Le fantasie/Ragguagli storici

Ragguagli storici

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Agli amici miei in Italia I
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RAGGUAGLI STORICI1


Chi legge la storia delle Repubbliche Italiane del medio evo, per poco non si crede trasportato ai tempi meravigliosi della Grecia libera. Così splendidi esempi di valore ne’ combattimenti, di fermezza nelle risoluzioni, di longanimità ne’ più disperati patimenti; quella secura fiducia dell’uno contro i dieci, meriterebbero bene che tanto si conoscessero, se ne scrivesse, se ne parlasse, quanto d’ordinario non si conoscono, se non se ne parla, non se ne scrive. Se non che le tenebre e la ruggine, che sembrarono coprir quei tempi; la fatica delle ricerche per la complicazione dell’argomento storico; e più la direzion primitiva delle scuole (ora vien ponendosi già di moda), che ne volgeva esclusivamente ai tempi eroici greci e romani, furon cagione, noi crediamo, della nostra indifferenza per un’epoca a noi più vicina, per la storia di famiglia, direm così, di noi Italiani d’oggigiorno.

E per fermo, più che le glorie romane, da noi divise per lungo volger di secoli, per disformità di religione, d’abitudini, di lingua e di sangue, nostre sono veramente le glorie degli italici repubblicani, di cui si parla. Nel lungo giro di tempo, che le racchiude, l’epoca la più nobile forse e la più mirabile; quella certamente del più importante momento, unico nella succession de’ secoli, in cui la penisola già quasichè tutta accozzata, poteva liberamente decretare l’assoluta sua indipendenza in futuro; corse all’Italia fra gli anni 1154 e 1183. Nel quale spazio di tempo, si rappresenta un dramma del più alto interesse: uno nell’azione, svariato negli episodi; e di cui possiam seguire man a mano, col rincalzar del suggetto, la proposta, il viluppo e lo scioglimento. — Vediamo da principio quel [p. 30 modifica]Federigo Barbarossa, immagine vivente della tedesca rabbia; pure, secondo que’ tempi, eccellente capitano, fortissimo soldato, e, in qualche caso d’eccezione, generoso cavaliere: il quale, signoreggiato da dirotta ambizione per una parte, e dall’altra preoccupato a non saper riconoscere nei politici reggimenti altra tempra, che quella dell’assoluto dominio e del servaggio assoluto, discende in Italia con possente nerbo di forze, e con magnifica baronia. Apre la scena, guastando campagne, struggendo ricolti ove che passa; alcune città rasando, tutte offendendo e taglieggiando. Evoca dalla polvere ogni guisa di diritti regi, e ne fa un’arme contro ai popoli in mano de’ suoi luogotenenti. Dopo di che, coronatosi re d’Italia in Pavia, e a Roma imperator d’Occidente, ripassa in Germania.

Poi torna a visitare l’Italia: con 100,000 combattenti espugna Brescia; batte Crema con arieti, a cui avea fatto prima sospendere penzoloni gli ostaggi tolti da quella città; assedia Milano che disperatamente resiste, poi si arrende per fame. Era nato intanto scisma ne’ latini, per la doppia elezione di papa Alessandro e dell’antipapa Vittore. Puntellando Federigo costui, ch’era suo cagnotto, i Milanesi, schiacciati sì ma non domi, forti del favore del legittimo pontefice, risorgono alla testa del partito guelfo, ch’era quello insieme della religione e della causa italiana. Di qui Federigo osteggia nuovamente la capitale lombarda; la quale, dopo prodigi di valore, dopo un’ultima sortita degli assediati, in cui l’imperator medesimo fu scavalcato e ferito, è forzata arrendersi, per manco di viveri, a discrezione del nemico. Al quale fu rassegnato aste, bandiere ed esso stesso il Carroccio, mentre una processione innumerevole di sacerdoti, di vecchi, di donne e ragazzi, con croci supplichevoli in mano, secondo l’usanza dei tempi, prosternandosi a terra, ponevano l’anime loro in mano del vincitore. Questi, dopo tenutili in quell’ansia, peggior del danno, per alcuni giorni, sentenziando finalmente, consacrò la città all’esterminio. Fu vacuata dai dolorosi abitanti, e ripartitine da smantellare i quartieri fra altrettante bande della soldatesca. Edifizii pubblici e privati, archi, case, tempii, monumenti, mura, bastite, non rimase in pochi giorni sasso sopra sasso; e sul nudo suolo fu sparso il sale, a documento di sempiterna sterilità. Gli abitatori vennero spartiti, a guisa di mandre, in quattro borgate, che furon comandati di fabbricarsi, quattro miglia discosto dalla distrutta città. Per un riscontro a questo quadro, Federigo con a fianco l’imperatrice, coronato il capo, con gran pompa [p. 31 modifica]di spettacoli, torneamenti e conviti, trionfava a Pavia; poi ritornava tra’ suoi Germani.

