Le notti degli emigrati a Londra/Il conte Giovanni Lowanowicz/VIII
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VIII.
— Padrone, toyone, mi dimandò Metek, il Jakuto, ove bisogna dirigerci?
— Al golfo di Anadyr.
— Quale via volete seguire, la più corta o la più sicura?
Se io fossi stato solo, non avrei esitato un secondo a rispondere: La più corta. Ma io era risponsabile della vita di Cesara. Risposi:
— La più sicura, ma altresì la più corta possibile.
— In questo caso, bisogna seguire la strada del Governo, riprese Metek, per Verkho-Jansk, Baralasse, Jobolask, Zakiversk, Saradakhsk, Srednè-Kolimsk.
— No no. Io amo visitare l’interno della contrada, poco esplorato, poco noto.
— Sta bene, ma siccome non abbiamo sufficienti provvisioni, siccome non troveremo ogni dì una volpe, una renna, un orso, un uccello di buona volontà che voglia servire ad accomodarci un desinare; siccome le notti sono fresche, ed i lupi potrebbero provare una troppo forte tentazione alla vista delle nostre belle renne, così noi non volgeremo il dorso, quando si può, alla yurta dell’indigeno, che ci offre l’ospitalità.
— Questo è pure il mio avviso. Ho visto tante facce russe e cosacche, che sono assetato di contemplare dei buoni volti mantsciù.
— Avete ragione, toyone. Possiamo dunque partire.
— Comperatevi il pane, almeno per tre giorni.
— Non occorre, padrone: io non mangio che ogni quattro giorni, e ancora! Il pane ci caricherebbe, e la slitta è già troppo pesante per le nostre bestie. La corteccia del larice non manca lungo la via, e dessa è eccellente.
— Io pure la penso così; ma ho qui un giovane fratello che non è mica altrettanto ruminante. Nondimeno, se ciò fa peso...
— Sì, la nostra corsa ne sarebbe rallentata... Avremo molte, molte montagne a scalare. Andiamo, colla grazia di Dio!
Io strinsi la mano a Jodelle, che mi parve assai commosso, e partimmo.
I primi giorni passarono a meraviglia. C’intromettemmo per una cinquantina di verste nell’interno della contrada, poi cominciammo a seguire, a questa distanza, la direzione parallela al punto cui miravo. Non ombra di strada. Dei piccoli sentieri, talvolta praticati attraverso lagune, foreste, steppe, sbarratiFonte/commento: Pagina:Petruccelli Della Gattina - Le notti degli emigrati a Londra, Milano, Treves, 1872.djvu/376 da macchie spesse e chiuse, colline e montagne erte.... e ciò fino al letto dell’Anadyr — cinquemila chilometri! Incontrammo qualche ulus, o gruppo di cinque o sei case di Jakuti, spalmate di terra grassa; e se il sole ci salutava di un sorriso, la pietra speculare o il pezzo di ghiaccio delle loro finestre fiammeggiava come lamina di diamante. Il paese si sviluppa per un seguito di pianure e di colline alberate, di piccole vallate, ove la state scorrono chiari ruscelli. Tutto era bianco adesso: solo di qua e di là un ciuffo di larici o di pini. Entrammo in una pianura seminata di piccoli laghi, e ne costeggiammo uno di forma ovale, il Sibeli.
Al di là del lago, appoggiando al sud, procedendo sempre verso l’est, incontrammo come un deserto: rare yurte a destra, montagne separate da valli paludose di forma ondulata. Raggiungemmo presto il Bongo, un fiume che si getta nell’Aldane; ne seguimmo il letto, e, tre giorni dopo la nostra partenza, eravamo sulla sponda di questo fiume. Non volli prendere alcun riposo fin qui. Tiravamo dritto, passando su campi, fiumi, stagni, come sopra una strada liscia, quando le ripe dei corsi di acqua, troppo alte, non ci obbligavano a piccole svolte per scalarle. Non volli entrare in alcuna abitazione umana. Avevo detto che partivo per la caccia. Avevo dunque tre giorni di respiro, prima che il governatore si accorgesse della mia fuga ed ordinasse d’inseguirmi. Bisognava quindi fargli perdere la mia traccia.
