Le femmine puntigliose/Atto III

Atto III

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Atto II Appendice

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ATTO TERZO.

SCENA PRIMA.

Camera solita nella locanda, con tavolino e lumi.

Donna Rosaura e Don Florindo.

Florindo. Tant’è, voglio sfidare alla spada quel mangione del conte Onofrio.

Rosaura. Quando lo volete sfidare?

Florindo. Subito, domani mattina.

Rosaura. Mi parrebbe di commettere un’azione indegna, se restassi a Palermo sino a domani. Mandate subito a prendere il carrozzino; ordinate che attacchino i quattro cavalli, e avanti che suoni la mezza notte, usciamo da questa città.

Florindo. E mi persuadereste partire senza un qualche risentimento? [p. 172 modifica]

Rosaura. Questa è una cosa alla quale tocca a pensare a me.

Florindo. Ci devo pensar io, che sono vostro marito.

Rosaura. No, Fiorindo, fidatevi questa volta di me. Può essere che mi riesca far le vostre vendette, senza sfoderare la spada.

Florindo. Eh, che per fare a vostro modo, sinora ho fatto delle bestialità; non voglio che mi meniate più per il naso.

Rosaura. Ora non vi domando di secondarmi per un capriccio, per un piacere, ma solamente vi chiedo che, siccome sono io stata la cagione di questo male, lasciate fare a me a procurare il rimedio.

Florindo. Ditemi che cosa avete intenzione di fare.

Rosaura. No, non lo voglio dire. Bastivi sapere che il pensiero è tutto mio, che la vendetta è sicura, e che mancherà il tempo di farla, se inutilmente ci trattenghiamo.

Florindo. Dunque che abbiamo a fare?

Rosaura. Mandate subito a ordinare il carrozzino con i quattro cavalli1.

Florindo. E la roba?

Rosaura. La roba si consegnerà al padron dell’albergo, e la manderà poi a Castellamare.

Florindo. Volete far uccidere qualcheduno?

Rosaura. Eh, pensate! La vendetta ha da essere senza sangue.

Florindo. Io non vi so capire.

Rosaura. Sollecitate, e saprete la mia intenzione.

Florindo. Brighella? (chiama)

SCENA II.

Brighella e detti; poi Arlecchino.

Brighella. Lustrissimo.

Florindo. Va subito alla posta, ordina nuovamente il carrozzino con i quattro cavalli, e di’ al postiglione che venga immediatamente, poichè voglio da qui a pochi momenti partire. [p. 173 modifica]

Brighella. A st’ora? Sala che sarà tre ore de notte?

Florindo. La porta si farà aprire2. Va subito; non tardare.

Brighella. (Oh, cossa che vol rider el postiglion!) (parte)

Rosaura. Bravo, ora vedo che mi volete bene e che vi fidate di me.

Florindo. Ma si può sapere che cosa abbiate intenzione di fare?

Rosaura. Or ora lo saprete. Moro?3 (chiama)

Arlecchino. Comandar.

Rosaura. Ascolta bene ciò che ti ordino, e bada di non fallare4.

Arlecchino. Mi star omo, mi no fallar.

Rosaura. Informati dove è il palazzo della contessa Eleonora del Poggio. Introduciti bel bello nel primo ingresso, e domanda a quei servitori se colà vi sono ancora le dame, ch’erano al festino della contessa Beatrice, e portami subito la risposta5.

Arlecchino. No voler altro?

Rosaura. Questo e non altro; mi preme subito.

Arlecchino. In do salti andar e in quattro salti tornar. (parte)

Florindo. Dunque le dame, che erano al festino, sono andate dalla contessa Eleonora?

Rosaura. Così mi ha detto il cocchiere.

Florindo. E voi che pensate di fare, dopo che sarete di ciò assicurata?

Rosaura. Gran curiosità! Lo saprete da qui a poco tempo.

SCENA III6.

Brighella e detti.

Brighella. Ho trovà el postiglion per strada. Gh’ho dà l’ordine e adessadesso el sarà qua.

Florindo. Presto; mettiamoci all’ordine. [p. 174 modifica]

Rosaura. Io monto in carrozzino tale qual mi vedete.

Brighella. Gh’è l’illustrissimo sior conte Lelio, che li vorria reverir.