Ma questa vittoria, per grande, appena era che pareggiasse il foco d’indipendenza e di patria, che sopravviveva ad ogni più fiero caso in cuore degli italici repubblicani; rafforzato dal sentimento religioso e nudrito dalla virtù di papa Alessandro. Di che, gli estremi mezzi adoperati ad ispegnerlo, dovean farsi in quella vece fomite e cemento dell’italiana libertà. Tanto inaudita sciagura avea già aperto ai generosi profughi di Milano le porte ed i cuori d’esse stesse le città che parteggiavano per l’impero: ravvistesi del quanto fosse da attendere dal loro padrone, amico o nemico.

Il quale tornando per la terza volta in Italia, più con gran splendore di corte che con forza di eserciti, a dimostranza di securo imperio e a ludibrio de’ vinti; deliberarono i Milanesi e i Veronesi di tentare, prima che altro, un ultimo sperimento: invocarne colle croci e cogli omei la misericordia, e con rispettose supplicazioni la giustizia. Ed egli i Veronesi ributtar con disdegno: le istanze dei Milanesi accôrre con un cotal garbo di pacifico signore, e rimetterle ai suoi consiglieri; ed essi stessi farne quel che i ministri di cosiffatti padroni. Dopo di che, piegava nell’Emilia dalla banda di Fano.

Le città lombarde videro allora che non era da sperar salute che nel lasciare ogni speranza, e tennero una consulta. Federigo, avuta voce di queste commozioni, diè la volta, raccozzandosi intorno le milizie lombarde che credeva a sè fedeli; ma disanimato al tentennare di queste, ed assalito dai popolani della Marca veronese, abbandonò il campo, e si ritrasse in Alemagna.

Donde, dopo covate lunga pezza le sue vendette, ridiscendeva con poderoso esercito in Italia. Fatto cauto dai propri esperimenti, non si gettò di presente sulle città nemiche, ma con segrete pratiche tentò di dividerle: onde postato tra Bologna ed Ancona, vi si consumava sei mesi, lasciando dietro di sè impuniti i Lombardi, e Roma a fronte, ch’erasi ribellata. Profittando di quel suo stare, primi i Veronesi mandarono loro deputati per tutte le città amiche, proponendo un’assemblea generale dei rappresentanti di ciascheduna. Designarono a convegno un monistero posto tra Milano e Bergamo, appellato da San Giacomo in Pontida, e vi si furono congregati il dì 8 d’aprile di quell’anno 1167. Erano Veronesi, Vicentini, Padovani, Trevisani, Cremonesi, Bergamaschi, Bresciani e Ferraresi. [p. 32 modifica]

I Milanesi, tuttavia nelle quattro aperte borgate, mandavano pregando con istanza grande che, anzi tutto, fussevi statuito di rendere loro la patria: così fortificati, avrian potuto dar la vita novellamente per la comune libertà. I deputati, memori di quanto avea operato e sostenuto quel popolo generoso per la causa di tutti, ne diedero fede solenne in nome delle rispettive città. Indi divisarono la formula del giuramento, che doveva essere riportato a ciascun parlamento di città; e, come approvato, così da ciascheduno individuo ripetuto. Giuravano alleanza contro chiunque attentasse alle libertà e privilegi d’una o di tutte le città; di non dover conoscere salvezza che dall’armi; di non le deporre, quanto durasse il bisogno, che colla vita.

