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lo schifiltoso, se glielo proponessi, disse ella. Non è vero, ninì?

Il fuoco scintillava. Io sollevai il lembo che serviva di porta al pologhe. L’orso, solidamente legato ad un corno della roccia, allungò il capo, e parve incantato del fuoco che ci affumicava come prosciutti. Cenammo con una parte dell’anca dell’alce, messa sulle brace, che restavaci ancora. L’orso non volle gustare di carne cotta, ma rotolò fra le sue zampe enormi l’enorme osso scarnato, divertendosene come di un trastullo. Poi fe’ scricchiolar sotto i denti con diletto un biscotto. Noi bevemmo del thè; e’ si contentò fiutarlo con curiosità. L’aspetto di Cesara, messo a nudo, fece brillare i suoi occhi d’un insolito scintillio, malgrado ciò dolce e tenero. E’ si allogò all’ingresso della tenda, e la sbarrò.

Metek assicurò che l’orso erasi oramai affezionato a noi, e che non si avviserebbe a riprendere la libertà. Non pertanto, siccome esso era la nostra vita, così decidemmo che Metek lo sorveglierebbe, mentre io dormiva, e che alla mia volta, io gli terrei compagnia, mentre che Metek sonnecchierebbe. Ciò fu fatto.

Il dì seguente riaccendemmo il fuoco, facemmo colazione, demmo un pezzo di renna al nostro amico, cui io battezzai col nome di Czar, e partimmo. Lo Czar lasciossi carezzare da Cesara, lasciossi attaccare alla slitta, senza la minima dimostrazione di cattivo umore, e si mise a trottar gaiamente, non avendo bisogno di essere toccato dallo zenzero. Viaggiavamo con una celerità media di dodici chilometri all’ora.

Percorrevamo una pianura interminabile, qua e là interrotta da qualche collina. L’intensità del freddo