Rosaura. Digli che non ci sono.

Florindo. Sentiamo che cosa dice.

Rosaura. Non lo voglio ricevere.

Brighella. Cosa gh’oio da dir?

Rosaura. Digli che non ci siamo, e se non lo crede, digli che io non lo voglio ricevere.

Brighella. La sarà servida. (parte)

Florindo. Credete che il conte Lelio abbia colpa nell’affronto che ci hanno fatto?

Rosaura. O colpa, o non colpa, non voglio più nessuno di costoro d’intorno7. Vado nella mia camera, e quando viene il carrozzino, avvisatemi.

SCENA IV.

Don Florindo, poi Brighella.

Florindo. Ora conosce mia moglie la pazzia che aveva nel capo; spero che ciò le servirà di regola e per l’avvenire non darà8 in simili debolezze.

Brighella9. L’è andà via.

Florindo. Che cosa ha detto?

Brighella. El s’ha accorto benissimo che no i l’ha volesto, e l’ha dito mastegando: Questo è quello che si avanza a usar finezze a questa sorta di gente.

Florindo. A questa sorta di gente? Giuro al cielo! Mia moglie dice di vendicarsi, ma non so che cosa farà e dubito di qualche freddura; anch’io voglio cavarmi una soddisfazione. Senti, Brighella, so che sei uomo, e che farai con esattezza quanto ti ordino.

Brighella. La comanda pur, e la vederà se so far.

Florindo. Sei pratico di Palermo? [p. 175 modifica]

Brighella. Ghe son stà tanti anni.

Florindo. Sapresti ritrovarmi quattro bravi uomini, che fossero buoni da menar le mani?

Brighella. Alla bettola se ne trova quanti se vol.

Florindo. Tieni. Questi sono sei zecchini: trova quattro uomini, dà loro uno zecchino per uno, conducili al palazzo della contessa Eleonora, e ordina ad essi che bastonino tutti i servitori che escono da quella casa10.

Brighella. I servidori?

Florindo. Sì, i servitori.

Brighella. Che colpa gh’ha11 i poveri servidori?

Florindo. Questa è una vendetta che ho veduta praticare da molti. Bastonar il servo, per far un affronto al padrone.

Brighella. Poverazzi! I me fa peccà.

Florindo. Se lo fai, guadagni li due zecchini12; se non lo fai, ti licenzio dal mio servizio.

Brighella. Lo farò, ma confesso el vero che me dispiase, perchè l’è un pan che me poi esser reso anca a mi. (parte)

Florindo. Almeno potrò vantarmi di aver fatto una quanche vendetta; si parlerà almeno di me con qualche stima, con qualche rispetto.

SCENA V13.

Pantalone e detto.

Pantalone. Se pol vegnir? (di dentro)

Florindo. Venite, venite, signor Pantalone.

Pantalone. L’ho cercada per tutto a bonora, per dirghe una cossa de premura, e no l’ho trovada. Se l’avesse trovà in tempo, poi esser che avesse podesto prevegnir un desordene, che sento a dir che sia nato. Xe la verità14 che gh’è stà fatto un affronto? Giera a casa15, e i me lo xe vegnù a contar16. [p. 176 modifica]

Florindo. Pur troppo è la verità.

Pantalone. Se la me avesse bada a mi, no ghe saria successo sto inconveniente.

Florindo. Causa mia moglie.

Pantalone. Causa el mario, e no la muggier. Col mario no segonda, la muggier no pol gnente.

Florindo. Basta, avete fatto bene a venirmi a favorire, mentre aspetto il carrozzino e subito parto.

Pantalone. La farà come stamattina.

Florindo. Non ci è pericolo.

Pantalone. E la consorte cossa disela?

Florindo. È stata ella che mi ha fatto risolvere a partir subito.

Pantalone. Ah, donca la va via per conseggio della muggier? Co la lo fa perchè la muggier lo conseggia, anca sta volta la farà un sproposito.

Florindo. Mi persuadereste voi ch’io restassi17 a Palermo?

Pantalone. Sior sì, stamattina l’averia persuaso a andar via; stassera ghe digo che el doveria restar qua.

Florindo. Da che nasce la varietà della vostra opinione?