Intanto che i deputati, ricondottisi alle loro città, convocavano i parlamenti, i Milanesi sguerniti d’arme e di mura, rimanevano alla balìa dei finitimi Pavesi, rivali antichi e nemici. Era già divulgatasi l’inchiesta fatta a Pontida, ed ogni momento poteva riuscir ad essi l’estremo. E ne avean pure a tempo a tempo intenzione, per gli avvisi che quei di Pavia andavano porgendo ai Milanesi da loro ospitati. Quando finalmente, il giorno diciannovesimo dal convegno di Pontida, il dì 27 di quell’aprile medesimo, apparvero a vista della borgata di San Dionigi dieci cavalieri di Bergamo cogli stendardi del comune, susseguiti d’altrettanti stendardi di Brescia, Cremona, Mantova, Verona e Treviso. Conseguitavano le milizie, recanti l’armi pei Milanesi. Subitamente tutti gli abitanti delle quattro borgate si levarono con grida altissime di gioia; e, come per istintiva determinazione, si furon portati di conserva ai luoghi dov’era dianzi Milano. Prima di dar opra alle abitazioni, procacciarono lo sgombramento della fossa e la ricostruzione delle mura. Le milizie della Lega Lombarda (presero allora questa denominazione) non si dipartirono come prima non ebber visti i Milanesi sufficientemente assicurati al difuori. La lega, continuandosi alla sua impresa, si aderì a forza, poichè gl’inviti non fruttarono, la città di Lodi che parteggiava saldamente per l’imperatore, da cui riconosceva il rialzamento delle proprie mura, state prima distrutte dalla rivale Milano. Di Pavia, o che il tenerla non estimasse di suprema importanza, o ne riputasse gli animi omai fracidi nell’imperiale ossequio, non fu parlato. Espugnò quindi il castello di Trezzo, situato tra Milano e Bergamo, entro cui stava il tesoro imperiale alla custodia di genti tedesche, e commise altre fazioni alla spicciolata. [p. 33 modifica]

I Lombardi, temprati alle sciagure, venuti finalmente dalla diversità e dalla incertezza degli intendimenti in una unica e fortissima risoluzione, aiutati da cotidiani successi, sorgevano ogni dì più e più caldi di novella vita; di modo che, prima che la campagna si chiudesse, la lega lombarda noverava Venezia, Verona, Vicenza, Padova, Treviso, Ferrara, Brescia, Bergamo, Cremona, Milano, Lodi, Piacenza, Parma, Modena e Bologna. Quest’ultima città avea dovuto consegnare trenta ostaggi e pagare una ingente taglia a Federigo; ma come appena l’ebbe sgombrata, per recarsi sopra Roma, i cittadini ne avean cacciato il podestà imperiale ed unitisi alla lega.

Federigo arrivava intanto sotto le mura di Roma; prendeva la città Leonina; ma era sopratenuto in faccia alla basilica vaticana, tramutata in fortezza. Vana tornando l’opera delle catapulte, mandò alle fiamme la propinqua chiesa di Santa Maria che, minacciando istantaneamente la basilica medesima, ne procacciarono la resa.

Il papa spaventato si racchiuse nel Coliseo co’ Frangipani: e quindi per isfuggire non il popolo lo forzasse ad abdicare per gratificarsi il vincitore, scendendo nascostamente per il Tevere sino al mare, si fu ridotto a Benevento. Come i Romani seppero la fuga di lui, calarono agli accordi, e giurarono fedeltà all’impero, salvi i diritti del senato romano.

Ma i Tedeschi, soliti di importar seco la peste in Italia, a questa volta se la presero dall’Italia. Eransi posti in campo nei gran calori della state, quando il clima, non pur ai nordigiani, ma si fa mortifero agli indigeni medesimi. Sorse la febbre maremmana, malattia terribile di natura, raggravata ancora nelle menti tedesche da spaventosi fantasmi, che ne rincalzavano le stragi; stava loro sugli occhi la incenerita chiesa di Santa Maria, le fiamme che ripercotendo la facciata della Vaticana, ne avean distrutte le immagini miracolose di Gesù Cristo e di san Pietro; risuonavano a’ loro orecchi gli anatemi del pontefice: i preti se ne facevan profitto ad esagitarli e conquiderli interamente. In breve i principali dell’impero e dell’esercito, duchi, conti, vescovi, meglio di duemila gentiluomini, soldati in proporzione, perirono. De’ sopravvissuti, parte s’eran ritratti alle patrie case, parte rimanevan tuttavia, ma affitti da fievolezza e terrore.

