Le notti degli emigrati a Londra/Il conte Giovanni Lowanowicz/IX

Il conte Giovanni Lowanowicz - IX

../VIII ../X IncludiIntestazione 17 agosto 2009 75% romanzi

Il conte Giovanni Lowanowicz - VIII Il conte Giovanni Lowanowicz - X


[p. 211 modifica]

IX.


I lupi, incomodamente interrotti nel loro festino da quei parassiti intrusi, che venivano ad imporsi al banchetto senza aver sostenuta la battaglia, fecero voltafaccia all’istante. Gli orsi retrocessero di qualche passo, e si addossarono ad un macigno, onde [p. 212 modifica]avere le spalle sicure; poi si assisero sulle lacche, sporgendo la gola aperta ed incrociando sul petto le loro zampe anteriori. I lupi si spiegarono in mezzo cerchio intorno ai loro nemici, alla distanza di tre quattro metri. Noi restammo indietro, spettatori attoniti, in mezzo a quell’immenso macello. I combattenti dei due campi si squadravano: i lupi invitando gli orsi a prender l’iniziativa, provocandoli coi ringhi quasi beffardi; gli orsi aspettando con pazienza che la flemma dei loro nemici si esaurisse. Non erano essi padroni del tempo e dello spazio? Un nugolo di corvi calò sui rami degli alberi, e sembrava incoraggiare, coll’orrido gracchiare, la collera sorda dei combattenti. Una doppia fila di volpi si costituiva spettatrice in distanza, senza muoversi, neutrale. Gli orsi tennero fermo. I lupi, aizzati forse dalia fame o più esasperati, perdettero la pazienza. Qualcuno dei più arditi saltò sui due pilastri di carne e di pelle, che li sorvegliavano. Invece di fare gomitolo e scagliarsi di un balzo sugli orsi, i lupi si avanzarono alla spicciolata, e si spiegarono a ventaglio. Questo fu il loro errore e la nostra salvezza.

Gli orsi cominciarono ad agitare le loro zampe come una clava di acciaio. A destra ed a manca, a manca ed a destra.... ad ogni sgrugnare si schiacciava un cranio di lupo.

— Andiamo in soccorso dei nostri amici, disse Metek.

Avevamo caricati i nostri fucili ed i nostri revolver. Facendo un mezzo giro vicino alle volpi, giudici del campo, andammo a collocarci a fianco degli orsi. Il nostro intervento inaspettato, non sperato, ca[p. 213 modifica]gionò un momento di sorpresa in mezzo ai due campi. Ma l’attacco essendo principiato, era oramai impossibile di rimettersi in guardia. I lupi si sbrancarono in massa. Noi non avevamo ad occuparci dei nemici onesti e franchi che si facevano avanti, colla testa alta, e si trovavano per conseguenza alla portata delle zampe o dei denti degli orsi. Noi sorvegliavamo i traditori, vale a dire quelli fra i lupi che strisciavano e miravano al ventre, poco difeso, dei loro nemici. Noi facemmo fuoco su questi vigliacchi. Gli orsi esitarono un momento, udendo d’accosto a loro quell’esplosione di cui non comprendevano l’intenzione. Ma, come videro i lupi fulminati avvoltolarsi ai loro piedi, essi si persuasero dell’importanza del nostro intervento, e divennero meno cauti.

Io non saprei dipingervi questa mischia. I lupi, lanciati da tutti i lati, piovevano a cinquanta metri in circolo, schiacciati, lacerati, sventrati, col cranio fracassato, cadevano sotto le nostre palle, senza neppur gettare un urlo. Essi rincularono nella loro prima posizione.

— Se ne andranno? domandai io.

— Eh! non ancora, rispose Metek; essi hanno troppa fame.

Infatti, ritornarono alla carica, ma con minore ardore, e solamente, si sarebbe detto, per l’onore della bandiera. Sicome io non voleva sciupare la mia polvere, ora che vedevo la vittoria quasi assicurata, mi accontentai di appoggiare la canna del mio fucile al fianco dell’orso che era dal mio lato e proteggere la sua epa. Metek, che comprese la mia manovra, fece altrettanto. Gli orsi, d’altronde, non avevano più bisogno di noi. Essi sostennero il se[p. 214 modifica]condo assalto con la medesima bravura e la medesima fortuna. I lupi retrocessero: gli orsi caricarono alla loro volta. Era finita. Dieci minuti dopo, non restava più intorno a noi che delle carcasse. Ma la mia disperazione non aveva limite.

