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Viaggiammo così due giorni.

Avevamo traversato sempre paludi gelate, boschi cedui quasi impenetrabili, montagne dalle creste frangiate, burroni irti, fiumi torrenziali d’estate, ora gibbosi, e scorgendo di lontano in lontano qualche yurta affamata. La terribile notte di trentotto giorni cessava alfine. Eravamo al 28 dicembre, e vedemmo all’orizzonte una luce, come l’alba del mattino, ma così pallida, che lo splendore delle stelle non era punto affievolito. Queste deboli apparizioni del sole rendevano il freddo più vivo, senza bandire i moroki, o nebbioni densi, prodotti dai venti del nord. Avevamo avuto rarissime notti serene. Dinanzi a noi si allineava una formidabile cortina di montagne, dietro la quale scorre la Kolima. Nella pianura sterminata elevansi delle colline più o meno alte, più o meno coniche e arrotondate a foggia di cranio. Il paesaggio non cangiava mai; gli accidenti non diminuivano. La nostra stanchezza era estrema. Una notte di riposo ci sembrò indispensabile. Da sessantasei ore non avevamo preso nulla di caldo.

Facemmo alto a pie d’un poggio, che ci offriva uno scavato fra due massi. Distaccammo l’orso dalla slitta, ma non gli demmo la libertà. Mentre io innalzava il pologhe e Metek tagliava le legna pel fuoco, Cesara dalla slitta teneva la correggia dell’orso, al quale io aveva presentato amichevolmente un pezzo enorme delle nostre renne. L’orso parve riconoscentissimo di questa gentilezza previdente, e mangiò il suo pasto pulitamente, senza premura, senza dare alcun segno di ghiottoneria. Si accostumava esso alla sua sorte? Cesara lo carezzò.

— Ma! e’ si lascerebbe baciare, senza far troppo