasciò allora Arad, e si mise in marcia per Vilagos. Pochi ufficiali soltanto sapevano che l’esercito ungherese si avvicinava ai Russi per metter giù le armi. L’esercito credeva di andare a battersi ancora, e non domandava che la battaglia, quantunque ormai certo della sua disfatta finale.
Bem m’inviò a portare i suoi ordini a Görgey, nella sua qualità di generalissimo, poichè egli considerava come incostituzionale la trasmissione di poteri fatta da Kossuth a Görgey, senza la sanzione della Dieta. Arrivai a Vilagos il 12 agosto, alla sera, ma non potei penetrare nel castello di Bohus, ove risiedeva Görgey, e non insistetti. Circolai un po’ nelle file dell’esercito.
Gli ufficiali erano tristi, i soldati in collera. Tutti gli aspetti che la disgrazia, lo scoraggiamento, la malinconia, la rabbia e l’abbattimento possono prendere, si dipingevano sulle fisonomie di quegli uomini. Tutte le impronte strazianti, che il dolore e la disperazione possono scolpire sopra una faccia virile e vivente, i tratti di quei soldati le portavano. La notizia della reddizione era ormai conosciuta. Non c’era più subordinazione. I bivacchi della notte furono tregende. Qui gridavano, bestemmiavano, maledicevano, od insultavano gli ufficiali meno afflitti; là si rompevano le armi, si ammazzavano i cavalli, si suicidavano. Il dolore ebbe voci diverse, ma immense e spaventevoli. Nessuno mangiò. Nessuno dormì. I cavalli stessi parevano penetrati da un sentimento di pesante tristezza. Si facevano dei progetti assurdi. Si concepivano speranze insensate. Tutti erano accusati, e nessuno si scusava. Si ricordavano i giorni gloriosi della vittoria, della gioia, l’entrata trionfale nelle città, il perdono generoso accordato al nemico dopo di averlo vinto, i colpi fortunati, le orride serate del bivacco d’inverno, coricati sulla neve, senza fuoco, senza mantello, senza cena, e pure felici. Si gittava al vento un ritornello patriottico di Petöfy, ormai senza eco: un flebile ritornello delle arie della pianura, che provocava una esplosione di lagrime, che ricordava il villaggio, le serate d’estate sotto l’effluvio delle stelle, le serate d’inverno all’angolo dell’amato focolare, la madre, la sorella, la fidanzata, la sposa lasciate per la patria, i fanciulli benedetti partendo, che giocavano colle sciabole. I buffi d’indignazione e di annientamento si alternavano e si succedevano. C’erano là 30,000 uomini, che domandavano di battersi ancora. Si desiderava la battaglia del destino — la disperazione contro la potenza.
Una notte serena, irradiata da uno spolverio di stelle, filtrata da un vapore bianco e leggero, avviluppava di ombre tutto il paesaggio. Le finestre del castello di Bohus risplendevano. Là si macchinava il disonore, e si vegliava. Là stavano forse l’insonnia ed il rimorso degli uni, il dubbio e l’esitazione degli altri, la volontà calcolata del capo. Poi, quando l’alba principiò a imbiancare il cielo, quando arrivò l’ora dell’esecuzione, e’ fu come un accesso di delirio. Ad un punto, centinaia e migliaia d’uomini presero la fuga, e si nascosero nei boschi: 7,000 uomini sparvero dalle file in pochi quarti d’ora.
Il sole si alzò.
La resa doveva aver luogo a mezzogiorno, nella pianura di Szöllös. L’agitazione della notte cessò. Un silenzio sinistro seguì, interrotto soltanto da qualche singhiozzo soffocato, da qualche singulto indomabile. Quelli che restavano sembravano rassegnati. Si compiacevano a credere in qualche cosa d’ignoto al quale ognuno dava la forma che più gli sorrideva. Un mistero dominava su quest’opera di tenebre. Non si voleva ancora vedere in Görgey un semplice traditore. Gli si attribuivano vendette diaboliche nascoste, colpi orrendi premeditati, accordi presi coi Russi contro gli Austriaci, articoli secreti nella convenzione, intelligenze collo Czar di Pietroburgo contro il Cesare di Vienna, degli abissi profondi, degli agguati spaventevoli. Il tradimento pare inverisimile, mostruoso, al soldato, malgrado le smentite della storia. Vada pel diplomatico, per l’uomo politico, per il civile. Il tradimento si addice a costoro, è il loro mestiere giuocare d’astuzia: sono volpi. Ma l’uomo di spada! il leone, franco, aperto, brutale, sovente generoso perchè forte..., egli tessere delle ombre! egli, delle menzogne, delle infamie, delle nefandità? egli ordire degli agguati! impossibile!
Le trombe ed i tamburi risuonarono. I soldati si posero sotto le armi, in fila. Poi, in marcia. E si arrivò al piano di Szöllös. Sotto una tenda, dei generali e degli ufficiali russi attendevano già. Non una divisa austriaca. Qualche migliaio di soldati russi formavano un piccolo accampamento; essi pure sotto le armi, in linea, la loro bandiera ondeggiante al vento. I 23,000 uomini, residuo dell’esercito ungherese, si arrestarono. Posero in fascio le loro armi e le poche loro bandiere, riuniti in massa, come per fare un riposo. Poi rientrarono nelle file. Gli ufficiali conservavano le spade. Le trombe suonarono di nuovo. I cavalieri misero piede a terra. Essi ed i soldati di linea sfilarono davanti al piccolo gruppo di Russi, che presentava le armi. Più lungi, le file si rompevano. I soldati e bassi ufficiali, che non avevano servito prima del 1848, raggiunsero provvisoriamente le loro case. Gli altri ufficiali passavano dietro le file dei Russi, e si costituivano prigionieri. Il general Rüdiger, che presiedette alla sommissione, li diresse a Sarkad; una settimana dopo, Paskewich li consegnò a Haynau per ordine dello czar.