Pantalone. Dalla varietà delle circostanze. Stamattina l’andava via avanti che ghe fusse stà fatto18 sto affronto, e la so partenza giera un atto de virtù, che prevegniva i disordini. Adesso che l’affronto è seguìo, la so partenza xe un atto de viltà, che mazormente faria rider i so nemici.

Florindo. Prima però di partire, daremo segni del nostro risentimento.

Pantalone. Come, cara ela?

Florindo. Mia moglie ha in mente il disegno di vendicarsi a dovere, senza far strepito.

Pantalone. Ecco qua; tutto la muggier. Mo cossa xelo elo? La me perdona, un pappagallo19?

Florindo. Io per la mia parte ho fatto quello doveva: e domani si saprà che ho spirito per risarcire le offese fattemi20. [p. 177 modifica]

Pantalone. Poderavela a un omo che ghe vol ben, come mi, confidar qual sia la so resoluzion?

Florindo. Ho mandato quattri uomini a bastonare i servitori di quelle dame e di quei cavalieri, che al festino mi hanno fatto l’affronto.

Pantalone. Oh bella vendetta! Veramente eroica e da omo de garbo! No me posso tegnir, bisogna che diga quel che sento, e la me cazza via se la vol, che la gh’ha rason. Per un affronto recevudo dai patroni, far bastonar i servitori? Con che rason? Con che lezze? Con che conscienza? Che colpa gh’ha i servitori in tei mancamenti dei so patroni? A questo la ghe dise risarcimento dell’offesa? A questo mi ghe digo ingiustizia, crudeltà, barbarità; ghe digo maltrattar l’innocente, senza vendicarse dell’offensor. Ma po, se parlemo della vendetta, che razza de vendetta xe questa? Ghe voi assae a trovar quattr’omeni, che a sangue freddo bastona quella povera servitù? Sior Florindo caro, tutte pazzie, tutti inganni della fantasia, inganni dell’ambizion, che lusinga i omeni e ghe dà da intender che la vendetta più facile sia la più vera, e che per vendicarse del reo, sia lecito opprimer anca l’innocente.

Florindo. Ma dunque21, che specie di vendetta mi consigliereste voi che io facessi?

Pantalone. Prima de tutto ghe dirò che la vendetta non xe mai cossa lecita in nissun tempo, in nissun caso. Ma molto manco quando l’offesa provien da qualche principio, che giustifica l’offensor. Me spiego. L’uso de squasi tutti i paesi del mondo xe che in te le conversazion, in te le reduzion, dove se raduna la nobiltà, no se ammetta chi no xe nobile. Mi no ghe digo adesso se sta usanza sia bona o cattiva, perchè no voggio intrar in t’una disputa de sta natura, ma ghe digo ben che bisogna uniformarse al costume; e se la nobiltà, che xe garante de sto so privilegio, per mantegnirlo in osservanza gh’ha fatto un affronto, l’offesa no se pol dir prodotta da un’ingiustizia, ma più tosto cercada da chi l’ha recevuda22. [p. 178 modifica]

Florindo. Dunque, da quel che dite, io ho torto.

Pantalone. La gh’ha torto seguro a pretender quel che nò se ghe convien.

Florindo. Il male l’ha fatto la contessa Beatrice, la quale per cento doppie ha preso l’impegno d’introdurci nelle adunanze23di nobiltà.

Pantalone. Benissimo, el so risentimento la lo revolta contro la contessa Beatrice.

Florindo. Per questo voleva sfidare alla spada il conte Onofrio, suo marito.

Pantalone. Coss’è sta spada? Coss’è sta spada? Anca ela xe de quei che crede che un duello possa resarcir ogni offesa? che una sfida sia bastante a render la reputazion a che l’ha persa? Pregiudizi, errori, pazzie! Sala come che la s’averia da vendicar in sto caso? Ghe dirò mi. Farse dar in drio le cento doppie che i gh’ha magnà. Star qualche zorno a Palermo; spender, goder, star allegramente con zente civil e da par soo, senza curarse de andar colla nobiltà. Far veder che la cognosse el so dover e buttar la broda adosso della contessa Beatrice. Procurar de far servizio a qualche zentilomo, se la pol; reverirli tutti e respettarli, senza desmestegarse24. In sta maniera a poco alla volta tutti ghe correrà drio, e allora la poderà tornar a casa contento, e la poderà dir: no son stà in pubblico colle dame e coi cavalieri, ma le dame e i cavalieri m’ha fatto delle onestà e delle finezze in privato.