Voi avete visto certamente una renna, in qualche giardino zoologico, o in qualche museo di storia naturale. Essa rassomiglia un poco al daino, avendo il muso, il piede e la taglia di un vitello. Essa ha le corna come quelle del cervo, palmate in cima; il pelo baio chiaro, talvolta bianco e brizzolato. Nulla di più elegante che il suo andare. La rapidità della sua corsa è favolosa; al contrario dell’alce, essa vola sugli strati più sottili di neve senza affondare. Discesa o salita, nulla arresta o rallenta la sua corsa. Messa sopra una direzione, essa trova la sua via, senza aver mestieri di esser guidata o condotta. Essa si affeziona all’uomo, di cui è la vera provvidenza, un benefattore in quelle contrade ed in quei climi. Quando la renna è stanca, o quando ha fame, si ferma. La si scapola. Essa va a disotterrare sotto la neve e pascere un po’ di lichene come può; e quando si è riposata e nudrita, viene a prendere spontaneamente la coreggia della slitta. Coraggiosa al lavoro, la renna percorre da trenta a quaranta chilometri di un sol fiato; poi si corica un istante sulla neve, ed un quarto di ora dopo riprende il suo volo di rondine. La sua carne è squisita, sopra tutto la lingua; la sua pelle è preziosa a mille usi.
Mentre le nostre renne andavano a disotterrare il loro nutrimento, noi cacciavamo un istante. Cesara alimentava il fuoco, che avevamo acceso, faceva bollire il calderino pieno di neve, e preparava, col thè, la farina ed un po’ di sale, una densa polenta. Se la caccia era stata prospera, aggiungevamo al nostro desinare un arrosto; se ritornavamo a secco, ciò che non succedeva di rado, il pesce e la carne secca apparivano sul tappeto di neve che ci serviva di tovaglia. Cesara dormiva nella slitta. Io riposavo a fianco a lei un paio di ore. Metek non conosceva queste umane debolezze; tutto al più, ei sonnecchiava un quarto d’ora ogni due giorni, un occhio chiuso ed uno aperto. La neve rifletteva, la notte, un crepuscolo scialbo, che ci permetteva di viaggiare, se il tempo era calmo, il cielo sereno. Incontrammo qualche povero cacciatore col suo cane, e di tempo in tempo, un lupo o due, che ci vedevano passare malinconicamente, non sentendosi tanto forti da attaccarci. Il freddo, quantunque a 28 gradi, non c’incomodava ancora.
A partir dal terzo giorno, io cominciai a respirare più liberamente. Avevo qualche centinaio di verste di vantaggio sui cani dello Czar.
La quarta notte profittammo del ricovero di una yurta di cacciatore. Nevicava così forte, così fitto, che non vedevamo dalla predella la prima renna del nostro tiro. La yurta era orribilmente sudicia e miserabile. I cinque individui, che l’abitavano, portavano il vestito di pelle di montone assai frusto. Un buon fuoco però scintillava nel mezzo della yurta ripiena di fumo. In un vaso bollivano dei pezzi di argali e qualche kavaky. Si mescolò al brodo un po’ di scorza di larice grattato. Metek scelse nel mucchio della cacciagione cruda del nostro ospite una cicogna bianca magrissima, la spiumò, e la mise allo spiedo, che cavò dalla nostra slitta. Cenammo. Cesara preferì coricarsi nella slitta: l’aria del tugurio le parve insopportabile. Metek sorvegliò le renne. Il cacciatore ci disse che vi erano molti lupi e qualche orso nelle vicinanze.
All’indomani, comprai il resto della cacciagione del mio ospite, e partimmo. Metek aveva dormito tre ore. Le renne si erano riposate una notte intera. Cesara aveva avuto freddo. Risalimmo il corso dell’Aldane.