La morte delle nostre renne era la nostra morte. Noi non osavamo neppur parlare. Non avevamo più freddo, non avevamo più fame: Dio ci schiacciava. Il ritorno degli orsi venne a formar diversione alla nostra agonìa.

Essi non sembravano avvedersi di noi. Si misero senz’altro a divorare i loro nemici morti.

L’orso, in questa stagione, si trincera di ordinario nel campo fortificato, ch’e’ si prepara per irrigidirsi nella sonnolenza e restare così sino alla primavera, senza mangiare, pacifico, inoffensivo. Perchè questi due orsi si trovassero così sulla nostra via, era stato mestieri che qualche cacciatore li avesse stanati e non uccisi. Gli urli dei lupi li avevano attirati al sito della zuffa. Arrivavano dunque terribilmente affamati ed esasperati da un digiuno di due mesi. Noi restammo a considerarli, ma sotto le armi. Li avevamo soccorsi, perchè i lupi li avrebbero infallibilmente divorati, dopo aver mangiato le due renne — tanto poca cosa allo spaventevole loro appetito — , ma non eravamo punto rassicurati sulle buone intenzioni dei nostri alleati. Certi alleati sono più a temere che i nemici stessi — e noi Polacchi ne sappiamo qualche cosa. L’orso bruno si rimpinzava di carne con voracità. L’orso grigio sceglieva i suoi bocconi, li mangiava più lentamente, più pulitamente, con una certa voluttà. Esso era immenso. Quando l’orso bruno fu sazio, sbadigliò, volse le spalle, e [p. 215 modifica]s’inselvò nelle macchie. L’orso grigio, invece, si sedè sulle sue lacche, e cominciò a dondolarsi, guardandoci. Si sarebbe detto che, alla frutta, esso avesse voglia di chiacchiere.

Voi sapete che l’orso grigio si nutre di vegetabili, e di pesce, anzichè di carne; non è feroce, al punto che gli Ostiaki della Siberia occidentale, al principio dell’inverno, li menano a Berezoff in branchi considerevoli, e la carne loro si vende ai beccaj mentre la pelle è destinata al commercio delle pellicce. L’orso grigio è dolce, intelligente, socievole, e sopratutto, quando è sazio o quando qualcuno s’incarica di nutrirlo, esso può divenire un animale domestico molto utile. Il nostro orso grigio aveva probabilmente ronzato attorno alle yurte degli indigeni, ed erasi familiarizzato all’aspetto dell’uomo.

— Noi stiamo per giocare la vita, mi disse Metek basso all’orecchio: ma, se Dio ci aiuta, siamo forse salvi.

E’ si mise allora a cantare il lied siberiano seguente:

«Non mi occorre nè penna nè inchiostro per scrivere la mia lettera: — Una lagrima bruciante basterà! — Questa colomba a gola rossa e violetta sarà il mio messaggiero. — Gentile colomba, fa presto, parti, e spicca il tuo volo verso Jakoutsk, la bella città. — Tu caccerai la mia lettera sotto la sua porta, o la lascerai cadere sotto la sua finestra».

Metek, si tacque e guardò l’orso. Questo continuava a dondolarsi, spensieratamente, in cadenza, e quasi sonnecchiando.

— Diavolo! disse Metek, esso è difficile a contentare. Eppure io non gli ho cantato uno dei nostri andiltehinè guerrieri, ma il più soave dei nostri lai femminili. Ciò non lo tocca. Su, presto, [p. 216 modifica]fategli udire la voce più infantile del vostro giovane fratello.

È noto che l’orso ha l’udito durissimo. Ma, per una stranezza della natura, questo bruto, che non percepisce neppure il terribile muggito del tuono, il fragore delle valanghe ed il ruggito del mare in furore, resta estatico al gorgheggio di certi uccelletti.

Cesara poteva appena articolare qualche sillaba, accompagnandole sempre con un crescendo di tosse. Come poteva ella trovare una nota di canto nella sua gola? Nondimeno la nostra salvezza era a questo prezzo. Ella fece dunque sopra di sè uno di quegli sforzi della disperazione che divengono miracoli, e si mise a mormorare con voce lamentevole e sommessa questa dolce denka polacca:

«Mi mandarono in una foresta, in una piccola foresta, per cercarvi le coccolle selvagge e cogliervi i fiori della stagione; ma io non raccolsi le coccolle, non colsi i fiori. Mi riposai sulla collina solitaria, vicino alla tomba di mia madre, e piansi caldamente la sua perdita.