Solo Federigo opponeva il suo gran cuore a tanto infortunio. Confidava i malati alle cure dei Romani; e raggranellati i pochi valevoli all’arme, attraversando Toscana e penetrando le Alpi Apuane, si riduceva in [p. 34 modifica]Val di Magra. Chiuso tra ’l mare e le montagne, disperava omai della via, quando il marchese Malaspina, fattosegli incontro, tramezzo alle gole montagnose de’ suoi feudi il condusse a salvezza in Pavia.

Dove bandì incontanente una dieta. Non v’intervennero deputati che di Pavia, Novara, Vercelli e Como, e il sopradetto marchese Malaspina con altri cinque feudatari. Decretò ribelli le citta federate, e gittando il guanto in mezzo dell’adunanza, pose disfida alla lega lombarda.

Quindi, alla testa dei vassalli intervenuti, corse quella parte del Milanese che confina a Pavia. D’altro lato le citta italiche, congregata l’assemblea, contrapponevano alla disfida imperiale un novello giuramento, con cui s’obbligavano a scacciare terminativamente d’Italia il tiranno. Da Lodi e da Piacenza mossero i cavalli ch’erano quivi stanziati, e i fanti da Milano. Federigo, non osando di commettere una battaglia campale coi pochi lanzi rimastigli, si buttava alla guerra di partito: finchè estimando men degna d’un imperatore questa guisa di pugnare contro chi e’ chiamava ribelli, nel marzo del 1168 si ricondusse in Germania, con tanto segreto e celerità, che avea già attinte le terre di Savoia, prima che uno ne avesse sentore. Dove, passando per Susa, fu astretto dai paesani a rilasciare tutti gli ostaggi che traeva con sè; nè consentitogli di progredire, infinoatantochè non si furono cerziorati che, dei trenta cavalieri sottosopra che il seguitavano, nessuno apparteneva all’Italia.

Dileguatosi Federigo, cadde affatto il partito imperiale, che più omai non teneva che al prestigio del suo nome. Quindi i repubblicani espugnarono il castello di Biandrate, liberatine gli ostaggi. Novara, Vercelli, Como, Asti, Tortona, i feudatari di Belforte e del Seprio, e il marchese Malaspina si accostarono alla lega. Non rimanevano che Pavia e il marchese di Monferrato. I quali piuttosto che ridurre coll’armi, i confederati deliberarono di rendere innocui con facendo dono alla lega d’una nuova citta, che eressero dai fondamenti nella magnifica pianura al confluente del Tanaro e della Bormida, sul confine dei sopradetti due Stati; la quale posta loro a cavallo, ne avrebbe intercise le comunicazioni, e signoreggiatili. Tutte le milizie di Cremona, Milano e Piacenza si misero all’opera; deviarono le acque dei fiumi circostanti in una larga fossa di circonvallazione, eressero baluardi di creta saldati con trecce di paglia, costruirono case: e, chiamativi gli abitatori dei circostanti villaggi, dieder loro diritto municipale, popolare reggimento, e voce [p. 35 modifica]nella confederazione: la città appellarono Alessandria dal nome del pontefice capo della lega: dopo un anno gli Alessandrini posero in campagna quindicimila combattenti d’ogni arma.

Intanto Federigo, al nord, intendeva a cavare da quella officina del genere umano una sesta armata, che dovea pure andare in dileguo, tanto ch’ei si facesse coniare anche la settima ed ultima sua. Ma le batoste italiane avevano un cotal po’ rallentato le ruote di quella macchina; di che, corsero sei anni prima che la fosse potuta rimettere in movimento. Nel mezzo tempo, l’imperatore non rimaneva di tentare con divise pratiche quando il papa, quando l’una, quando l’altra delle città: ma fu invano; elle proseguirono il loro proposto, e distendendosi al mezzogiorno, si aderirono davantaggio le città della Romagna, Ravenna, Rimini, Imola e Forlì.

