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zodì. Stavamo per intraprendere l’ascensione di un’erta montagna, da quella parte della catena degli Stanovoi, che termina, traversando le tundras, allo stretto di Behring. E’ fu dunque mestieri ora scalare o girare enormi massi, esponendoci ad ogni istante a scivolare nei precipizi, ora a varcare crepacci colmi di neve, nei quali talvolta affondavamo, ora aprirci la via con delle scaleFonte/commento: Pagina:Petruccelli Della Gattina - Le notti degli emigrati a Londra, Milano, Treves, 1872.djvu/376. Volgemmo la montagna a mezza costa, attraverso un selviccio di pini sparuti. Ma, spuntando sul versante orientale, un colpo di vento, spruzzando dall’imo degli abissi come un milione di razzi, ci prese di assalto. Ci sentimmo sollevati da terra ed atterrati: uomini, slitta, orso, tutti fummo capovolti. Se i pattini della slitta non si fossero appiccati a qualche arbusto di cedro nano, noi eravamo gittati nei precipizi, o disparivamo in una tromba verso le nuvole.

Corremmo immediatamente a rialzare l’orso, che era lì per fracassar tutto ed accelerare il nostro capitombolo nei burroni. La correggia del suo collare erasi svolta: esso saltò in piedi, e noi potemmo raddrizzare meglio la slitta coricata sulla neve. Lavoravamo con una mano, avvinghiandosi coll’altra agli sterpi, oscillanti essi stessi sotto la bufera.

Fu mestieri torcer cammino e cercar un ricovero nella macchia, dietro i macigni. L’uragano durò ventiquattr’ore. Il freddo, malgrado il fuoco enorme che avevamo acceso, ci penetrava, e c’impediva di uscir fuori della tenda. E noi avevamo a nutrir l’orso! La carne dell’alce e della renna era terminata. La nostra provvigione di biscotto toccava la fine. Il pesce ed la carne secca, il pemmican erano una risorsa troppo preziosa per destinarli ad alimentar l’or-