«— Chi piange per me lassù? chi passa sulla collina?

«— Son io, madre mia amorosa, io abbandonata in questo mondo, io orfana miserevole. Chi pettinerà oggimai le mie lunghe trecce? Chi laverà le mie guance? Chi mi dirà una parola carezzevole di amore?

«— Torna alla tua dimora, figliuola mia; là un’altra madre, più felice di me, ornerà la tua fronte coi tuoi capelli, spanderà l’acqua sul tuo bel sembiante; là un giovane sposo ti sussurrerà delle tenere parole che calmeranno il tuo dolore».

L’effetto di questo canto fu magico. Forse fu anche la potenza magnetica dello sguardo, di cui i Siberiani attestano l’efficacia infallibile sull’orso. Il fatto è, che il bruto cessò di dondolarsi, si avvicinò [p. 217 modifica]passo a passo, quasi strisciando, verso la cantatrice, e fregò il suo muso alle pellicce di Cesara.

Ciò si fece come in un lampo.

Metek passò al collo dell’orso un collare delle nostre renne, l’annodò alla slitta, caricò i due quarti di dietro delle nostre povere bestie sui pattini della predella, ove egli appoggiava i suoi piedi, e punse l’orso, incitandolo a mettersi in cammino. Non era il momento di pensare al riposo, nè al pranzo, nè al freddo, nè a che che sia. Bisognava profittare dell’ammaliamento del difficile melomano. La malìa però non durò lungo tempo.

L’orso, sentendo il suo collare e la puntura dello zenzero, si rivolse con aria costernata e stupefatta verso Metek. Questi lo fissò con tutta la potenza dei suoi occhi vivi e grigi, e, scuotendo le redini e rinnovando il pungimento, emise un suono gutturale che risuonò nello spazio. L’orso fece qualche passo, saggiò il peso che aveva a tirare — non gravissimo per lui — si rese conto del suo destino, e fermossi. Per buona ventura, e’ non pensò a rivoltarsi. Io lo teneva, del resto, sotto la mira del mio fucile. Fu questa vista che lo decise? Non so. Il fatto sta che dietro un novello invito di Metek, più urgente, più determinato — lo punse colla punta del suo coltello — l’orso si rimise in cammino.

Esso andò dapprima con un passo maestoso, come un giudice o un vescovo; poi perdè la pazienza, forse in vista di liberarsi del suo fardello, e cominciò a correre. Noi salivamo una vallata fra due montagne. L’ascensione era ardua; ma la neve indurita ci sosteneva bene, ed addolciva le difficoltà del passo. Però, blocchi immensi di piperno ci ostruivano tal[p. 218 modifica]volta la via. L’orso, fremente di collera concentrata, dava colla testa in giù contro questi ostacoli, e si precipitava negli anditi che gli s’aprivano dinanzi. Eravamo scossi terribilmente.

— L’andrà, l’andrà, disse Metek, e si mise a cantare.

La stanchezza, piuttosto che il canto, moderò l’ardore del nostro salvatore. Esso regolò il suo andare ad una specie di galoppo, che un vincitore di Derby non avrebbe disdegnato. Temevamo di vedere ad ogni istante il nostro veicolo andare in pezzi. Il pericolo aumentò, alla discesa nella valle che separa il corso delle acque dell’Indighirka da quello della Kolima. Lambivamo i precipizi, ove l’orso voleva slanciarsi di partito preso. Metek lo tratteneva con mano di ferro, ed il collare, stendendosi, lo strangolava. Bisognava allora addolcirlo. Io uscii dalla slitta e lo carezzai. Cesara fece altrettanto, ad un passo ove la slitta bilicava sur un baratro, ritenuta unicamente dalla trazione. Ella osò passare la sua mano sul grugno appuntito dell’orso. Ciò fu veramente magico.

— No, sclamò Metek con un grido istantaneo, il vostro giovane fratello è una piccola sorella.

Stupefatto da queste parole, io non trovai nulla a rispondere. Sorrisi.

— Ciò è una grande fortuna ed un gran pericolo, rispose Metek. Vedremo.

Infrattanto, la corsa dell’orso si regolava. Solamente, esso fermavasi di tempo in tempo, e volgeva la testa verso la slitta. A digiuno da dodici ore, noi osammo allora mordere un biscotto ed un lembo di carne salata, gelata. [p. 219 modifica]

Viaggiammo così due giorni.