Le sponde di questo fiume, alte ed incassate, ci mettevano al coverto dal vento violento, che soffiava da due giorni. Quando le renne sembravano stanche della spessa neve gelata sulla quale scorrevamo, noi profittavamo di un ribasso degli argini per uscire nel piano. Le renne pascevano; noi addossavamo il pologue a tre pertiche legate alla cima, facevamo un buon fuoco e la cucina. I boschetti di larice, di salice, d’alberella, che corrono lungo le sponde dell’Aldane, si urtavano sotto i buffi dell’uragano. Metek cacciava o fumava il suo ganzi, una specie di pipa cortissima.
Lasciando l’Aldane, risalimmo la Khandugask fino alla sua sorgente, a traverso una doppia fila di scogli. Poi incontrammo un sentiero difficilissimo, in mezzo ad un seguito di alture, tra due catene di monti. Il corso delle riviere, andando all’insù, era particolarmente arduo e talvolta pericoloso. Eravamo sovente obbligati a metter piede a terra ed ajutare le renne a tirar su la slitta, nei siti delle cascate. Talvolta uscivamo dal letto del fiume, e seguivamo quella delle sue rive che presentava minori ostacoli. Tal’altra, a piè della montagna ove il fiume prende la sua sorgente, noi lo lasciavamo, e seguivamo la valle che la contorna. La discesa di queste montagne pietrose era sopra tutto perigliosa. Qualche fiata, la metà della slitta sorpiombava ad un precipizio, mentre che, aggruppati all’altra metà, noi ne equilibravamo il peso, e le renne spossate la tiravano.
Dopo aver varcato, a mezza costa, la montagna ove la Khandugask nasce, sboccammo in una specie di valle seminata di alture. A destra si prolungava una cortina di alti monti nudi, a sinistra la catena delle Alpi, che separa il sistema di acque della Jana da quelle dell’Indighirka. Quelle alture, di cui rasentavamo la base, erano coperte di pini, di abeti, di betulle, che trattenevano la neve dei precipizi; sui versanti pietrosi crescevano il cedro nano, ed i cespi di rododendron. La selvaggina non abbondava, a causa dell’intensissimo freddo.
Appena avevamo spiegato il nostro pologue ed acceso un allegro fuoco, noi uscivamo fuori del letto del fiume, e due ore dopo ritornavamo con una volpe e un meschino gruppetto di magrissimi galli di montagna. La cena era gaia. Il thè caldo sgelavaci, mentre che Metek trovava la sua delizia in una bocconata di tabacco. Ma io mi accorgeva con inquietudine che le nostre renne erano stanche e sopratutto incomodate dal freddo. Eravamo già al principio di dicembre. La corna dei piedi delle nostre bestie si screpolava. Metek fece loro delle galosce col cuoioFonte/commento: Pagina:Petruccelli Della Gattina - Le notti degli emigrati a Londra, Milano, Treves, 1872.djvu/376 raddoppiato di un lupo che avevamo ucciso il dì innanzi. Cesara non poteva più fiatare, senza fortemente tossire. Il tempo divenne crudissimo. Metek non se ne avvedeva neppure; egli cantava, con voce stridente, un lagno malinconico, che sembrava rianimare le renne:
«Dimmi, piccola colomba, — Dimmi colomba dalla piuma nera: — Ove hai tu incontrato coloro che sono iti dalla parte del mare? — Io li ho incontrati sulla vasta spiaggia, sui fiotti, — Sulle bianche torose1 dell’Oceano. — Gli è là ch’essi hanno scoverto una bell’isola! — Gentile colomba, riprendi il tuo volo, e dirigiti verso il mare turchino, — Per dire al mio amante — Che tu hai visto la sua amica versare lagrime amare».
Facemmo alto un dì all’imboccatura della valle, ove l’Arga raccoglie una parte delle sue acque. Fummo assaliti da un caccia-neve, che faceva dar le volte alla slitta ed alle renne. Per fortuna, eravamo nella pianura.