Florindo. Questa è una cosa, che mi piace infinitamente; ma non so che cosa avrà risoluto mia moglie.

Pantalone. Mo no la se lassa dominar dalla muggier.

Florindo. Sentirò la di lei intenzione: se sarà uniforme al vostro buon consiglio, l’approverò; quando no, cercherò d’impedirla.

Pantalone. La fazza quel che ghe detta la so prudenza; mi no so più cossa dir. Son vecchio, xe tardi, vago a casa e vago a dormir. Se la vol bezzi, la manda; se la va via, ghe [p. 179 modifica] auguro bon viazzo; se la resta, se vederemo doman. Ghe auguro la bona notte, bona salute, e la me permetta de dirghe, meggio condotta e un poco più de giudizio. (parte)

Florindo. Che25 buon vecchio è il signor Pantalone; mi ha veramente penetrato nell’animo. Non vorrei che Brighella avesse già eseguito il mio ordine, e le bastonate a quei poveri servitori fossero corse. Anderò io stesso, e se sarò in tempo, l’impedirò; vado e torno in un momento, senza che mia moglie lo sappia. (parte)

SCENA VI26.

Notte.

Strada con porta del palazzo della contessa Eleonora27.

Brighella con quattro Uomini intabarrati.

Brighella. M’avè inteso; un zecchinetto per uno28, e bastonètutti i servitori che vien fora de sto palazzo29.

Bravo. E se venissero a sei, a otto, e bastonassero noi?

Brighella. Usè prudenza. Tolèli, co i vien a uno, a do alla volta.

Bravo. Credo che dopo il primo, non ne potremo aver altri.

Brighella. Fe quel che podè. Tolè i vostri bezzi, che mi no vôi altri fastidi. A revederse. (parte)

Bravo. Ritiriamoci dietro di questa casa e aspettiamo che n’esca uno. (si ritirano)

SCENA VII30.

Arlecchino dal palazzo della contessa Eleonora, poi i quattro Uomini rimpiattati31.

Arlecchino. Aver inteso, aver inteso. Star tutte dame palazzo. Andar subito dir patrona. [p. 180 modifica] (Escono li quattro uomini e bastonano ben bene Arlecchino, sinchè egli cade in terra, e poi partono) Ahi, aiuto, chi star? Chi me aiutar? No saver gnente. Lassar vita, lassar vita. Aimè star morto, star morto. (cade in terra)

SCENA VIII32

D. Florindo e detto.

Florindo. O Brighella non è ancor qui capitato, o l’ordine è già corso. Parmi veder un uomo disteso in terra.

Arlecchino. Star morto, star morto. (con voce fiacca)

Florindo. Fosse mai uno dei servitori che ho fatto bastonare? Me ne dispiacerebbe infinitamente.

Arlecchino. Star morto, star morto. (come sopra)

Florindo. Galantuomo, chi siete voi?

Arlecchino. Morto, morto.

Florindo. Moro, sei tu?

Arlecchino. No star moro, star morto.

Florindo. Oh povero sventurato! Dimmi, sei stato forse bastonato?

Arlecchino. Ahi, patron; povero moretto! Tanto tanto bastonar. (s‘alza un poco)

Florindo. Chi ti ha dato?

Arlecchino. Mi no saver. Ahi! brazzi tanto doler.

Florindo. Dove andavi? Da dove venivi?

Arlecchino. Esser vegnù de palazzo, e andar da padrona per risposta portar. Ahi, quanto doler!

Florindo. Ora capisco. È uscito33 dal palazzo della Contessa, gli uomini trovati da Brighella l’avranno creduto un servo dei cavalieri, e lo hanno bastonato. Ecco il solito effetto della vendetta; cade sempre in danno del vendicatore. Levati, povero moro, levati.

Arlecchino. No poder.

Florindo. Vieni qui, che t’aiuterò. [p. 181 modifica]

Arlecchino. Caro patron. Poveretto, moretto, tanto bastonar. (s’alza)

Florindo. Andiamo, ti farò medicare.