Finalmente, nell’ottobre del 1174 Federigo si mosse; e superate le alpi Savoiarde, calando in Italia dal monte Cenisio, incendiò Susa, espugnò Asti, e pose il campo davanti Alessandria, ingrossato dalle milizie pavesi e del marchese di Monferrato. Non iscorgendo che la difendessero se non se un largo fossato e bastioni di creta, ordino l’assalto: gli imperiali vennero ributtati al di là delle loro baliste; queste prese ed incendiate, e volto in fuga l’esercito. Federigo s’incocciava, come più crescevano le resistenze. Erano indarno le piogge dirotte; le paludi, le nevi, il freddo crescente a dismisura, le diserzioni, la fame, le malattie; indarno il consigliar de’ suoi: di nulla disanimato, non rimetteva del suo proposto. Quattro mesi durò; nessun ingegno pretermise; da ultimo erasi volto alla mina, che avea fatta condurre per lungo tratto, malgrado le paludi e la rea stagione, con tanto scaltrimento, che non prima gli assediati se ne addiedero, che gl’imperiali fossero sbucati nell’interno della piazza.

Ma prima di questo avvenimento, la dieta lombarda convenuta a Modena, aveva avvisato alla liberazione della città, e fatta la massa a Piacenza di tutte le forze delle repubbliche; le quali si mossero a mezza quaresima con buon seguito di carra cariche di vittovaglie, mentre un convoglio di battelli rimontava le acque per far capo al Tanaro. La domenica delle Palme (1175) sostarono presso Tortona, dieci miglia discosto dall’accampamento di Federigo; il quale, disperato dell’impresa, piegò la superba alterezza dell’animo suo alle arti del tradimento. Chiese una tregua per feriare il venerdì santo: e, abusando la fede del giuramento, fece nella notte sbucare i suoi drappelli pe[p. 36 modifica]l’aperte gallerie. Le scolte, avvistesene, diedero l’allarme. I cittadini, rincalzati dallo sdegno, uomini, donne, si fanno addosso ai nuovi venuti, li uccidono, o capovolgono dai bastioni: quei ch’erano in viaggio, rimangono soffocati sotto il terreno smotato. Poi, dalle aperte porte si lanciano su quei di fuori, li fugano e danno il fuoco alle macchine.

Federigo, posto tra gli assedianti e l’armata lombarda, distrusse nella notte gli attendamenti, e il dì di Pasqua si mosse per a Pavia. Vedeva l’anima sua in mano omai degli alleati, ma comprendeva altresì la forza prepotente di un’inveterata opinione. Giunto a vista dei Lombardi, fece far alto, e come amico si pose a campo. Eglino che eransi atteggiati a combatterlo nemico, poichè l’ebber visto con confidenza quasi di padrone benevolo in mezzo a loro, tentennarono in prima: poi, vinti all’idea dell’imperiale maestà, cansarono la giornata. Il dì appresso, per alcuni nobili non sospetti, ricevettero proposizioni d’accomodamento. Federigo «salvi i diritti dell’impero» porrebbe la causa in mano d’arbitri scelti dalle parti. Le repubbliche «salva la devozione alla chiesa e alla libertà» acconsentivano. Si congedarono da parte e d’altra gli eserciti. L’imperatore si trasse a Pavia, i Lombardi alle case proprie. Si proseguirono le pratiche; Federigo nel mezzo tempo non mancò, quant’era da lui, di suscitare sotto mano le sopite rivalità, e di dividere con arti sottili gl’interessi delle repubbliche: pure, ciò che sembra aver allontanata la conchiusione finale, riferisce alle vertenze tra lui e il pontefice.