Avevamo traversato sempre paludi gelate, boschi cedui quasi impenetrabili, montagne dalle creste frangiate, burroni irti, fiumi torrenziali d’estate, ora gibbosi, e scorgendo di lontano in lontano qualche yurta affamata. La terribile notte di trentotto giorni cessava alfine. Eravamo al 28 dicembre, e vedemmo all’orizzonte una luce, come l’alba del mattino, ma così pallida, che lo splendore delle stelle non era punto affievolito. Queste deboli apparizioni del sole rendevano il freddo più vivo, senza bandire i moroki, o nebbioni densi, prodotti dai venti del nord. Avevamo avuto rarissime notti serene. Dinanzi a noi si allineava una formidabile cortina di montagne, dietro la quale scorre la Kolima. Nella pianura sterminata elevansi delle colline più o meno alte, più o meno coniche e arrotondate a foggia di cranio. Il paesaggio non cangiava mai; gli accidenti non diminuivano. La nostra stanchezza era estrema. Una notte di riposo ci sembrò indispensabile. Da sessantasei ore non avevamo preso nulla di caldo.

Facemmo alto a pie d’un poggio, che ci offriva uno scavato fra due massi. Distaccammo l’orso dalla slitta, ma non gli demmo la libertà. Mentre io innalzava il pologhe e Metek tagliava le legna pel fuoco, Cesara dalla slitta teneva la correggia dell’orso, al quale io aveva presentato amichevolmente un pezzo enorme delle nostre renne. L’orso parve riconoscentissimo di questa gentilezza previdente, e mangiò il suo pasto pulitamente, senza premura, senza dare alcun segno di ghiottoneria. Si accostumava esso alla sua sorte? Cesara lo carezzò.

— Ma! e’ si lascerebbe baciare, senza far troppo [p. 220 modifica]lo schifiltoso, se glielo proponessi, disse ella. Non è vero, ninì?

Il fuoco scintillava. Io sollevai il lembo che serviva di porta al pologhe. L’orso, solidamente legato ad un corno della roccia, allungò il capo, e parve incantato del fuoco che ci affumicava come prosciutti. Cenammo con una parte dell’anca dell’alce, messa sulle brace, che restavaci ancora. L’orso non volle gustare di carne cotta, ma rotolò fra le sue zampe enormi l’enorme osso scarnato, divertendosene come di un trastullo. Poi fe’ scricchiolar sotto i denti con diletto un biscotto. Noi bevemmo del thè; e’ si contentò fiutarlo con curiosità. L’aspetto di Cesara, messo a nudo, fece brillare i suoi occhi d’un insolito scintillio, malgrado ciò dolce e tenero. E’ si allogò all’ingresso della tenda, e la sbarrò.

Metek assicurò che l’orso erasi oramai affezionato a noi, e che non si avviserebbe a riprendere la libertà. Non pertanto, siccome esso era la nostra vita, così decidemmo che Metek lo sorveglierebbe, mentre io dormiva, e che alla mia volta, io gli terrei compagnia, mentre che Metek sonnecchierebbe. Ciò fu fatto.

Il dì seguente riaccendemmo il fuoco, facemmo colazione, demmo un pezzo di renna al nostro amico, cui io battezzai col nome di Czar, e partimmo. Lo Czar lasciossi carezzare da Cesara, lasciossi attaccare alla slitta, senza la minima dimostrazione di cattivo umore, e si mise a trottar gaiamente, non avendo bisogno di essere toccato dallo zenzero. Viaggiavamo con una celerità media di dodici chilometri all’ora.

Percorrevamo una pianura interminabile, qua e là interrotta da qualche collina. L’intensità del freddo [p. 221 modifica]cresceva. Certo, se avessimo avuto un termometro, esso avrebbe segnato 40 gradi sotto lo zero. Metek non cessava dal batter i denti: Cesara ed io ci sentivamo colpiti dal mal del ghiaccio. Respiravamo di tempo in tempo, come di soppiatto, un boccon d’aria fresca, che ci increspava il petto con la crepitazione della tela che si lacera, e provocava un impeto di tosse insopportabilmente doloroso. Nessuna parte del nostro corpo restava esposta per un minuto solo al contatto dell’aria. Gli occhi s’injettavano di sangue. La slitta procedeva, avviluppata in una densa nuvola piombacea, proveniente dalle nostre esalazioni animali. La neve, restringendosi, scricchiolava, ed i fiocchi leggerissimi di vapore, prodotti dallo sprigionamento del suo calorico, si trasformavano in una miriade di pagliuzze ghiacciate che scoppiettavano nell’aria. I laghi gelati, sui quali volavano, erano numerosi e prossimi. Il ferro che toccavamo, bruciavaci le dita peggio che se fosse stato rovente; non potevamo servirci più dell’accetta, che sarebbe andata in frantumi al minimo uso.