Dal 22 novembre era cominciata una notte, che durò trentotto giorni! La forza della rifrazione, la smagliante bianchezza della neve — non avevamo ancora avuto aurore boreali — temperavano l’oscurità. Ma quando l’uragano di neve batteva la campagna, non si vedeva più ad un metro di distanza.
Ci sembrò esser perduti. Impossibile di fare un passo oltre. Un gruppo di larici e di betulle era ad una mezza versta a sinistra, a piè di una prominenza; Metek ed io prendemmo le renne per la correggia, e, sprofondando nella neve fresca, che cadeva come una sabbia di punte di aghi e ci trapassava, tagliammo la via verso questo ricovero. Lo raggiungemmo. Legammo la slitta, che girava come una trottola, e distaccammo le renne. Non bisognava pensare a spiegare la nostra piccola tenda o accendere il fuoco. Dovemmo contentarci del pesce secco e del biscotto e bere un sorso di acquavite. Non avevo termometro, ma sono persuaso che il freddo toccava i 38 o 40 gradi; perocchè il legno era divenuto duro come ferro, e l’accetta sarebbe andata in pezzi come vetro, se non l’avessimo adoperata con grande precauzione.
I monti che circondavanci, come pure le boscaglie, avevano dei gridi di laceramento: macigni che si fendevano e precipitavano, alberi che schiattavano, rami che si spezzavano nella battaglia, sotto la potenza che li lanciava gli uni contro gli altri. Noi non tremavamo neppure più: eravamo agghiadati, irrigiditi. Metek, egli stesso, pigiava il suolo, e faceva scambietti per darsi un po’ di caldo. Seppellita sotto una montagna di pellicce, Cesara sembrava un pezzo di ghiaccio. Questa terribile calcitrata del verno durò ventisei ore. Infine si calmò alquanto. Le nostre renne, che accollate l’una all’altra, accovacciate vicino alla slitta, non avevano osato andare in busca di una bocconata di crittogama sotto la neve, si allontanarono. Noi spiegammo la tenda, ed accendemmo un immenso braciere. Il thè caldo, qualche pezzo di cacciagione restatoci, un po’ di pemmican sciolto nell’acqua bollente, che ci diede immediatamente un brodo squisito, ci rifocillarono e richiamarono a vita.
Non ostante, e’ non occorreva pensare a partire per quel dì. La gola della valle, quantunque assai larga, era ostruita dalla neve accumulata e profondamente agitata ancora. Le nostre renne restarono assenti per più lungo tempo del consueto. Io cominciava perfino ad esserne inquieto, perchè udivamo l’urlo dei lupi risvegliar tutti gli echi delle boscaglie vicine. Ora, quale non fu la nostra sorpresa, quando, udendo un po’ di rumore presso la tenda, misi fuori la testa, ed in luogo di tre, vidi cinque renne! Tutto indicava che desse avevano già servito, e che, per una ragione o per un’altra, avevano disertato l’antico padrone. Metek non perdette un istante. Uscì dalla tenda, e mise una sbarra ai nuovi ospiti onde non si allontanassero di nuovo. Infatti, quando partimmo all’indomani, noi li aggiogammo tutti al nostro veicolo. Avventuroso rinforzo! cinque giorni dopo, entrammo nel letto dell’Arga. La sera, accampammo sul confluente orientale del fiume, in una yurta di cacciatore Jakuto con la sua famiglia.
Questa famiglia componevasi di cinque individui. Egli è impossibile imaginare alcun che di più miserabile, di più screpolato, di più stomachevole di questa dimora e di questi individui. Il cacciatore aveva avuto il suo cane divorato da un lupo. Le sue lunghe corse erano dunque adesso spessissimo infruttuose. La piccola cacciagione, rarissima ancora, non poteva bastare a nudrir quella gente. Le giovanette portavano una specie di astuccio di pelle d’orso in lembi. La madre, scarna, squallida, cogli occhi stralunati di fame, somigliava a bestia feroce, anzi che a donna. L’uomo soccombeva sotto il peso della rassegnazione, delle privazioni, dei gemiti di questi esseri affamati. Io diedi loro un po’ di pesce secco. Metek sospettò di quegli sventurati, cui la fame poteva cangiare in assassini. E’ fumò tutta la notte, fuori della yurta, a guardia delle renne e della slitta. Il dì seguente, cominciammo a discendere l’Arga.