Ma quando era tuttavia sul trattare, comandava alla Germania un esercito novello. I suoi vescovi, principi, conti avean già ragunati i vassalli. Dieder le mosse in primavera (1176), e cansando la via dell’Adige guardata dai Veronesi, sbucavano dai Grigioni giù per l’Engadina, Chiavenna e Como. Dove Federigo, attraversando sconosciuto il Milanese, veniva a porsi loro in testa, davanti a Legnano, castello nel contado del Seprio. Univa a sè Comaschi, Pavesi e Monferratini. I Milanesi, esposti i primi alle offese, non rimisero della loro virtù. Sin dai gennaio avean fatto rinnovare il giuramento federale; instaurate elette coorti di cavalli; una delle quali chiamata della Morte, a cui erasi votata piuttosto che dar dietro; un’altra detta del Carroccio, composta di trecento giovani delle più notabili famiglie, stretti da un medesimo sacramento: gli altri cittadini tutti spartiti in sei corpi, seguitavano gli stendardi delle sei porte.

Il dì 29 di maggio seppero l’imperatore non più di [p. 37 modifica]quindici miglia discosto dalla città. Non aveano per ancora ai loro aiuti che i Piacentini, ed alcune centurie di Verona, Brescia, Novara e Vercelli, quando trassero fuori il Carroccio, dirizzandosi contra Federigo per al lago Maggiore. Poco stante, settecento cavalieri, spintisi innanzi a spiare, s’abbatterono in trecento lanzi, sui quali fecero impeto; ma sopraggiunti dalla battaglia, retrocessero a rotta verso il Carroccio. I Milanesi, visto sferrarsi contro di loro a galoppo i cavalli tedeschi, si poneano ginocchioni, pregando a Dio, a san Pietro e a sant’Ambrogio; poi a bandiere spiegate si moveano contra il nimico. La compagnia del Carroccio vacillò un istante, e di tanto vi furon sotto gl’imperiali, che per poco non cadde loro in mano2: a cotal vista, la compagnia della Morte, ripetuto ad alta voce il giuro di morir per la patria, si lanciarono sulle coorti tedesche con tal foga, che n’ebbero atterrato lo stendardo imperiale, e balzato di sella Federigo medesimo che combatteva nella prima fronte, e inseguitolo fuggente co’ suoi, pel tratto di ben otto miglia. Tedeschi, e con esso loro Comaschi difettivi alla patria comune, o furon posti al fil delle spade, o precipitati nel Ticino, o fatti prigioni: bottino ingente nel campo. Federigo non fu trovato tra’ fuggitivi; i suoi fedeli ne cercarono indarno la persona o il cadavere: l’imperatrice rimasta a Pavia, aveva già vestite le gramaglie.

Dopo tre giorni, ricomparve nella città fedele, solo, scornato, diviso dal suo esercito già distrutto o disperso, e costretto a parlar pace, da pari a pari, con quei ribelli coi quali poco innanzi non credeva a sè dicevole di comunicare che coll’organo delle verghe e delle catene.

Eran già scorsi anni ventidue da che, scendendo in Italia, le avea posto a partito o l’assoluta obbedienza, o la distruzione; e in quel giro di tempo, avea cavati dal fondo della Germania sette eserciti poderosi; un buon mezzo milione d’uomini era sceso nell’arme per lui, e del proprio sangue pagato l’onore di servirlo; e questo dramma terribile, di cui sè e l’Italia avea fatto spettacolo, e spettatrice l’Europa, dopo la peripezia di Legnano, accaduta vicino a poche miglia a quei luoghi stessi dov’era apertasi l’azione, s’affrettava alla sua conchiusione colla pace di Costanza. [p. 38 modifica]