Arrivammo così, dopo parecchi giorni di marcia alternati di riposo, ai piè dei monti, che chiudono all’ovest la vallata della Kolima.

Non avevamo nè carta della Siberia, nè bussola, nè alcuno strumento per dirigerci. Metek possedeva una memoria locale sorprendente, ed e’ trovava la via, esaminando gli strati di neve, che il vento forma, spirando nella medesima direzione — ciò che la gente del paese chiama la zastruga — , ovvero osservando la corteccia dei larici, la quale, in tutta la Siberia, è nera dal lato nord e rossastra da quello del mez[p. 222 modifica]zodì. Stavamo per intraprendere l’ascensione di un’erta montagna, da quella parte della catena degli Stanovoi, che termina, traversando le tundras, allo stretto di Behring. E’ fu dunque mestieri ora scalare o girare enormi massi, esponendoci ad ogni istante a scivolare nei precipizi, ora a varcare crepacci colmi di neve, nei quali talvolta affondavamo, ora aprirci la via con delle paleFonte/commento: Pagina:Petruccelli Della Gattina - Le notti degli emigrati a Londra, Milano, Treves, 1872.djvu/376. Volgemmo la montagna a mezza costa, attraverso un selviccio di pini sparuti. Ma, spuntando sul versante orientale, un colpo di vento, spruzzando dall’imo degli abissi come un milione di razzi, ci prese di assalto. Ci sentimmo sollevati da terra ed atterrati: uomini, slitta, orso, tutti fummo capovolti. Se i pattini della slitta non si fossero appiccati a qualche arbusto di cedro nano, noi eravamo gittati nei precipizi, o disparivamo in una tromba verso le nuvole.

Corremmo immediatamente a rialzare l’orso, che era lì per fracassar tutto ed accelerare il nostro capitombolo nei burroni. La correggia del suo collare erasi svolta: esso saltò in piedi, e noi potemmo raddrizzare meglio la slitta coricata sulla neve. Lavoravamo con una mano, avvinghiandosi coll’altra agli sterpi, oscillanti essi stessi sotto la bufera.

Fu mestieri torcer cammino e cercar un ricovero nella macchia, dietro i macigni. L’uragano durò ventiquattr’ore. Il freddo, malgrado il fuoco enorme che avevamo acceso, ci penetrava, e c’impediva di uscir fuori della tenda. E noi avevamo a nutrir l’orso! La carne dell’alce e della renna era terminata. La nostra provvigione di biscotto toccava la fine. Il pesce e la carne secca, il pemmican erano una risorsa troppo preziosa per destinarli ad alimentar l’or[p. 223 modifica]so, che divorava due o tre chilogrammi di carne per pasto e brontolava, non trovando la sua parte sufficiente. Bisognava vederlo, assiso alla porta della nostra tenda, allungare la sua terribile zampa al fuoco e dimandare che vi mettessimo qualche cosa. Egli mangiava ora di tutto, beveva persino il thè e l’acquavite. Era ghiottissimo soprattutto del brodo del pemmican.... Metek si arrischiò ad uscire, conducendo seco l’orso, che lo seguì con molta mala grazia. Lo Czar non perdeva mai Cesara di vista. Metek si rassegnò ad uccidere due corvi, non trovando altra preda. Ciò bastava presso a poco per lo Czar: era l’essenziale. Infine, la bufera si calmò. Il cielo si rischiarò: la luce apparve. Che spettacolo!

Le roccie avevan forme fantastiche; gli alberi projettavano le loro ombre sul tappeto di neve, e vi disegnavano arabeschi bizzarri. Il vapore prendeva aspetti magici, trasformandosi in polvere di ghiaccio. Si sarebbe detto che nevicassero diamanti. Il freddo, slogando i rami degli alberi e screpolando i macigni, dava una voce sinistra alla solitudine, ed interrompeva con questo rumore metallico il silenzio infinito che ci circondava. Tutto prendeva una fisionomia insolita e sorprendente: le proporzioni degli oggetti sembravano gigantesche. Questo paesaggio selvaggio e grandioso ci riconduceva, per un contrasto doloroso, alla memoria della patria, del focolare paterno, della società, dell’agiatezza, dei volti amati, e ci stringeva il cuore. La vallata della Kolima si apriva alla nostra sinistra, e di fronte a noi rizzavasi una catena di monti dalle cime raggianti, dalle sovrapposizioni stravaganti.