Il vento era violento. Eravamo al 15 dicembre. Il freddo si era un po’ calmato. Il letto del fiume, ora incassato fra due alti margini, ora a fior di terra, in una steppa immensa che saliva verso il nord, non offriva accidenti insormontabili. Avanzavamo quindi in media da sette ad otto chilometri l’ora. Ad un sito, ove il fiume faceva gomito, ci arrestammo per lasciar pascere le renne e preparare il nostro desinare. Noi facevamo due pasti caldi al dì: l’asciolvere, prima di metterci in cammino, e la cena la sera. Nel mezzo del dì, rosicchiavamo un biscotto, e strappavamo coi denti un lembo di carne salata. La tenda era affumicata e rischiarata ad un tempo dal fuoco dei ginepri verdi che bruciavamo. Io aveva disteso uno strato di piccoli rami rotti sul ghiaccio, e vi spiegavo sopra le molte pellicce della slitta per preparare il letto di Cesara, quando udimmo un rumore intorno al nostro accampamento ed un bramito straziante nel lontano profondo della foresta. Prendemmo le nostre armi, ed uscimmo. Le nostre tre renne tremavano, e si avanzavano dietro la slitta per cercarvi un ricovero; le altre due renne non vi erano più.
— Qualche belva le divora, gridò Metek: andiamo in loro aiuto.
Penetrammo nel boschereccio a gran pena. La neve, meno esposta sotto i rami degli alberi, perciò più cedevole, ci affaticava. Le branche dei salici ci opponevano una siepe fitta, come il traliccio di un paniere. Rompendo questi ostacoli, strisciando a carponi, saltando, brancolando, facemmo qualche versta dalla parte ove il grido delle nostre povere compagne aveva risuonato; ma non potemmo trovar nulla.
— Ritorniamo, dissi io, le renne sono state sbranate, e noi non arriveremmo neppure a tempo per istrappare ai lupi od agli orsi la nostra parte delle vittime.
Continuammo la nostra strada. Il paesaggio non cangiava. Noi guizzavamo come ombre in mezzo a questo aere perso, carico di brina, pesante, cieco, su questo suolo, di cui la stanchevole bianchezza aumentava la tristezza. Di vita, punto. Senza la demenza degli elementi ed il guaito delle foreste, un silenzio assoluto ci avrebbe circondati. Le belve stesse tacevansi, di disperazione forse, forse per non dare l’allarme alle prede, che esse cacciavano con rabbia e non trovavano. L’orso e l’aquila, assiderati, restavano in uno stato letargico. Il volo dei rari uccelli era corto, trascinantesi, timido. Il corvo solo ci seguiva pesantemente, lentamente, lasciando dietro a sè un trascico di vapore, che si allungava come un filo. Infine, dopo parecchi giorni di viaggio, sboccammo nella YndighirkaFonte/commento: Pagina:Petruccelli Della Gattina - Le notti degli emigrati a Londra, Milano, Treves, 1872.djvu/376, al punto ove la si confonde con la Moma.