Ma primamente, al papa (e fu questo sottile accorgimento), mandò Federigo in Anagna, chiedendo pace: e l’ottenne. Così si riabilitava in faccia a’ suoi del pregiudizio delle censure; e riusciva tanto quanto ad isolare il pontefice dagli interessi delle repubbliche, fra le quali i partigiani imperiali non ristavano poi dal suscitare destramente gli antichi mali umori. Il papa e la lega se ne addiedero, e pressarono le conferenze. Le quali seguirono (1177) con magnifiche pompe in Vinegia. Fu ratificata la pace fra la chiesa e l’impero: fermata una tregua con Sicilia pel corso di quindici anni, e di sei colla lega lombarda; intanto continuerebbe lo statu quo. Per in fine nel 25 giugno del 1183 fu sottoscritta la pace di Costanza, colla quale venne riconosciuta la indipendenza delle repubbliche italiane, e la confederazione di quelle. Ma per quella forza reverenda della opinione, ch’era negl’italiani di allora, della indefettibilità dell’impero (che avean però osato di combattere e di sconfiggere in fatto), si ritenner tuttavia le formule di alto dominio, diritti regali, ec. Lo che fu pietra di scandalo, e porta, alle successive pretensioni degli imperatori; le quali condotte, secondo il costume, con preconcepita e non mai discontinuata politica, furon poi nel tempo potute colorire agevolmente, con ogni guisa di mezzi che stanno a mano del potere, per l’antica piaga delle rivalità e delle divisioni tra’ fratelli d’un medesimo sangue: e in cima a tutto, perchè le città non sapendo a quei tempi vedere più in la dell’idea della indipendenza dallo straniero, non cadeva pur loro in mente di doverla cementare all’interno coi saldi ordini politici, che soli vagliono a garantirla, e a far sì che la libertà non sia più che un nome vano. Gl’Italiani di allora eran più inchini alle forti opere, che non alle speculazioni politiche: gli Italiani presenti son più tratti alle idee che all’oprare3.

Dalla magnifica tela che abbiamo disvolta, nei due punti saglienti della congiura di Pontida e della giornata di Legnano, prese il Berchet subbietto a’ suoi dipinti storico-poetici. Nel che fare, non s’appigliò allo spediente d’infarcire la storia colla favola, per darne poi ciò che non fosse bene nè l’una, nè l’altra; ma con pennello forte e creatore procacciò di sbozzare alcuni tratti storici animati e viventi, sponendo in iscena personaggi che furono, secondo la natura lor vera; altri di pura creazione cavandone dalla fantasia, fog[p. 39 modifica]giati dietro le ragioni dei tempi, li destinò a rappresentare individualmente una data epoca, una data località: ad essere i simboli viventi delle qualità morali e politiche dell’età loro. La storia dirà se quel Lombardo che muore, sia un’espressione fedele delle attitudini morali del secolo duodecimo: come gl’Italiani d’oggigiorno potranno vedere se l’altro Italiano, che vien dopo a riscontro, renda immagine dello spirito e dei caratteri del secolo presente.

Vogliano i discreti condonare all’interesse dell’argomento la loquacità di questi ragguagli. Qual si è poi conoscitore dei nostri annali, se non trovasse a revocar, leggendo la memoria di questa luminosissima delle epoche italiane, quel compiacimento che provammo noi stessi ritraendola, queste linee sieno a lui per non iscritte. Chè noi crederemo tuttavia di non aver sciupata al tutto l’opera nostra, quando pur fossero di qualche opportunità a pochissimi tra i molti o i pochi, che leggeranno questa poesia; più lieti ancora, se mai saran seme che, anche ad un solo, fruttifichi il desiderio di conoscere per lungo e per largo la storia (che pur da ogni Italiano dovrebb’essere conosciuta) delle Repubbliche Italiane del medio evo del signor Sismondi, dalla quale abbiamo, per la maggior parte, compilati questi ragguagli. «Perchè niun popolo più di voi (gridava il Foscolo da ben oltre trent’anni agl’Italiani) può mostrare nè più calamità da compiangere, nè più errori da evitare, nè più virtù che vi facciano rispettare, nè più grandi anime degne d’essere liberate dall’obblivione.»

GLI EDITORI

Note

  1. Nota — Benchè questi ragguagli non escano dalla penna dell’illustre autore, tuttavolta crediamo opportuno di riprodurli, sembrandoci necessarii a spiegare più diffusamente un fatto luminoso della storia italiana.
  2. È tradizione volgare che in quel momento tre colombe, spiccatesi dalla cappella del santi Sisinio, Martirio ed Alessandro, venissero a porsi sull’alto del carroccio; di che, ricevuto ad augurio, i Lombardi si rinfrancassero, e cadessero gli animi nei Tedeschi.
  3. Rammenteremo al lettore che questi ragguagli furono pubblicati nel 1832, edizione di Londra.