Pagina:Petruccelli Della Gattina - Le notti degli emigrati a Londra, Milano, Treves, 1872.djvu/232

volta la via. L’orso, fremente di collera concentrata, dava colla testa in giù contro questi ostacoli, e si precipitava negli anditi che gli s’aprivano dinanzi. Eravamo scossi terribilmente.

— L’andrà, l’andrà, disse Metek, e si mise a cantare.

La stanchezza, piuttosto che il canto, moderò l’ardore del nostro salvatore. Esso regolò il suo andare ad una specie di galoppo, che un vincitore di Derby non avrebbe disdegnato. Temevamo di vedere ad ogni istante il nostro veicolo andare in pezzi. Il pericolo aumentò, alla discesa nella valle che separa il corso delle acque dell’Indighirka da quello della Kolima. Lambivamo i precipizi, ove l’orso voleva slanciarsi di partito preso. Metek lo tratteneva con mano di ferro, ed il collare, stendendosi, lo strangolava. Bisognava allora addolcirlo. Io uscii dalla slitta e lo carezzai. Cesara fece altrettanto, ad un passo ove la slitta bilicava sur un baratro, ritenuta unicamente dalla trazione. Ella osò passare la sua mano sul grugno appuntito dell’orso. Ciò fu veramente magico.

— No, sclamò Metek con un grido istantaneo, il vostro giovane fratello è una piccola sorella.

Stupefatto da queste parole, io non trovai nulla a rispondere. Sorrisi.

— Ciò è una grande fortuna ed un gran pericolo, rispose Metek. Vedremo.

Infrattanto, la corsa dell’orso si regolava. Solamente, esso fermavasi di tempo in tempo, e volgeva la testa verso la slitta. A digiuno da dodici ore, noi osammo allora mordere un biscotto ed un lembo di carne salata, gelata.