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attaccati all’ungherese, con delle bardature chiamate csalang, da cui pendono da tutte le parti dei cuoi adornati da piastrine di ottone e da piccole strisce di panno pavonazzo come nappe. Vettura, cocchiere, cavalli e padrone furono rovesciati nel ruscello fangoso. Bem vi si tenne quatto a tutta prima. Poi, strisciando nella belletta, andò a nascondersi fino alla notte nelle paludi. Io feci tutto il possibile per scacciare i Russi da quel sito. Mettendo in esecuzione quella eterna manovra di respingere i Cosacchi, ebbi il terribile spettacolo, che non può più cancellarsi dai miei occhi: la morte di Petöfy.

Egli caricava, alla sua volta, con una dozzina di ussari leggieri. Una ondata di cavalieri russi piombò sopra lui, e sommerse i suoi compagni. Il suo cavallo, un diabolico tarkas della Puszta, partì con un salto di fianco, e lo trasportò traverso uno spazio ch’esso vide solitario. Ed era solitario per una buona ragione. Quello era uno stagno, coperto da una lanugine traditrice di erbe marcite, che prendevano la forma del terreno ove l’erba tentava di crescere. Il cavallo fece ancora alcuni passi sopra quella voragine di fango, aderente, tenace, viscoso. Pareva volare anzichè camminare, perchè sentiva il suolo venirgli meno sotto i piedi. Petöfy provò di farlo tornar indietro, ma lo slancio era preso. Egli penzolava già sopra una specie di vortice, che si sarebbe detto bollisse, tanto la melma si ingolfava con precipitazione nelle fessure del suolo. Io gettai un grido di spavento.

Petöfy volse il capo, e mi rispose con una specie di sorriso orribile. Egli scendeva già nell’abisso. Il cavallo si dibatteva dalla stretta formidabile del