All’indomani raggiungemmo il letto della Stolbo[p. 224 modifica]vayask, che saltella di roccia in roccia sugli spalti della montagna.

Il versante orientale si presentava meno ripido che quello del sud, cui avevamo scalato, ma le difficoltà raddoppiavano. Nondimeno riescimmo a cavarcela, a poco a poco, grazie ad un’aurora boreale, che ci rischiarò. Nel mese di gennaio, il chiarore delle aurore boreali è meno splendente che in novembre e dicembre. Un’iride appena colorata spuntò dapprima verso il nord-est. Poi delle colonne di fuoco si slanciarono all’orizzonte, percorrendo il firmamento ora lente, ora rapide. Dei fasci luminosi si appresero al cielo, spandendo zampilli immensi di luce, che si scarmigliavano. La luna si circondò di una benda, ora verde-azzurra, ora rosa. Le trasformazioni più imprevedute si successero, e presero forme strane, di un chiarore vario sul fondo bleu-nero profondissimo della notte.

Due giorni dopo, ci fermammo all’imboccatura della Stolbovayask nella Kolima.

Eravamo talmente stanchi, la nostra vettura era talmente avariata, che io ordinai due o tre giorni di riposo, non fosse che per cacciare e provvedere ai nostri bisogni.

Adagiammo il pologhe al ricovero in un’imboccatura di basalto, vicino ad una piccola macchietta di salici erbacei e di rodondendri, costruendogli intorno un riparo di neve per assicurarlo contro la rapacità dei venti. A qualche distanza apparivano yurte di Jakuti. Un vento caldo si levò di un tratto, fenomeno singolare, che ha luogo alla metà del verno nelle vallate della Kolima e dell’Aniuy. La temperatura cangiò di botto, e passò dai 35 o 40 gradi di freddo a 5 o 6 gradi di caldo. [p. 225 modifica]

Profittammo di questo sorriso della natura, che non si prolungò oltre ventiquattro ore per cacciare l’intera giornata con una fortuna mediocrissima, e rientrammo la sera affamati, stanchi e malcontenti. Eravamo in un vimineto, che orla il fiume, quando sembrommi udire il sordo brontolìo di un orso ed il grido acuto di una voce umana. Il mio cuore balzò forte. Avevamo lasciata Cesara sola ed il nostro orso libero, affinchè e’ cacciasse a sua volta e rimuginasse nei buchi dei sorci e delle marmotte sibilanti. Lo Czar era affatto addomesticato, e non temevamo neppur più che ci abbandonasse. Mi fermai di bottoFonte/commento: Pagina:Petruccelli Della Gattina - Le notti degli emigrati a Londra, Milano, Treves, 1872.djvu/376, ed ascoltai. Il grugnire ed il grido risuonarono di nuovo.

— La disgrazia, che temevo, è arrivata, gridò Metek, mettendosi a correre verso il nostro accampamento.

Ne eravamo lontani tre o quattro cento metri ed i cespi dei ginepri ce lo mascheravano. Io seguii, poi precedetti Metek più spaventato di lui. In quattro salti fummo fuori del folto... Orrore!

Innanzi la tenda rovesciata vedemmo Cesara sprofondata nella neve, dibattendosi contro l’orso, che la scalpitava e la leccava orridamente. Non fu che un attimo: Metek ed io avemmo la medesima idea, presi dallo stesso terrore, ed obbliosi delle conseguenze. Prendemmo di mira l’orso: due colpi partirono nel medesimo tempo, e due palle andarono a ficcarsi nel cranio della belva. Essa fece un salto indietro, e cadde supina in tutta la sua lunghezza.

Noi corremmo a rialzar Cesara. Era svenuta.

Metek sollecitò a rialzare la tenda, riaccendere il fuoco. Io allargai le vesti della povera creatura, e [p. 226 modifica]la richiamai alla vita. Dio l’aveva salvata. Cinque minuti ancora, e che sarebbe avvenuto di lei?

Ma la gioia di aver salva la giovinetta si offuscò all’istante, e le successe la disperazione: noi non avevamo più chi tirasse la nostra slitta!