Arlecchino. Maledetto chi ha fatto mi bastonar, possa diavolo portar chi fatto mi bastonar. Chi mi fatto bastonar, possa per boia impiccar. (parte)

Florindo. Tutte queste imprecazioni vengono a me. Tutti gli innocenti oppressi gridano vendetta contro i loro oppressori. (parte)

SCENA IX.

Stanza in casa della contessa Eleonora, con tavolini, lumi e sedie.

La contessa Eleonora, la contessa Clarice, il conte Ottavio.
Cavalieri e Dame a sedere indietro, giocando.


Clarice. Può darsi temerità maggiore di questa? Una mercantessa sedere in mezzo di tante dame?

Eleonora. E di più ballare il primo minuè? Principiar ella il ballo?34

Clarice. È una cosa che fa inorridire. Pare impossibile che si dia un caso di questa sorta.

Ottavio. Circa il ballo, è stato il ballerino che ha mancato al suo dovere.

Clarice. Meriterebbe colui che gli si facessero romper le gambe, acciò non ballasse più.

Eleonora. Io son capace di fargli fare questo servizio.

Ottavio. Gli fareste una bella35 burla.

Eleonora. Pezzo d’asino! Non sa come si tratta! Il primo ballo36 toccava a me.

Clarice. O a voi, o a me. (le Dame che sono indietro, ridono)

Eleonora. Sentite quelle signorine: credo che ridano di noi. (a Clarice)

Clarice. O di voi, o di me.

Ottavio. Eh, che non ridono di alcuna di voi. Or ora si attaccano fra di loro). (da sè) [p. 182 modifica]

Eleonora. Ma di tutto è causa la contessa Beatrice.

Clarice. Veramente la contessa Beatrice si è portata malissimo.

Eleonora. Qualche gran cosa l’ha messa in quest’impegno.

Clarice. Una raccomandazione di un gran ministro.

Eleonora. Per veder d’impiegar37 suo marito.

Clarice. Vedrete che quanto prima avrà qualche carica.

Eleonora. Dopo che ha mangiato tutto il suo, anderà a mangiare quello degli altri.

Ottavio. Signore mie, questa è mormorazione.

Eleonora. Oh, il signor precettore!

Clarice. Il signor morale!

Ottavio. Non parlo più.

SCENA X.

Il conte Lelio e detti.

Eleonora. Oh signor protettore, che fa la sua castellana?

Lelio. Non mi parlate più di colei.

Clarice. Che vuol dire? Sì è disgustato?

Lelio. Spiacendomi d’averla veduta partire in quella maniera dalla festa di ballo, sono andato a casa per ritrovarla, e mi ha fatto dire che non vi era e non mi ha voluto ricevere.

Clarice. Vostro danno.

Eleonora. Imparate a servire delle mercantesse.

Ottavio. Si sarà vergognata, e per questo non vi avrà ricevuto, non già con intenzione d’offendervi.

Eleonora. Mi volevo maravigliare, che il signor Conte non la difendesse. (verso Ottavio)

Ottavio. Non parlo più.

Lelio. Mai più m’impaccio con questa sorta di gente.

Eleonora. Contino, giacchè non vi è la contessa Beatrice, dite, vi dava qualche poco nel genio, non è così?

Lelio. Se vi ho da confessare la verità, non mi dispiaceva. [p. 183 modifica]

Eleonora. Ehi! Come è andata?

Lelio. Non ho avuto tempo.

Clarice. Per altro...

Lelio. Figuratevi.

Eleonora. Regali le ne avete fatti?

Lelio. Più d’uno.

Clarice. Se lo sa la contessa Beatrice, povero voi.

Eleonora. Che dice Beatrice di noi?

Lelio. È nelle furie al maggior segno38.

Eleonora. Merita peggio.

Lelio. Anzi voleva venire a trovarvi qui.

Clarice. Doveva venire, che ci avrebbe sentito.

Eleonora. Farla sedere nel primo luogo!

Clarice. Farla ballare il primo minuè!

Ottavio. M’aspetto che di questa gran cosa ne parliate ancora da qui a dieci mesi.

Eleonora. Quanto vogliamo noi.

Clarice. Che caro signor correttore!

Ottavio. Non parlo più.

SCENA XI.

La contessa Beatrice e detti.

