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violetto agramentato d’oro ed argento. Le treccie disciolte dei capelli ondeggiavano sulle sue spalle. La sua sciabola brillava d’un corruscamento fosco e rossastro, sotto i colpi che dava o parava. La si sarebbe detta l’angelo scaduto dell’Ungheria che lanciava i suoi ultimi raggi avanti di eclissarsi. Non una parola le usciva di bocca. Il lavoro terribile che compieva, l’assorbiva. Ma i Cosacchi, alle prese con una giovine donna, bella di una bellezza più splendida di tutte le loro madonne bizantine, gettavano degli urli grotteschi, feroci, lascivi, pieni di desiderii, di paura e di ammirazione nell’istesso tempo. I volontarii ungheresi ruggivano alla loro volta, scagliandosi sui Cosacchi per respingerli, o cadendo sotto i ferri dei loro cavalli. Io mi spinsi avanti colla paura della disperazione, calpestando sotto i piedi amici e nemici onde arrivare sino a lei. La siepe si faceva più fitta. Cadaveri e viventi ostruivano lo stretto passaggio, che io aveva a varcare.

Il principe Nyraczi fu più fortunato di me. Io lo credetti almeno per un istante, vedendolo accorrere dall’altra estremità della gola, quasi al galoppo, abbattendo come spighe, sotto la sua vecchia sciabola, tutti quelli che incontrava.

Egli non aveva più ottant’anni. Il pericolo cui correva la vita e soprattutto l’onore di sua figlia gli dava una nuova giovinezza. Giunse alfine. Giunse nel momento in cui il cavallo d’Amelia cedeva sotto di lei, ed i Cosacchi piombavano sulla loro preda, come un branco di pesci-cani sopra una persona caduta in mare. Il principe la vide sparire e parve disperato, poichè tirò una pistola dai suoi arcioni.