L’immersione, o piuttosto la discesa da una corrente d’acqua in un’altra, fu penosa. All’imboccatura dell’affluente eravi una barra di rocce, che formavaFonte/commento: Pagina:Petruccelli Della Gattina - Le notti degli emigrati a Londra, Milano, Treves, 1872.djvu/376 una cascata di otto o dieci metri di altezza. L’acqua gelata e la neve soprapposta cangiavano la cascata in un piano inclinato assai rapido, per non dire a picco. Fu mestieri distaccare le renne e farle saltare a parte, poi alleggerire la slitta e farla scivolar giù, ritenendola per di dietro con le corregge delle renne; poi operar la discesa, o piuttosto lo sdrucciolo, di Cesara, il mio e quello di Metek. Ciò ci prese lungo tempo, ma ci procurò un ricovero per la notte. Noi eravamo come al fondo di un pozzo, salvo il corso immenso della riviera, che si apriva dinanzi a noi come un viale a perdita d’occhio. Il vento, che spirava in questo corridoio di granito, era intollerabile. Dico corridoio, perchè le due sponde del fiume erano bastionate di rocce merlate. La tenda fu spiegata, il veicolo raggiustato. Faceva un freddo di 35 gradi, almanco.
Scalammo la ripa a sinistra, la più bassa, ed andammo a cercar dei bruscoli. Le renne ci seguivano. Mentre che Metek trasportava il legno ed allumava il fuoco, e che Cesara si occupava del desinare, io restai per sorvegliare le renne e cacciare. Rimuginando nel selvatico dai cespi intrecciati di ginepri e salici, scoversi sul nevischio gelato della notte precedente una pesta, che mi arrestò. Era il piede di un animale della famiglia dei cervi, che aveva gironzato per là: — forse — mi dissi — una delle nostre renne perdute. Presi a seguire la traccia. Ben presto, Metek mi raggiunse. Era difficilissimo procedere; il chiarore insufficiente limitava la portata dello sguardo. Ma le peste si seguivano. La speranza di una bella preda ci diede lo slancio. Penetrammo sempre più nella macchia, Metek avanti, io dietro a lui. A un tratto, Metek fermossi, e per di dietro fecemi segno colla mano di fermarmi altresì. Guardammo. A un tratto, un alce sbuca da una specie di cespuglio di rododendri e di piante fanerogame, di cui sbioccolava i tralci gelati. I nostri due colpi partirono ad un tempo. L’alce cadde.
Questo bello antilope è al presente rarissimo in questa contrada. Una provvigione così inaspettata e felice ricolmocci di gioia. Ci mettemmo a modo di trascinarlo all’accampamento. Ma come caricare le nostre povere renne di questo soprappiù di peso? Esse avevano già tanta pena a camminare, sia per il freddo, sia per l’insufficienza del nutrimento. Bisognollo nondimeno. Solo, procedevamo più lentamente.
Ci fermammo due giorni per far riposare la nostra muta, regalandoci della carne squisita dell’alce. Poi rimontammo la Moma; e dopo un giorno di viaggio voltammo la corrente a sinistra.
Dinnanzi a noi spiegavasi, a perdita di vista, a destra ed a sinistra, una bastionata di montagne, della forma presso a poco simile alle mezze lune delle piazze forti. Il versante ovest rizzavasi quasi a picco davanti a noi, in distanza, mentre i versanti nord ed est si abbassavano, e disegnavano come delle vallate alberate. Risalivamo la corrente. La superficie della neve gelata era increspata sotto il soffio del vento, che l’aveva agitata quando cadeva. Procedevamo quindi con infinito disagio. Una burrasca secca, che sollevava la neve, ridotta ad un polverio di punte acuminate, ci tagliava la faccia, e percuoteva i fianchi. Le renne non ne potevano più. Io apriva ad ogni momento le store della slitta, perocchè avevo notato una specie di inquietudine sul sembiante di Metek, il quale si volgeva, e guardava indietro. Egli incoraggiava più che mai le renne a correre, col suo lungo scudiscio armato di spuntone.
— Cosa c’è dunque? dimandai io, alla fine.
— Guardate! rispose Metek.
Sporsi il capo fuori della slitta, e vidi tre lupi, a due trecento metri di distanza, seguirci tristamente. Avevano le code abbattute, le orecchie tese in avanti, la testa bassa, e seguitano la striscia che lasciava il nostro veicolo.
— Ebbene, sclamai io, se ci fermassimo per dimandar loro notizie dello Czar?