Beatrice. Brave, brave, avete fatto una bella cosa.

Eleonora. Voi l’avete fatta più bella.

Clarice. Abbiamo sofferto anche troppo.

Ottavio. (Ora viene la bella scena). (da sè)

Eleonora. Andarla a mettere al primo posto.

Beatrice. Ecco lì il signor protettore, l’ha messa lui39. (verso Lelio)

Eleonora. Bravo.

Clarice. Bravissimo.

Lelio. Io non ho fatto questa cosa. Non ero io il padrone di casa.

Beatrice. Se sapeste tutto; è innamorato morto di colei40. [p. 184 modifica]

Eleonora. E voi lo soffrite?41 (a Beatrice)

Beatrice. Che volete ch’io faccia? Me l’ha saputa dare ad intendere; son di buon cuore, non ho potuto dire di no.

Lelio. (Non sanno niente del negozio delle cento doppie). (da sè)

Eleonora. E poi, cara Contessa, farla ballare il primo minuè?

Beatrice. Questa è colpa del ballerino.

Clarice. E voi ve la passate con questa disinvoltura? Non gli fate romper le ossa?

Beatrice. A quest’ora credo se ne sia pentito.

Lelio. Sì signora, ha avuto di già il suo castigo. Egli è a tavola col conte Onofrio, che si mangia i fagiani.

Beatrice. Briccone! Me la pagherà. Ma voi altre che siete amiche, piantarmi così? Andarvene senza dir nulla?

Eleonora. In queste cose non vi vogliono complimenti.

Clarice. Vi andava del nostro decoro.

Beatrice. Eh via! che siete puntigliose.

Eleonora. Brava, siamo puntigliose? Perchè non l’avete condotta qui quella signora di tanto merito?42

Beatrice. Per me non la tratterò più certamente.

Clarice. Non avete impegno con un ministro?

Beatrice. Quando devo dirvi tutto, l’ho fatto per compiacere unicamente il caro signor conte Lelio.

Eleonora. Sicchè il signor conte Lelio è causa di tutto.

Clarice. Non vi credeva capace di ciò. (a Lelio)

Lelio. (Se potessi dir tutto, non parlereste così). (a Beatrice)

SCENA XII.

Donna Rosaura e detti.

Eleonora. Come!

Beatrice. Qui?43

Clarice. Che temerità è questa? [p. 185 modifica]

Rosaura. Signore mie, per grazia, per clemenza. Non vengo in conversazione, non vengo per frammischiarmi con voi, vengo a chiedervi scusa, vengo a domandarvi perdono.

Ottavio. Oh via, signora donna Rosaura, questo è troppo.

Rosaura. Conte Ottavio, giacchè voi mostrate essere penetrato dalla mia umiliazione, impetratemi voi da queste dame la grazia di poter parlare, assicurandole44 che non eccederà il mio discorso il periodo di pochi minuti; che alla porta della mia casa45 vi è il carrozzino che mi attende per ritornare alla patria mia; e che non venendo io per trattenermi in conversazione, ma per dar loro una ben giusta soddisfazione, posso essere ascoltata, senza offendere le leggi rigorose delle loro adunanze.

Ottavio. Signore mie, che cosa dite? Siete persuase dell’istanza, senza che vi aggiunga niente del mio, per indurvi ad ascoltare una donna che con tanta civiltà ve ne supplica?

Eleonora. Sentiamo che cosa sa dire.

Ottavio. Parlate, signora donna Rosaura, queste dame ve lo permettono.