Avevano confidato nella grandezza d’animo di Niccolò! Essi dimenticavano la Polonia!
Görgey fu condotto al quartier generale russo, a Nagy-Varad. Il granduca Costantino ottenne il suo perdono. L’Austria lo internò a Klagenfurt.
Il dramma era finito.
Io raggiunsi Bem. La mia vita era un’agonia insopportabile. Incontrai Bem a Lugos. Kossuth aveva preso, fino dalla vigilia, la via dell’esilio, dirigendosi verso la Turchia. Bem tentò di riaccendere il fuoco, e Kmety si battè ancora una volta, il 15 agosto, vicino a Lugos; ma la disperazione aveva accasciati tutti gli animi. Vecsey diede l’esempio della dissoluzione del piccolo esercito di Bem, sottomettendosi ai Russi, il 16 agosto.
Vecsey fu il primo a salire sul patibolo di Haynau!
Noi penetrammo in Transilvania. Quel pugno d’uomini, che ci restava ancora, sembrava disposto a lasciarsi uccidere, piuttosto che battersi. Perchè aggiungere nuove vittime all’ecatombe già finita? C’impegnammo nelle montagne, e, per sentieri quasi inaccessibili, raggiungemmo il territorio turco, avendo l’ultima gioia, non lungi di Mehadia, di accoppare gli Austriaci che guardavano il confine per arrestare i fuggitivi.
Klapka tirò da Comorn l’ultimo colpo di cannone contro il vessillo giallo-nero. Poi capitolò anch’egli.
E l’opera del carnefice incominciò.
Luigi Batthyany, primo ministro ungherese, fu trascinato dinanzi un Consiglio di guerra austriaco.
— Io sono Ungherese, e non posso essere giudicato che da Ungheresi, sclamò egli.
Fu condannato a morire di corda, pei suoi atti politici. Tentò di suicidarsi, e vi riescì per metà. Lo fucilarono per finirlo.
Ciò accadeva a Pesth.
Ad Arad, i generali Ernesto Kiss, Schweidel, Dessewffy e Lazar vennero pure fucilati, per grazia particolare di Haynau. I generali Török, Lahner, Knezich, Pöltenberg, il conte Vecsey, il conte Leiningen, il colonnello Lazar furono impiccati.
— Hodie mihi, cras tibi! sclamò il formidabile Nagy-Sandor, al momento in cui il carnefice gli passava la corda al collo.
E fu impiccato.
— Io aveva, per ordine del re, giurato fedeltà alla Costituzione, e dovetti restar fedele al mio giuramento, disse Aulich, rivolgendosi al pubblico, come s’era vòlto ai giudici, nel momento che il carnefice gli aggiustava al collo il nodo fatale.
E fu appiccato.
Damjanich, che aveva rotta una gamba, condotto ultimo, sopra un carro, al luogo del supplizio, gridò con inesprimibile dolore:
— Io che era sempre il primo dinanzi l’inimico, arrivo qui dopo tutti gli altri!
E fu appiccato.
Era il tredicesimo. Di già Windischgraetz aveva fatto appiccare il comandante dei cacciatori tirolesi, il capo della legione tedesca, Szöll, il generale Lazar, il colonnello Nadosy.
Il barone Sigismondo Pérényi era un uomo avanzato in età. Era stato presidente della Camera dei magnati e della Corte suprema di giustizia. Fu impiccato. Ladislao Csany era stato ministro. Fu impiccato. Emerico Szasvay, segretario della Camera dei rappresentanti; Czernus, consigliere al ministero delle finanze; il barone Giovanni Jeszenak furono impiccati. Il colonnello principe Woroniecki, gli ufficiali Giron e Abancourt furono impiccati. Il colonnello Kasinczy fu fucilato in Arad.
Lascio i più oscuri, ma non meno degni. Il pudore mi proibisce di nominare le dame e le donne flagellate. Madamigella Esther Lazar, che seguì lo stato-maggiore di Bem, vestita d’amazzone, Bianca Teleki, Clara Lövey furono poste in prigione.
L’Austria tirò una linea nera sull’Ungheria, sulle sue istituzioni, sulla sua lingua, sulla sua storia, e credette di averne fatto una provincia austriaca.
Bem morì di febbre in Aleppo, ove il Sultano ci aveva internati dietro la domanda dell’Austria e della Russia. Quando gli si propose d’abiurare il cristianesimo, in vista d’una possibile guerra della Turchia contro la Russia, Bem sclamò:
— Non ho nulla da abiurare. Io non sono cristiano. Non ho che a scambiare l’incomodo costume dell’Occidente contro quello più ampio degli Orientali.
Kossuth fu internato a Kutahia.
Più tardi potemmo tutti ritornare in Europa, o imbarcarci per l’America2.
Note
- ↑ Questa cifra è ufficiale, presa dai documenti pubblicati dallo stato-maggiore dei due eserciti.
- ↑ I fatti raccontati dal conte Zapolyi sono registrati egualmente nelle Storie e nelle Memorie di Görgey, Klapka, Iranyi, Imrefi, Czetz, Ramming, Kossuth, Szemere, Thaly, De Gerando, e nella corrispondenza diplomatica inglese. Il giudizio sopra Görgey è unanime.