— Oibò! rispose Metek. Stamane era uno solo che ci teneva dietro. Più tardi ne ho veduto un altro sbadigliare alla vetta dell’argine, e poi si è messo alla coda del compagno. Più tardi ancora, un terzo si è congiunto alla compagnia. E... guardate, toyone, essi sono già quattro! E’ si fermano quando noi ci fermiamo, e conservano la distanza con rispetto. Se facciamo alto per andare a presentar loro le nostre palle devotissime, potrebbe darsi che qualcuno dei loro amici, nascosto dietro quei ginepraj, profittasse della nostra distrazione per precipitarsi sulle nostre renne e scannarle. Continuiamo dunque per la nostra via. Vedremo, alla sosta di stasera, ciò che abbiamo a fare.
Mi arresi a questa ragione. Procedemmo, ma io sporgeva di tratto in tratto il capo fuori della slitta. Il corteggio aumentava. Bentosto i quattro lupi divennero sei, poi otto, poi dieci, poi dodici, poi venti: infine, non potevamo più contarli. La situazione aggravavasi in modo sinistro. Le renne, non so per quale presentimento, acceleravano la corsa. Gli stivaletti, che Metek aveva fatti loro, si erano lacerati, e noi scorgemmo sulla neve la traccia rossa del sangue dei loro piedi. Gli era appunto questo sangue che allettava i lupi e li incocciava ad inseguirci. Essi meditavano un attentato, o si rassegnavano ad aspettare una catastrofe.
La banda dei lupi prendeva, frattanto, proporzioni terribili. Metek diveniva livido. Il crepuscolo si ottenebrava. Le renne volavano, saltando sugli ostacoli, di cui il letto della Moma era gremito: quarti di macigni, alberi, banchi di ghiaccio sovrapposti, formanti torri, barricate, bastioni. Noi ci trascinavamo dietro un corteggio di almeno dugento lupi. Riempivano il letto del fiume, marciando parecchi di fronte, e permettendosi oramai di tempo in tempo un ululato, cui l’eco ripercuoteva e moltiplicava. Era un appello. Suonavano la carica. Bande dietro bande dalla foresta accorrevano: le volpi dietro i lupi; i corvi sull’insieme.
Noi percorrevamo per lo meno quattordici verste all’ora.
Infine raggiungemmo la gola dei due monti, ove la Moma attinge la sua sorgente. A un tratto le nostre renne caddero al suolo: esse non potevano andar più oltre.
E’ fu come se un generale avesse gittato il grido: All’assalto!
Metek, io, Cesara stessa, armata di revolver, ci schierammo intorno alla slitta.
I primi lupi, che avanzarono, furono fulminati. Noi tiravamo nel mucchio: non un colpo era perduto. Una montagna di cadaveri ci fece presto una barricata; un ruscello di sangue colava intorno a noi. Nulla valse: eravamo circondati da gole formidabili, armate, spalancate, affamate, livide, gettanti urli che ci atterrivano. Cesara caricava i fucili; col coltellaccio alla mano, noi sventravamo i lupi che si avvicinavano. Nulla valse: no, nulla valse.
Mentre lottavamo da un lato, altri lupi si precipitavano sulle nostre sventurate renne, e, con un colpo di zanna, aprirono loro la jugulare. Esse gittarono un bramito lamentevole, che ci lacerò il cuore. Giammai in vita mia, in alcuna circostanza, io ho risentito un dolore più dilaniante. La banda intera si scagliò allora sulla preda. Noi mietevamo le teste come spighe. I brani di carne volavano all’aria.... A un tratto, un grugnito formidabile risuonò di fianco a noi, sul limitare della selva. Erano due orsi, uno bruno ed uno grigio.
— Ah perchè non siete arrivati prima — gridò Metek con una voce di rimprovero, arringando gli orsi — briganti.... vigliacchi...
E non continuò la sua frase...
Note
- ↑ Montagne di ghiaccio nel mar Glaciale.