Rosaura. Ringrazio queste dame della loro bontà; le ringrazio delle finezze che alcuna di esse si è degnata farmi in privato, e le ringrazio della libertà che mi danno, di poter per l’ultima volta ad esse in pubblico favellare46. Confesso io aver estese troppo le mire, allorchè mi sono lusingata di poter essere ammessa alla loro conversazione; ma spero sarò compatita allora che farò noti i motivi, dai quali è derivata in me una tale lusinga. Primieramente è rimarcabile essere io allevata in un luogo, ove per ragione del commercio, non vi è certa rigorosa distinzione degli ordini, ma tutte le persone oneste e civili si trattano a vicenda, e si conversano senza riserve; onde non è temerità l’aver io sperato, con qualche maggior difficoltà, poter essere ammessa fra le dame di questa città. Di ciò per altro mi sarei facilmente disingannata, se da persone illibate e sincere fossi stata meglio istruita, e delle vostre leggi avvertita. [p. 186 modifica] Quello che dalle leggi è proibito, non si può col denaro ottenere; quello che si può ottenere col denaro, non si deve credere direttamente opposto alla legge. Onde, se mi fu esibito a contanti l’onor della vostra conversazione, son compatibile, se ho creduto aver anch’io il diritto di potervi aspirare. Parlo senza arcani, mi levo la maschera, e a chi duole, suo danno. La contessa Beatrice con cento doppie mi ha venduta la sua mediazione, e a questo prezzo mi ha assicurato l’accesso alla conversazione delle dame. O ella mi ha ingannato, o voi le avete fatta un’ingiuria. Nel primo caso siate voi stesse giudici della mia ragione; nel secondo, pensi la contessa Beatrice a risentirsi con voi, e giustificarsi con me. Io nulla voglio47, nè da lei, nè da voi. Bastami avervi fatto noto, che non sono nè pazza, nè debole, nè presontuosa. Il carrozzino mi aspetta, mi sollecita mio consorte, torno alla patria, e porterò colà la memoria delle vostre grazie e della mia disavventura48; anzi, in ricompensa della bontà che ora avete dimostrata per me, permettetemi che vi avvertisca, che più di quello avesse potuto pregiudicare al decoro vostro la mia bassezza, deturpa il vostro carattere e la vostra società una dama ingannatrice e venale. (parte)

SCENA XIII49.

I suddetti, fuori di Donna Rosaura che è partita.

Beatrice. A me questo?50

Eleonora. Fermatevi, contessa Beatrice, non inveite contro di essa, senza prima giustificarvi. Avete voi avuto le cento doppie?

Beatrice. Le cento doppie le ho vinte per una scommessa.

Eleonora. E che cosa avete scommesso?

Beatrice. Cadde la scommessa sull’ora del mezzogiorno.

Eleonora. Eh, che non si scommettono cento doppie per queste freddure! Se le aveste perse, come le avreste pagate?

Beatrice. Se nol credete, chiedetelo al conte Lelio. ( [p. 187 modifica]

Eleonora. Conte, in via d’onore, da cavaliere qual siete, e sotto pena di essere dichiarato mendace, se non dite la verità, narrate voi la cosa com’è.

Lelio. Voi mi astringete a farlo con un forte scongiuro, e la signora donna Rosaura mi fa arrossire con i suoi giusti risentimenti. Contessa Beatrice, voi avete avuto le cento doppie per introdurla, ed io per mia confusione ho stabilito il contratto.

Beatrice. E voi, in prezzo della mediazione, avete avuto l’orologio d’oro.

Ottavio. Oimè! Che orribili cose ci tocca a’ giorni nostri a sentire! Una dama vende la sua protezione, mercanteggia sull’onore della nobiltà, mette a repentaglio il decoro della città, della nazione, dell’ordine nostro, del nostro sangue? Un cavaliere non solo tollera e permette che si profanino i diritti delle nostre adunanze, ma vi coopera, e vi presta la mano, e ne promuove gli scandali? Dame, cavalieri, ascoltatemi: osservare minutamente i puntigli, è cosa che qualche volta ci pone in ridicolo; ma conservare illibato il nostro ordine, questo è il vero puntiglio della nobiltà.

Lelio.(Il rimorso mi confonde. Il nuovo sole non mi vedrà più in Palermo). (da sè, parte)

Beatrice. A una dama mia pari si fanno di questi insulti?

Eleonora. Tacete, che le dame non trattano come voi.

Beatrice. Domani ne parleremo.

Ottavio. Domani vostro marito sarà chiamato da chi s’aspetta.

Beatrice. (Domani anderò in campagna, e non mi vedranno mai più)51. (da sè, parte)

SCENA ULTIMA.

La contessa Eleonora, la contessa Clarice, il conte Ottavio,
Dame e Cavalieri.

Ottavio. Signore mie, per rimediare in parte al discapito della nostra riputazione, direi che fosse ben fatto unire fra di noi [p. 188 modifica] le cento doppie, e farle avere alla signora Rosaura, prima della sua partenza. Io ne esibisco trenta, che tengo in questa borsa. (fa vedere una borsa con Varie monete)

Eleonora. Per parte mia, eccone sei. (mette sei doppie nella suddetta borsa)

Clarice. Ed io ve ne posso dar otto. (fa lo stesso)

Ottavio. E voi, dame, e voi, cavalieri, concorrete a quest’opera degna di noi? (va dai Cavalieri e dalle Dame, e tutti gli danno denari) Ecco raccolte le cento doppie. Anderò a presentarle per parte della nobiltà alla signora donna Rosaura.

Eleonora. La contessa Beatrice non la pratico più.

Clarice. Nemmen io mi degno più di farmi vedere con lei.

Ottavio. In questa occasione non disapprovo che facciate le puntigliose. Non è decoro delle persone onorate trattar con gente venale, che non sa sostenere il suo grado. Ognuno cerchi di conversare con chi può rendergli egual onore; ma niuno aspiri a passar i limiti delle sue convenienze, servendogli d’esempio il fatto comico di donna Rosaura.52

Fine della Commedia.


Note

  1. Nell’ed. Bett. segue subito: «Flor. Io non la so capire»
  2. Nell’ed. Bett., dove la scena si svolge a Firenze: La porta Romana di questa città sta aperta sino alle sei.
  3. Bett.: «Ehi, lacchè». Comincia poi sc. III: «Lacchè. Illustrissima. Ros. Ascolta bene ecc.»
  4. Segue in Bett.: «Ros. Informati ecc.»
  5. Segue in Bett.: «Lacchè. Subito sarà servita. Flor. Dunque le dame ecc.»
  6. Nell’ed. Bett. è sc. IV.
  7. Bett.: per i piedi.
  8. Bett.: non darà più.
  9. Comincia nell’ed. Bett. la sc. V.
  10. Bett.: da quel casino.
  11. Bettin.: ghe n’ha mo.
  12. Bettin. e Paper.: li due zecchini, che avanzano.
  13. Nell’ed. Bett. è sc. VI.
  14. Bett. e Pap.: Com’è? Xe la verità ecc.
  15. Bett.: alla bottega del caffè.
  16. Bett.: e l’ho sentio a dir.
  17. Bett.: Ma voi mi persuadereste restar.
  18. Bett.: che i ghe fosse.
  19. Bett.: un pampalugo?
  20. Bett.: per risarcirmi.
  21. Bett., Pap. ecc. aggiungono: signor Pantalone.
  22. Bett.: e meritada da chi l’ha recevesta.
  23. Bett.: d’introdursi nelle riduzioni.
  24. Addomesticarsi, affratellarsi: v. Boerio cit.
  25. Bett.: Gran.
  26. Nell’ed. Bettin. è sc. VII.
  27. Bett.: Strada che conduce al pubblico casino.
  28. Bett.: per omo.
  29. Bett.: casin.
  30. In Bett. sc. VIII. Vedi Appendice.
  31. Paper.: intabarrati.
  32. Continua nell’ed. Bett. la sc. VIII. Vedi Appendice.
  33. Paper.: Il povero diavolo è uscito.
  34. Bett.: Principiar lei la festa?
  35. Bett.: brutta.
  36. Bett. e Paper.: minuetto.
  37. Bett.: d’impegnar.
  38. Bett.: È in tutte le furie.
  39. Pasq. e Zatta: l’ha messa.
  40. Bett.: di quella cara Livornese.
  41. Segue nelle edd. Bett., Paper, ecc.: «Clar. E voi gli fate la mezzana? alla medesima».
  42. Bett.: non l’avete condotta al casino la signora Livornese?
  43. Bett.: Cosa vedo?
  44. Bettin.: di poter parlare. Assicuratele ecc.
  45. Bett.: di questo casino; Paper.: di questo palazzo.
  46. Bett.: parlare in pubblico.
  47. Bett.: Io non voglio altro.
  48. Bett.: sfortuna.
  49. Continua, nell’ed. Bett., la sc. XII.
  50. Bett. e Pap. aggiungono: Temeraria, a me questo?
  51. Altra è la fine di questa scena, e della commedia, nelle edd. Bettinelli e Paperini, come si vede in Appendice.
  52. Vedasi l’Appendice.